Prospettive assistenziali, n. 72, ottobre - dicembre 1985

 

 

L'ÉQUIPE PSICOSOCIALE DI DISTRETTO: UN'ESPERIENZA NEL SETTORE DELLA DEVIANZA

P. MAZZINI (*) - A. GORGAINI (**)

 

 

Nel normale lavoro di distretto, nel corso di diversi anni di attività, ci si è imbattuti in situa­zioni di emarginazione su cui si è dovuto inter­venire.

L'analisi a posteriori degli interventi messi in atto e degli effetti degli stessi, ha messo in luce alcune costanti che ci hanno spinto a cer­care di sistematizzare il materiale di queste esperienze.

Si ritiene utile riportare sommariamente due casi maggiormente significativi e ormai non più in carico, per poi passare alla descrizione dello schema operativo praticamente utilizzato in mo­do quasi costante.

 

Caso A

Il primo impatto con la famiglia A avviene nel '77, essendo stati rilevati bisogni logopedici nei due bambini che frequentavano la scuola mater­na. Emergono immediatamente notevoli proble­mi in ambito familiare: si tratta di un nucleo giunto nel distretto da un paio di anni, da un comune vicino, e composto da padre operaio, ma­dre casalinga, due figli in età di scuola materna e uno infante.

Si rilevano problemi psichiatrici della madre, maggiormente acuti nel passato recente: al mo­mento emerge soprattutto il problema del suo comportamento legato alla gestione della sua sessualità, unitamente a un discreto alcoolismo fine settimanale del padre.

In paese la famiglia era emarginata più che altro per la reazione che provocava nella piccola comunità il comportamento della madre, poco responsabile nonché giudicato troppo disordina­to nella sfera sessuale.

Il lavoro del padre assicurava alla famiglia uno stipendio che una gestione scorretta ren­deva insufficiente; era tale comunque da non giustificare le condizioni abitative e di vita poco dignitose in cui si trovava la famiglia.

Vista l'impossibilità di far leva, in quel mo­mento, sulla capacità d'introspezione dei geni­tori, reputati non sufficienti gli elementi per un allontanamento dei figli, dati anche i legami esi­stenti all'interno della famiglia e le figure paren­tali collaterali che garantivano un certo suppor­to ai bambini, si decise di procedere a un inter­vento di sostegno al nucleo unitamente agli in­terventi necessari per le difficoltà elettive di linguaggio dei minori.

In pratica il lavoro si strutturò come segue:

- visite domiciliari frequenti da parte di una suora della scuola materna in collaborazione con lo psicologo. In queste visite si mirava a por­tare l'attenzione della madre su obiettivi con­creti e semplici concernenti la gestione fami­liare;

- intervento logopedico ai bambini e attenzio­ne ai loro vissuti tramite un corretto atteggia­mento pedagogico in scuola;

- tamponamento nelle situazioni di necessità contingenti più urgenti.

L'anno successivo si affiancava un assistente sociale al gruppo operatori. Era stato impossibile contare su volontari locali, escluse le suore, a causa della situazione di emarginazione in cui il paese, al di là del sostegno familiare, di fatto teneva la famiglia.

L'assistente sociale era divenuta gradualmen­te persona di fiducia della famiglia, in particolare della madre, che la sentiva alleata e gratificante, mentre lo psicologo era percepito anche come «autorità normativa».

Si era messo in moto un processo educativo basato sull'alleanza con l'utenza da parte dell'assistente sociale quale figura oggetto di iden­tificazione della madre, le suore della scuola materna come sostegni concreti e talora sostitu­tivi per le carenze dei genitori, e lo psicologo come punto di riferimento-garante esterno nei confronti della comunità, mediatore fra ambiente sociale - Amministrazione e gruppo operatori - ­utenza.

Gli incontri fra gli operatori erano molto fre­quenti per garantire la coerenza dei messaggi dati alla famiglia.

Il caso si evolve, sinteticamente, con queste tappe:

- nasce un quarto figlio, ed è necessario in­tervenire per garantire la sua crescita in un cli­ma sufficientemente sicuro, in quanto la madre acuisce improvvisamente il suo atteggiamento di assenza dalla famiglia. È a questo punto che si rende necessario un intervento autoritario (minaccia di allontanamento dei figli). In risposta la signora accresce il legame di identificazione con l'assistente sociale, dipendendo al massimo da lei;

- la madre comincia poco dopo a interessarsi sempre più dei problemi interni al nucleo, fino a chiedere aiuto anche per il marito;

- si inizia una fase, di circa due mesi, di in­contri settimanali con la coppia, in ambulatorio, da parte dei due operatori;

- il padre si fa ricoverare in ospedale per l'abuso di alcool, e dopo ne diminuisce signifi­cativamente l'assunzione;

- si rivede il piano di intervento, puntando l'attenzione sulla comunità: gruppi di socializza­zione per í minori, scuola, ambiente sociale più vasto;

- la famiglia dimostra sempre maggiore au­tonomia: nasce un altro bambino, la cui crescita viene gestita dalla coppia in modo adeguato. Parallelamente, gli operatori diradano gli inter­venti;

- la famiglia inizia a ricercare e richiedere segni dimostrativi della propria emancipazione: una casa più decente, non più dipendenza dal «sostegno sociale». La ricerca della casa, dele­gata dapprima agli operatori, si rivela inutile per il rifiuto della comunità;

- il nucleo arriva autonomamente a trovare una soluzione abitativa in un altro paese, stac­candosi definitivamente dagli operatori. Ci ri­sultano stabilizzate le acquisizioni comporta­mentali del nucleo familiare descritto, a una suc­cessiva verifica.

 

Caso B

Si tratta di un nucleo familiare problematico e molto numeroso.

All'inizio dell'intervento il padre si trovava in carcere ed erano in atto diversi interventi set­toriali di vari servizi: per un figlio con problemi psichiatrici, per un minore con comportamento deviante; uno era in collegio, e infine la fami­glia, molto numerosa, era aiutata economica­mente. Frequenti erano le segnalazioni dei mi­nori da parte della scuola, con risposte sempre parcellizzate e settoriali.

Il bambino più piccolo era spesso ricoverato in ospedale, necessitando di cure specialisti­che. Notevoli erano i problemi di relazione all'interno del nucleo, con frequenti fughe da casa delle adolescenti, reazioni di isolamento, con­flitti agiti.

Alcuni figli erano coniugati fuori casa e non avevano col nucleo significativi contatti: resta­vano tre adulti, un gruppo di adolescenti e altret­tanti bambini.

La madre si dimostrava disponibile all'affido di alcuni figli, per cui il più piccolo, per i proble­mi di salute, e una figlia che aveva relazioni molto disturbate con lei, furono collocati in altre famiglie.

Sopraggiunge un decreto di decadimento della patria potestà del padre nei confronti delle sole adolescenti (per timore di abuso di esse da par­te sua, visti i precedenti). Si procede immedia­tamente alla collocazione delle stesse in fami­glie affidatarie, cercando contemporaneamente di operare al fine di aiutare la famiglia a trovare soluzioni più rispondenti ai propri bisogni.

Un fratello adulto non coniugato si mette a disposizione per ricomporre il nucleo familiare intorno a sé. Le persone in affido (compreso quello da anni in istituto), escluso il più piccolo, richiedono di tornare in famiglia, per cui si re­perisce un'abitazione per i due genitori, in modo che i fratelli possano riformare un nucleo attor­no al citato adulto. II maggiorenne con proble­mi psichiatrici e quello con comportamento de­viante, pur risiedendo nella stessa abitazione degli altri, si tengono al di fuori del gioco fa­miliare.

Da questo momento, le fasi dell'intervento possono così sintetizzarsi:

- frequenti colloqui col fratello affidatario e regolamentazione giuridica della situazione;

- incontri di gruppo allargati a tutti i fratelli e altri per le sole adolescenti. Il fratello affida­tario è sempre presente;

- si cerca di consolidare l'autorevolezza del fratello affidatario quale capo famiglia;

- l'assistente sociale è in famiglia frequen­temente, a fini educativi, soprattutto operando su cose concrete (turni di lavoro, risoluzione di conflitti, ecc.);

- si cerca di coinvolgere la scuola e le fami­glie dei compagni di classe dei bambini, in modo da favorire la socializzazione di questi anche al di fuori dell'orario scolastico.

Alla morte del padre, un anno circa dal suo ritorno, la madre rientra in famiglia in una posi­zione collaterale e quasi subalterna rispetto al servizio e al figlio capofamiglia.

In questa fase il ruolo dell'assistente sociale è descrivibile come materno-educativo con mol­to coinvolgimento, facendo anche da trait d'union fra l'affidatario e le adolescenti, mentre lo psi­cologo partecipa agli incontri periodici col grup­po ristretto o col solo affidatario e/o con l'am­ministrazione comunale.

Frequenti sono le verifiche del lavoro, e pe­riodiche le visite in famiglia anche dello psico­logo assieme all'assistente sociale quando la situazione lo richiede.

Dopo circa un anno e mezzo si rileva una graduale e sempre maggior autonomia dal ser­vizio, divenendo il nucleo capace di gestire da solo la sua vita interna e le questioni pratiche, mentre il lavoro dei più grandi e l'ambiente sco­lastico e di socializzazione per i più piccoli non costituiscono più un problema: non si riscontra più diffidenza e lontananza fra i membri del nucleo e l'ambiente esterno, almeno in modo significativo.

Le relazioni all'interno della famiglia sono sempre più connotate affettivamente, e l'affida­tario è sempre più autonomo nel suo ruolo di guida.

Alcuni mesi prima, in coincidenza con la dimi­nuzione degli interventi degli operatori interes­sati, si era attuato un servizio di appoggio al nucleo tramite un assistente domiciliare per ac­centuare il lavoro educativo fino ad allora svolto.

Dopo un altro anno circa, la situazione si evol­ve ed è così descrivibile:

- la presenza del servizio si fa sempre più rara, con una frequenza degli interventi poco più che mensile;

- le relazioni all'interno del nucleo sono de­cisamente connotate affettivamente;

- la scuola, in alcuni casi, richiede ai bam­bini di questo nucleo di farsi carico dei proble­mi di compagni più in difficoltà;

- il paese (di circa 4.000 abitanti) non mo­stra più né diffidenza né preconcetti signifi­cativi, al punto che emergono richieste di inter­vento per altri casi che vengono definiti «i più gravi». (Si nota questo bisogno di connotare sempre qualcuno come deviante). Né la scuola né le forze dell'ordine né l'amministrazione fan­no più richieste d'intervento per i membri del nucleo;

- l'assistente domiciliare, a questo punto, cessa il suo lavoro presso la famiglia;

- periodicamente vengono inviati dal nucleo familiare alcuni messaggi di protesta per questa autonomia totale ad esso riconosciuta. Dopo un anno di autonomia quasi totale del nucleo, si decide di rispondere alle richieste dello stesso con interventi che si possono collocare nelle normali prestazioni di elaborazione delle dina­miche di un nucleo abbastanza integrato. Pre­stazioni strutturate e a termine, al di fuori di qualsiasi intervento sociale o protettivo.

 

CONSIDERAZIONI

 

Tipologia dell'utenza

Emerge innanzitutto che si tratta di nuclei fa­miliari in condizioni di emarginazione all'interno dell'ambiente sociale in cui sono inseriti, e tali da non avere sufficiente coscienza della propria condizione, per cui non riescono a chiedere aiu­to spontaneamente, bensì soltanto tramite il sin­tomo di uno o più dei suoi membri, mentre l'aiu­to richiesto è esternamente espresso come bi­sogno assistenziale. Contemporaneamente ven­gono sovente segnalati dal territorio ai vari ser­vizi i problemi scolastici dei minori e/o compor­tamentali degli adolescenti e/o adulti.

L'attenzione «assistenziale» della comunità verso questi nuclei, a nostro avviso, si esprime in genere con risposte frammentarie e che ten­dono a mantenere lo status quo, a non emanci­pare l'utente, quasi che la comunità avesse bi­sogno di lui così com'è.

 

Obiettivi dell'intervento

Sin dall'inizio, in modo magari non sufficiente­mente cosciente o oggettivato, si è cercato di impostare il lavoro sì da far emergere, in questi nuclei e possibilmente nell'ambiente circostan­te, le energie ancora presenti e le potenzialità. Coscienti che si tratta di quei nuclei «perenne­mente dipendenti» dai servizi sociali (cosiddetti irrecuperabili, come si leggeva nelle relazioni e nelle comunicazioni riguardanti i due nuclei qui descritti), fin dall'inizio si è cercato di far per­correre un cammino che attenuasse, se non pro­prio eliminasse, tale dipendenza. Fondamental­mente, ci pare di notare, c'è stato il rifiuto, da parte degli operatori, di considerare l'emargina­zione di questi nuclei come una realtà fatale, ri­conoscendo loro invece quella dignità con cui vengono normalmente percepiti gli altri utenti del servizio.

 

Modalità d'intervento

Ci sembra di poter astrarre alcune fasi costan­ti negli interventi attuati nei casi come quelli descritti.

Molto in sintesi, si riscontrano, pur premetten­do la necessità di un'estrema gradualità e len­tezza nel passare da una fase all'altra, diffe­rente a seconda dei singoli casi, tre ambiti di lavoro, che possiamo così sintetizzare.

 

1) Lavoro sul nucleo, con le seguenti fasi:

a) accettazione dell'operatore da parte del nucleo e viceversa;

b) alleanza del nucleo con gli operatori e degli operatori soprattutto con gli elementi aventi più potenzialità;

c) sostegno concreto con stimoli «educativi» su aspetti pratici anche circa la conduzione del­la casa, ecc.;

d) inizio graduale della rielaborazione dei vis­suti per i membri con più potere e potenzialità; e) culmine della dipendenza del nucleo dagli operatori;

f) inizio introduzione figure collaterali (soli­darietà ambientale guidata, assistenza domici­liare, ecc.) mediate dagli operatori;

g) gli operatori iniziano a diminuire la loro presenza, riappropriandosi gradualmente del ruolo «classicamente tecnico»;

h) inizio interventi «tecnici» in ambulatorio, con il nucleo o parte di esso;

i) sollecitazioni all'autonomia, a prendere ini­ziative autonome;

l) graduale rarefazione dell'intervento di assi­stenza domiciliare o di solidarietà guidata;

m) stacco, con riconoscimento dell'autonomia ormai raggiunta dal nucleo, pur rimanendo dispo­nibili gli operatori per saltuari e molto rari inter­venti di supporto o di verifica, se richiesti o ne­cessari.

 

2) Rapporti fra rappresentanti significativi della comunità, operatori e nucleo deviante

Si è notato che alla richiesta di intervento sul deviante da parte dell'amministrazione o di mem­bri significativi della comunità, l'operatore si in­serisce in uno schema relazionale ove ha la pos­sibilità di modificare le rispettive percezioni fra le due componenti in urto.

È importante il ruolo delle figure significative locali, in quanto rappresentanti della comunità e portatori dei valori, norme e giudizi del gruppo più vasto.

Si può così esemplificare, in partenza:

                                                                     comunità

                                                                                           

                                                   deviante            +            operatori

 

Lo schema si può ovviamente evolvere in di­versi modi, per eliminare la dissonanza che altri­menti si avrebbe:

                      comunità                                                               comunità

                          1                                                                      2                 +

    deviante            +            operatori                          deviante                        operatori

 

                      comunità                                                               comunità

         +                 3                 +                                                     4                

    deviante            +            operatori                          deviante                        operatori

 

Ovviamente, solo nel terzo caso è possibile che la situazione abbia sbocchi positivi, facen­do da tramite l'operatore per una diversa (posi­tiva) percezione reciproca fra comunità e de­viante.

Rimane essenziale il raggiungimento di que­sto obiettivo per il reinserimento in comunità del deviante: in caso contrario, l'operatore può rimanere con l'idea di aver ragione, ma non rie­sce a sortire effetti positivi.

La richiesta fatta al deviante di adeguare an­che esternamente parte del proprio comporta­mento a certe norme usuali, fin dal punto c dello schema 1, è, sotto certi aspetti, funzionale anche (ma non solo) al mutamento della perce­zione di esso da parte della comunità.

Ci sembra utile notare come spesso l'opera­tore, sotto la pressione della comunità, faccia fretta all'utente impedendogli la gradualità del cammino (con relativi ritorni indietro), e ciò per­ché spesso non considera l'amministrazione o la comunità come oggetto anch'esse del suo in­tervento, bensì come sole committenti.

Si nota poi come sia indispensabile all'opera­tore, per affrontare queste situazioni, una re­lazione positiva sia con l'utente che con l'am­ministrazione e/o comunità.

 

3) Utilizzo delle potenzialità del distretto di base

Dai due ambiti sopra descritti emerge la ne­cessità di un buon inserimento dell'operatore nel territorio di competenza, non solo per la cono­scenza dello stesso e delle sue potenzialità, ma anche per l'accesso a queste, che in genere è possibile solo in base ai rapporti che instaura con le diverse componenti sociali (scuola, grup­pi, amministrazione, ecc.).

I primi momenti di risocializzazione dei mem­bri del nucleo deviante, in genere, vengono per­messi dai gruppi o dagli ambiti di socializzazio­ne interessati grazie all'elemento di supporto che in questo caso è l'operatore.

È soprattutto nelle prime fasi di risocializza­zione che l'operatore di distretto si dimostra figura insostituibile, mentre in fasi successive può anche facilitare, permettere e rendere pos­sibile l'accesso di un secondo livello di inter­venti più «tecnico», se così si vuol dire.

 

Gruppo di lavoro e ruoli

In una verifica con dei colleghi ci è stato chie­sto quali figure professionali sono, a nostro avvi­so, più adatte per questi interventi.

Tale modalità operativa è stata posta in atto, con i dovuti aggiustamenti, anche per casi di devianza minorile e di tossicodipendenza, oltre che per nuclei con problematiche similari a quel­le dei due suddescritti. Gli operatori coinvolti sono stati lo psicologo e l'assistente sociale, lo psicologo e dei volontari, l'assistente sociale e dei volontari. Al posto o insieme ai volontari c'erano spesso ambiti di socializzazione e ser­vizi istituzionalizzati (esempio la scuola) o crea­ti ad hoc (centro pomeridiano per minori, aperto non solo ai «casi», assistenza domiciliare, ...).

Gli scambi di idee ed i confronti fra assistente sociale e psicologo sono sempre stati costanti anche quando era uno solo di essi ad occuparsi concretamente del caso.

Ci sembra di poter dire che, esistendo fre­quenti scambi fra la competenza psicologica, sociale ed educativa, non si possa rigidamente assegnare ruoli prefissati, dovendo mantenere quell'elasticità necessaria caso per caso.

La valutazione dei rischi, delle possibilità di intervento, la strategia operativa, non possono non essere affidati in prima istanza che allo psi­cologo e all'assistente sociale. Anche perché il volontariato interviene solo per una parte del lavoro, e non all'inizio.

Certamente, fosse possibile poter contare sul­la figura dell'educatore, lo psicologo potrebbe evitare, fin dall'inizio, quel coinvolgimento che costituisce talora un problema al momento del­la «lettura distaccata» della situazione.

Importante è il continuo scambio e confronto fra le figure coinvolte. Più marcato ancora per coloro che valutano e seguono il caso dall'inizio alla fine.

Come importante è il coinvolgimento dell'am­ministrazione comunale, che da committente­utente deve arrivare a porsi in termini di «ope­ratore attivo»: ciò soprattutto per i nuclei «sim­bolo di devianza» della comunità.

Si rileva, dalle righe precedenti, come solo l'operatore di base, l'équipe di base, può assom­mare in sé le caratteristiche richieste da questo tipo di intervento.

È un'équipe stabile, inserita nel contesto so­ciale del distretto, abituata al lavoro integrato dei suoi membri, disponibile al confronto al suo interno e anche all'esterno.

Si dice anche all'esterno, perché talora è emer­sa la necessità di un confronto con figure non coinvolte più o meno direttamente nei singoli casi: è il solito problema della supervisione, perché ogni tanto l'autarchia del gruppo risulta limitante.

 

Note sull'organizzazione del lavoro

Avendo accennato ad un primo e secondo li­vello d'intervento, ci sembra opportuno spiega­re, in due parole, il significato che questo assu­me nel nostro lavoro.

In linea di massima, ogni operatore psicologo o assistente sociale, dedica parte del suo tempo a uno o più distretti e parte ad un settore speci­fico (es. tossicodipendenza, età evolutiva, psi­chiatria). Questa scelta, sia pur ancora non del tutto chiara, di fatto a nostro avviso permette di evitare inutili sovrapposizioni di interventi (il distretto) e, contemporaneamente, crea momen­ti di specializzazione anche tecnica cui è possi­bile attingere (2° livello).

Un insieme di servizi staccati dal distretto, centralizzati, pur se apparentemente danno una immagine di efficientismo, ci sembra tradiscano il significato stesso della riforma sanitaria, se non hanno nel distretto un momento di omoge­neizzazione, di raccordo.

 

 

  

(*) Psicologo USSL 44 Montichiari (BS).

(**) Assistente sociale USSL 44.

 

www.fondazionepromozionesociale.it