Prospettive assistenziali, n. 74, aprile - giugno 1986

 

SELEZIONE ED ABBANDONI NELLA SCUOLA DELL'OBBLIGO
PROPOSTE PER LA CONTINUITÀ FRA
MATERNA-ELEMENTARE-MEDIA

ROSALIA FERRERO CAMERA (1)

  

Il problema della continuità fra i vari ordini di scuola, in particolare di quella di base, è fatto oggetto oggi di un ampio dibattito sulle cui linee sostanziali convergono, almeno in linea teorica, le premesse del legislatore, gli orientamenti del sociologo e del pedagogista, i movimenti di opi­nione dell'utenza.

La convergenza ed il consenso sul piano teo­rico - nessuno può negare la funzionalità di un curricolo scolastico che si articoli in fasi scan­dite sui ritmi di sviluppo e di apprendimento e si evolva secondo un «continuum» armonico e flessibile - lasciano tuttavia in larga parte ine­splorati o comunque irrisolti i numerosi e com­plessi problemi che stanno a monte.

Si tratta di problemi di natura giuridica, socio­logica, pedagogica, organizzativa e gestionale, la cui soluzione non può essere affidata al volon­tariato dei singoli o alla disponibilità delle micro­realtà territoriali, ma richiede interventi politici ed amministrativi a ben più ampio respiro.

 

Illusioni istituzionali

Un esame comparativo di documenti program­matici che hanno segnato in profondità la poli­tica scolastica e la svolta pedagogica dell'ultimo quinquennio può prestarsi a qualche utile consi­derazione sul tema proposto.

La «Relazione a medio termine» trasmessa nel marzo 1982 al Ministro della pubblica istru­zione dal Senatore Fassino, allora Presidente del­la Commissione preposta alla stesura dei nuovi programmi della scuola elementare, dedica al pro­blema della continuità l'intero sesto paragrafo e sottolinea l'esigenza che almeno il raccordo tra gli ordini della scuola di base, in quanto concor­rente a determinare un «processo continuo... che coinvolge tutte le forme di comunicazione cultu­rale e di partecipazione sociale», rientri in una struttura istituzionale organizzata.

La scuola di base è così denominata in quanto scuola di accesso generalizzato alla cultura, scuo­la del diritto allo studio, e, come tale, scuola dell'uguaglianza delle opportunità educative, del­la non selezione, della rimozione degli ostacoli allo sviluppo della persona.

La piena realizzazione della scuola di base im­plica, da un lato, la generalizzazione su tutto il territorio nazionale della presenza della scuola materna, dall'altro l'esecutività del conclamato principio dell'obbligo scolastico nella scuola me­dia di 1° grado.

Ne deriverebbe in tal senso l'ipotesi di moduli didattici che saldino scuola materna e primo ci­clo elementare, secondo ciclo elementare e scuo­la media. Moduli questi che si realizzano in Italia in limitate realtà sperimentali, come la Scuola­Città Pestalozzi di Firenze, nella quale elemen­tare e media di 1° grado concorrono a determi­nare un itinerario unico, scandito per cicli bien­nali.

La bozza dei programmi elementari emanata precedentemente alla revisione conclusiva, nel novembre 1983, si richiama al D.M. 9 febbraio 1979 con il quale vengono promulgati i program­mi della scuola media di 1° grado ed ipotizza «la continuità dinamica dei contenuti e delle meto­dologie nell'arco dell'istruzione obbligatoria... nell'auspicata prospettiva della continuità isti­tuzionale, pedagogica, curricolare».

L'impegno politico di riforma istituzionale as­sume contorni più sfumati ed incerti e pare stem­perarsi in un generico invito rivolto ai singoli docenti ed alle singole scuole, o, al massimo alle realtà territoriali più sensibili al problema.

Il breve paragrafo dedicato al tema «continui­tà» nella stesura definitiva dei nuovi programmi elementari, promulgati con D.P.R. n. 104 del 12.2. 1985, pare affossare, nella sua proposta minima­le, le speranze di sostanziali mutamenti istitu­zionali nel senso auspicato dalla «Relazione a medio termine».

Le espressioni appaiono a tutta prima sfumate e generiche, ma una lettura in controluce sotto il profilo semantico e sintattico crea l'impres­sione di un'estrema cautela e di un sostanziale timore di innescare procedure che sarebbero ine­sorabilmente vanificate, come è avvenuto per il passato, dalle rivendicazioni di «secondarietà» della scuola media: «la scuola elementare con­tribuisce, in ragione delle sue specifiche finalità educative e didattiche, anche mediante momenti di raccordo pedagogico, curricolare ed organiz­zativo con la scuola materna e la scuola media, a promuovere la continuità del processo educa­tivo, condizione questa essenziale per assicurare agli alunni il positivo conseguimento delle fina­lità dell'istruzione obbligatoria».

Il processo di raccordo sistematico si riduce così «anche», se del caso, alla sporadicità ed all'estemporaneità di «momenti»; l'istituzionale si appiattisce sull'«organizzativo», da affidarsi non tanto agli organismi politici ed amministra­tivi, quanto piuttosto alle micro-istituzioni, in am­biti di ampia ed incontrollata discrezionalità.

È vero che a nulla varrebbero le norme istitu­zionali, se queste non affondassero le radici in un effettivo rinnovamento di base. Ma se l'istitu­zione non è in grado di produrre innovazione qua­lora non si innesti su fermenti di consapevolezze e di sensibilità che scaturiscono dalla scuola «militante», tali fermenti corrono il rischio di isterilirsi, quando non vengano recepiti e soste­nuti da un assetto legislativo e istituzionale so­lido e di ampio respiro.

 

Un sistema «schizoide»

Malgrado le riforme legislative che hanno se­gnato la politica scolastica italiana dalla ri­forma Gentile ad oggi, ed in particolare la Legge 1859/62, istitutiva della scuola media unica ed abrogativa del «doppio binario» che costringeva ad una scelta prematura di indirizzo; malgrado gli innegabili apprezzamenti espressi da pedago­gisti, sociologi e legislatori nei confronti di si­stemi scolastici del tipo di quelli scandinavi, nei quali la saldatura fra ordini di scuola costituisce da almeno un decennio una realizzazione ispira­ta alla concreta volontà politica di promuovere la uguaglianza delle opportunità, l'attuale siste­ma scolastico italiano è da considerarsi «schi­zoide», in quanto presenta tuttora le caratteri­stiche tipiche dell'assimmetria strutturale fra un ordine e l'altro.

Tanto per cominciare í documenti programma­tici che si pongono a fondamento dei tre ordini della scuola di base risalgono a momenti diversi della storia sociale italiana e risentono di tem­perie culturali marcatamente divergenti. Gli Orientamenti della scuola materna nascono nel 1969; per quanto largamente ispirati ad una ma­trice piagetiana e profondamente rispettosi dei ritmi di crescita intellettiva e socio-emotiva del bambino appaiono oggi in gran parte superati dal punto di vista socio-politico e pedagogico, tanto che se ne sta predisponendo la revisione. I nuovi programmi della scuola elementare di­venteranno operanti soltanto nel 1987/88, quan­tunque quelli del '55, espressione di una cultura pre-industriale e quasi «arcadica», tipica dell'Ita­lia dello spiritualismo post-bellico, siano ormai da decenni innovati, integrati e superati nella prassi corrente. I programmi della scuola media risalgono al 1979: pur essendo largamente e in­novativi e portatori di una cultura di matrice co­gnitivista, si saldano a fatica, quanto ad obietti­vi, contenuti, procedure didattiche, con quelli della scuola primaria.

Ostacoli alla continuità verticale sono rappre­sentati inoltre, e non sporadicamente, dalla di­somogeneità e dalla non coincidenza dei bacini di utenza: come si può operare proficuamente, in direzione di un raccordo anche solo didattico-cur­ricolare, su bambini che, pur provenendo da una unica scuola dell'ordine inferiore, verranno dis­seminati in scuole diverse, o che da scuole carat­terizzate da impostazioni organizzative e meto­dologico-didattiche divergenti verranno convo­gliati in un'unica scuola dell'ordine superiore?

È pensabile ipotizzare un'intesa, anche soltan­to fondata sul volontariato dei docenti, dei diri­genti scolastici, degli Organismi Collegiali, fra una scuola materna non generalizzata, didattica­mente variegata al suo interno, ispirata a volte al più ampio permissivismo, non di rado al più rigido tradizionalismo ed una scuola elementare tutta tesa, almeno inizialmente, al superamento delle difficoltà strumentali? È possibile ipotizzare «sal­dature» di qualche rilievo tra una scuola elemen­tare ed una media tradizionalmente separate da disomogeneità di linguaggi, di approcci psicolo­gici e disciplinari, di modi e forme di prepara­zione dei docenti?

 

Il problema del «primo anno»

È noto ad ogni livello il fenomeno tipico di una scuola che, per riacquistare credito presso l'opinione pubblica dopo gli anni della promozio­ne facile e del voto politico, quasi a farsi perdo­nare la scelta dell'alfabetizzazione di massa e dell'accesso generalizzato alla cultura, ha ripre­so il consueto volto severo della selezione.

Una recrudescenza di selezione che colpisce le classi sociali più svantaggiate, trincerandosi die­tro l'alibi del non avvenuto conseguimento dei minimi culturali indispensabili alla sopravviven­za, al lavoro, al vivere sociale.

Una selezione che si traduce non di rado in abbandoni ed in ripetenze plurime, producendo comunque nei ragazzi demotivazione, sfiducia in se stessi, nelle proprie capacità, nelle strutture che premiano chi si adegua e che penalizzano la divergenza e non di rado la creatività.

Recenti indagini sociologiche evidenziano l'ac­centuarsi del fenomeno selettivo nel primo anno di ogni ordine di scuola. Se il tasso di ripetenza, secondo i dati del rapporto CENSIS riferiti all'an­no scolastico 1982-83, risulta ormai ridotto in prima elementare all'1,6%, in alcune regioni, so­prattutto meridionali, cause ambientali, culturali, linguistiche, producono sacche di sub-cultura che determinano, sin dall'inizio della carriera, un au­mento preoccupante del fenomeno della sele­zione.

Al primo anno della scuola media il tasso di ripetenza e spesso di mortalità subisce una bru­sca impennata, raggiungendo il 13,4%, mentre al primo anno della scuola superiore si raggiunge il tasso del 10,3%. Il fenomeno si attenua sen­sibilmente negli anni successivi al primo, come se la scuola di ogni singolo ordine, avendo dimo­strato all'opinione pubblica di aver operato il «doveroso» vaglio delle intelligenze e delle ca­pacità, si assumesse il merito dei recuperi e dei successi.

Il ritorno al rigore indifferenziato e generico penalizza prioritariamente, come è noto, i ceti su­balterni: le famiglie numerose, quelle su cui gra­va l'analfabetismo od il semi analfabetismo della generazione adulta, quelle nelle quali i genitori risultano impegnati in lavori di bassa manova­lanza per l'intero arco della giornata, quelle resi­denti in zone rurali o periferiche, o comunque di­stanti dalle fonti tradizionali della cultura.

Quando l'intransigenza selettiva sanziona sen­za risalire alle cause dell'insuccesso e quando poco o nulla vien fatto per rimuovere anche sol­tanto una parte delle motivazioni profonde dei fallimenti, la scuola non può che accusare se stessa.

Ci si chiede se, prima di denunciare l'illuso­rietà delle teorie «compensatorie» degli anni '70 che hanno fatto della scuola il principale agente di promozione umana e sociale, la struttura sco­lastica italiana si sia mai interrogata a fondo su quanta parte abbia concretamente recepito del loro genuino messaggio e quanto abbia realmen­te meditato sui propri errori cronici di fondo: lo svilimento delle culture subalterne, la gerarchiz­zazione delle intelligenze più che non la valoriz­zazione delle loro specificità, l'impotenza a domi­nare i processi inarrestabili di selezione occulta.

Selezione occulta: un fenomeno che non sem­pre si contrappone a quello della selezione pa­lese, ma che, in ogni caso, si manifesta come un processo più pervasivo ed insidioso, consistente nel considerare come naturali ed irrimediabili quelle carenze che sono invece il prodotto stes­so della scuola e del modo con il quale gli inse­gnanti concepiscono e svolgono la loro funzione.

Afferma lo Schizzerotto che la scuola penalizza ed emargina chi non si adegua; chi non riesce ad adeguarsi si estrania sempre più, accumula frustrazioni sempre più inibenti e spesso deva­stanti, diventa progressivamente vittima di quell'«effetto Pigmalione» in forza del quale parte­cipa e recepisce solo nella misura in cui lo si ritiene capace di partecipare e di recepire.

È questa una spirale alla cui origine il feno­meno della motivazione gioca un ruolo primario. È facile comprendere come la motivazione non risieda tanto in incentivi estrinseci, quanta piut­tosto in una serie concatenata di stimolazioni positive che la scuola può fornire solo quando si sforzi di eliminare alcune barriere atte soltanto a tutelare quel prestigio che l'ordine superiore si sforza di rivendicare nei confronti dell'ordine inferiore: tra queste il formalismo, il nozionismo, la ridondanza dei contenuti, la valutazione san­zionatoria.

 

Che fare per i «più fragili»?

I più fragili sono evidentemente quei soggetti­-rischio sui quali incombe il pericolo dell'abban­dono, dell'emarginazione, delle negligenze e del­le latitanze dell'istituzione: si tratta non di rado di ragazzi che, provenendo da un ambiente pro­tettivo come quello della scuola dell'ordine in­feriore, non reggono l'impatto con strutture orga­nizzative diverse, quali la pluralità degli inse­gnanti, degli ambiti disciplinari, dei libri di te­sto, degli approcci a metodologie, a forme e a metri di valutazione differenziati.

I più fragili sono, a maggior ragione, i porta­tori di handicap.

Alcune difficoltà si possono già verificare nel passaggio fra la materna e l'elementare, quando la prima si connoti come particolarmente aperta, evoluta, dotata di strutture idonee e soprattutto di figure professionali ad alta specializzazione, dallo psicomotricista al logopedista, dallo psico­terapeuta all'«affettivista». La scuola elementa­re, dal canto suo, non è in grado il più delle vol­te di offrire una simile dovizia di mezzi e di per­sonale: nel migliore dei casi dell'alunno svantag­giato si fa carico l'intero contesto scolastico o almeno una parte significativa di esso, ad esem­pio un gruppo di classi «aperte» gravitanti at­torno ad uno o più laboratori; in tale contesto l'insegnante di sostegno interagisce con la strut­tura ed entra individualmente in contatto col soggetto deprivato solo quando un rapporto a due possa risultare veramente produttivo e fun­zionale.

Ma in non poche realtà l'insegnante di appog­gio si trova solo a gestire il rapporto con il sog­getto svantaggiato ed a malapena viene ammes­so nel contesto classe, al solo scopo di «far da balia» al bambino in difficoltà e di consentire all'insegnante titolare di potersi occupare senza remore ed impedimenti dei bambini «normali».

In un'indagine sulla professionalità del docen­te al suo ingresso in ruolo, l'insegnante di so­stegno denuncia non di rado la desolante soli­tudine che gli deriva da un rapporto unilaterale con l'insegnante di classe, con il soggetto del quale appare agli occhi di tutti il responsabile e il tutore, con i genitori del soggetto, sovente tesi ed ansiosi, talora oppressivi.

Quando poi il portatore di handicap «approda» alla scuola media, ammesso e non concesso che genitori ed insegnanti considerino salutare il pas­saggio da un ambiente «ovattato» ad uno per natura sua più traumatico, non soltanto si aggra­vano i problemi di natura assistenziale, derivanti dalla minor disponibilità del personale ausiliario a farsi carico di incombenze connesse alle diffi­coltà motorie o all'incontinenza di alcuni sogget­ti, ma si approfondiscono e talora si esasperano i problemi connessi all'accettazione nel contesto classe ed alle diffidenze di insegnanti e geni­tori, timorosi di fronte alle «intemperanze» di coloro che costituiscono potenzialmente una re­mora al normale esplicarsi dell'attività didattica.

Di qui gli «inviti» pressanti rivolti alla scuola elementare a trattenere l'alunno disadattato an­cora per un anno, possibilmente due o tre, fino al compimento dell'obbligo scolastico. Di qui gli appelli rivolti agli insegnanti dell'ordine inferio­re, in particolare a quelli di sostegno, ad interve­nire nel contesto delle attività curricolari della scuola media o quanto meno a suggerire mezzi per «intrattenere» il soggetto, quando risulti im­possibile ottenere un miglioramento delle sue prestazioni.

 

Verso una logica del raccordo

Le strategie che vanno esperite per rendere concreto ed operante il raccordo tra ordini con­tigui di scuola non devono connotarsi come meri espedienti per rendere meno traumatico l'impat­to con una realtà più complessa e polimorfa e non valgono unicamente per i soggetti più fra­gili, a cui vanno rivolte peraltro le maggiori at­tenzioni.

Esse devono tradursi in una «logica di raccor­do» e devono coinvolgere i dirigenti scolastici come i docenti, gli alunni come i genitori, so­prattutto nel più arduo passaggio dalla elemen­tare alla media.

Tali strategie concernono, all'interno di ciascun ambito disciplinare, tanto l'elaborazione di map­pe di «prerequisiti» congruenti con i traguardi che la scuola dell'ordine inferiore si pone, quanto l'individuazione di concrete modalità di raccordo, che vanno dalla programmazione alla valutazio­ne, dall'organizzazione per classi aperte all'utiliz­zo funzionale dei laboratori, dall'integrazione dei soggetti portatori di handicap al contributo alla formazione razionale e non selettiva delle classi prime dell'ordine superiore.

È evidente che ogni possibile strategia acqui­sta un senso soltanto all'interno di un processo di interazione costante fra un ordine e l'altro: non è pensabile, ad esempio, individuare in astratto, sulla base di parametri standard», quel­li che debbano essere i minimi di istruzione ri­chiesti alla scuola di provenienza, qualora si pre­scinda dalla valutazione delle componenti fami­liari e socio-culturali; è utopistico ipotizzare una congruenza fra obiettivi e prerequisiti che non scaturisca da un lavoro comune degli insegnanti dei due ordini.

In quali sedi, in quali contesti, secondo quali scansioni confrontarsi e programmare insieme? La programmazione «in verticale» rappresen­ta il traguardo più elevato dell'ottica di raccordo e le realtà in cui questa si realizza sono da con­siderarsi, a tutt'oggi, «isole felici». Tale pro­grammazione dovrebbe prendere le mosse dalla analisi di congruenza dei documenti programma­tici e dalla rilevazione delle discontinuità, delle ridondanze di contenuto, delle «zone buie» che vi si evidenziano e dovrebbe percorrere itinerari organici, all'interno dei quali le unità didattiche si saldino e si integrino in un processo di cre­scita e di approfondimento continuo. Per non parlare, a monte, delle più conclamate discrasie di struttura: dal diverso rapporto numerico e ora­rio fra insegnante di appoggio e soggetto porta­tore di handicap alla genericità della preparazio­ne degli insegnanti di sostegno della scuola me­dia, non di rado privi di qualificazione specifica e attinti da graduatorie di perdenti posto, quali ad esempio quelle di educazione tecnologica.

È vero che una programmazione per settori disciplinari o limitata ad alcuni punti nodali del raccordo si colloca in una prospettiva parziale e non certo esaustiva del problema; tuttavia essa può costituire la prima tappa, ineliminabile, di un «itinerario dal basso» che comunque va per­corso, sia nella più rosea prospettiva di una con­tinuità istituzionale, sia nella carenza o nel si­lenzio della normativa.

La riflessione che deve accomunare docenti di ordini contigui presuppone l'individuazione di sedi, momenti e contesti idonei e funzionali. Le riunioni congiunte dei Collegi dei Docenti non possono certo essere concepite come gli orga­nismi più idonei alla programmazione in verticale, quantunque determinati orientamenti di struttura debbano necessariamente scaturire dal massimo organo deputato all'organizzazione didattica; inol­tre i Consigli di Circolo o d'Istituto ed i Consigli Distrettuali devono essere considerati gli orga­nismi precipuamente idonei a sdrammatizzare, presso alunni e famiglie, quella che si configura a volte come la psicosi del «passaggio»; ad essi compete inoltre la predisposizione di strutture ritenute utili e necessarie a facilitare il raccordo: l'omogeneizzazione delle zone di utenza, la pro­mozione di iniziative atte a determinare la pre­senza di personale ausiliario idoneo, a creare spazi comuni debitamente attrezzati e a facili­tarne il comune utilizzo, a farsi carico, per quan­to di loro pertinenza, dei conflitti derivanti da ri­gidità e da carente flessibilità organizzativa del­le scuole dell'uno e dell'altro ordine.

È ovvio tuttavia che l'organismo specificamen­te preposto al raccordo è da considerarsi il Con­siglio di interclasse per la scuola elementare e quello di classe per la scuola media (per quanto concerne la materna, questa struttura non com­pare tra quelle menzionate dal D.P.R. 416, ma ri­sulta di fatto operante nelle scuole materne plu­risezionali, soprattutto dove il lavoro didattico si svolge per sezioni aperte).

L'investire il Consiglio di classe-interclasse del ruolo che gli è specifico, vale a dire la pro­grammazione, la verifica ricorrente degli esiti e la valutazione orientativa oltre che sommativa, non equivale certo a banalizzare il problema ed a ridurne la portata: solo predisponendo incontri periodici di programmazione e di confronto nelle annualità-ponte (terzo anno di materna-prima ele­mentare; quinto anno di elementare-prima me­dia) è possibile in qualche modo evitare i ben noti errori derivanti da ignoranza delle recipro­che modalità di approccio agli alunni, alle disci­pline ed alla didattica e derivanti non di rado da incomprensioni, diffidenze, annosi pregiudizi re­ciproci.

Occorre prevenire, non tanto correggere «a posteriori»: una programmazione di raccordo ha senso quando precede il passaggio tra un ordine e l'altro, non quando ne è la conseguenza. È per­tanto utile che si confrontino e lavorino insieme, ad esempio, gli insegnanti di una quinta elemen­tare e coloro che presumibilmente, l'anno suc­cessivo, gestiranno una prima media, fermo re­stando il fatto che la collaborazione dovrà ne­cessariamente perfezionarsi negli anni a venire.

Programmazione concernente quali aspetti? Non soltanto quelli connessi alle scansioni pre­viste dai programmi, dai libri di testo e dalle guide didattiche, ma piuttosto quella estesa ad un'analisi particolareggiata degli obiettivi gene­rali e specifici di ciascun ambito disciplinare, alla gerarchizzazione delle tematiche, all'articolazio­ne delle unità didattiche, alla verifica di con­gruenza fra obiettivi ed esiti, all'individuazione delle cause degli insuccessi, all'elaborazione di percorsi alternativi per i soggetti più carenti. Una programmazione che costituisca il presup­posto necessario a percorsi omogenei all'interno dei quali non soltanto si strutturano gli apprendi­menti, ma si costruiscono i tratti fondamentali della personalità in termini di sicurezza emotiva, di equilibrio comportamentale, di immagine di sé, di motivazione all'apprendere.

Ma la comune volontà di collaborazione si ri­vela sterile, se non si fonda su una professionali­tà matura dei docenti.

Il discorso della formazione, della qualificazio­ne, dell'aggiornamento ci porterebbe lontano; non si deve tuttavia sottovalutare la consapevolezza dell'utilità di un aggiornamento sistematico che affondi le radici nello specifico della professio­nalità docente: la capacità di lavorare in équipe e di finalizzare l'azione di programmazione e di verifica ad obiettivi che trascendano gli angu­sti ambiti della classe, del ciclo, dell'ordine di scuola.

 

 

(1) Direttore Didattico, ricercatrice IRRSAE-Piemonte.

 

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