Prospettive assistenziali, n. 71 bis, luglio - settembre 1985

 

 

ESPERIENZA DEL COMUNE DI TRENTO

TARCISIO GRANDI (1)

 

 

Il rapporto fra «Pubblico» e «Privato Socia­le» trova sicuri antecedenti sia in Provincia di Trento, come nel resto del Paese, nella cultura cooperativistica che nasce verso la metà del se­calo scorso.

Non è questo il luogo per approfondire la ge­nesi del Movimento; sembra comunque oppor­tuno richiamare i caratteri dell'esperienza che, in origine, si configura come «modello di eco­nomia socializzata» in campo strettamente eco­nomico (Casse Rurali) o agricolo o di consumo.

Il modello si regge sul controllo democratico dei Soci, mentre sia la gestione che il controllo si ispirano ad esigenze di giustizia, solidarietà, cooperazione, ossia ad alcuni valori indispensa­bili per la convivenza civile.

A monte di questa forma spontanea di socia­lità sono i problemi della trasformazione sociale legati alla «industrializzazione», cui lo Stato riesce a dare risposta solo in modo parziale.

Con il Movimento Cooperativistico nasce l’e­sigenza di istituzionalizzare i principi che lo fon­dano: la «mutualità», il «solidarismo», in con­trapposizione alle leggi di mercato e in difesa dei cittadini più deboli.

I presupposti della cooperazione, ed in parti­colare la «funzione sociale» del servizio offer­to ed il principio della «mutualità» sono ripresi e rafforzati dalla Costituzione. L'art. 45 afferma, infatti, che «La Repubblica riconosce la funzio­ne sociale della cooperazione a carattere di mu­tualità e senza fini di speculazione privata».

Dal secondo dopoguerra in poi, la spinta dello sviluppo economico e delle divisioni ideologiche del tempo, i motivi ispiratori si perdono in parte e molte iniziative si trasformano in vere e pro­prie aziende private a carattere economico-capi­talistico.

Sembra di poter dire, però, che lo spirito che aveva animato quelle esperienze rimane poiché, proprio in conseguenza del riacutizzarsi dei pro­blemi della società contemporanea, si ripropone - sotto vesti nuove - il bisogno di partecipare alla soluzione di alcuni problemi dell'attuale con­testo sociale, da parte di frange sia pure margi­nali di popolazione.

Dagli anni '70 in poi, in un clima di instabilità politica ed istituzionale, ed in corrispondenza dell'aggravarsi della crisi economica e sociale, nasce una nuova coscienza civica. Sono gli anni in cui si prende coscienza, a livello sociale, del­le diverse forme e tipologie di disadattamento; della necessità di intervenire contro la tossico­dipendenza; di opporsi a situazioni di emargina­zione antiche e nuove.

In corrispondenza, nascono forme di solidarie­tà e di assistenza sociale che anticipano l'inter­vento pubblico, anche se non intendono sosti­tuirsi ad esso.

Di fatto però, il pubblico non si adegua alle nuove realtà per vari motivi: incapacità di pro­posta, rigidità burocratica, incapacità di ricompo­sizione di visioni ideologiche diverse.

L'Ente pubblico, strutturato sul modello della grande impresa, non riesce ad adeguare la pro­pria organizzazione alla situazione di crisi. In­fatti, mentre la grande impresa produttiva avvia un processo di trasformazione attraverso la de­verticalizzazione e il decentramento di singole unità produttive, riduce il personale e si adegua in qualche modo al modello privato di piccole di­mensioni, l'azienda pubblica continua a mante­nere l'organizzazione precedente al di fuori di una realistica valutazione del rapporto «costi-­benefici» e al di là di ragionevoli scelte di priorità.

Le prime conseguenze sono: la difficoltà di comunicazione, di circolazione dei messaggi, la burocratizzazione ed i1 congestionamento dei ser­vizi, l'insostenibilità dei costi, lo spreco sia di risorse finanziarie che nell'utilizzo del personale, cui segue insoddisfazione, deresponsabilizzazio­ne e, talvolta, inattivismo.

Anziché offrire servizi pubblici generalizzati e adeguati, l'Ente pubblico finisce per offrire ser­vizi spesso dequalificati, per servire interessi corporativi e per coprire forme di «individuali­smo protetto» (cfr. risultato della riforma sani­taria).

Il confronto fra azienda industriale ed Ente pubblico sembra ragionevole anche se, istituzio­nalmente, assolvono a ruoli diversi: l'uno a fun­zioni produttive, l'altro all'erogazione di finanzia­menti e servizi.

Dalla metà degli anni '70 in poi, anche a Tren­to, nascono le prime Cooperative di Solidarietà Sociale: «Villa S. Ignazio», che si propone come Comunità di Accoglienza; il «Gruppo Volano '78», come Cooperativa di produzione e lavoro per persone colpite da handicap fisico; il «Pun­to d'Incontro», come Cooperativa di Accoglien­za e Lavoro per le persone più marginalizzate. Nascono anche altri organismi d'iniziativa priva­ta, quali: l'«Associazione Provinciale per i Pro­blemi dei Minori», il «Centro Antidroga», che si strutturano, però, più sul modello del «pub­blico» che del «privato».

I primi, a carattere cooperativistico, offrono un servizio gratuito, autonomo ed in funzione di sup­plenza rispetto al servizio pubblico; gli altri, pur finanziati dal «pubblico», offrono servizi alter­nativi in quanto a struttura amministrativa (vedi Consigli di Amministrazione formati da perso­nale volontario) e nella tipologia dell'intervento (cfr. Gruppi-Famiglia in alternativa all'Istituto o l'istituzione di servizi nuovi: istituzione di Comu­nità Terapeutiche per tossicodipendenti, ecc.).

Questo movimenta, d'iniziativa privata, dal mo­mento in cui offre una rete di servizi, acquista una connotazione «sociale». L'azione sociale si riconosce in quanto l'intervento si avvale della collaborazione volontaristica e disinteressata dei soci e perché l'oggetto stesso dell'intervento è la «realizzazione di servizi a favore di terzi»; è sociale, infine, nella sua funzione che si col­loca in uno spazio intermedio fra quello pub­blico e privato.

Dal punto di vista giuridico, secondo il parere del Giurista Costituzionale Garancini, il tipo di coscienza sociale che nasce dalla sensibilità e dalla presa in carico di bisogni collettivi da parte di cittadini che si organizzano per dare una ri­sposta autonoma e disinteressata ai bisogni rile­vati, costituisce una legittima riappropriazione della «sovranità popolare» e testimonia la cre­scita e la maturità civica dei cittadini.

La stessa Costituzione, all'art. 1, sancisce il diritto del cittadino all'esercizio di tale «sovra­nità», come diritto primario, delegata - sola per convenzione - alla rappresentanza politica. No­nostante ciò, le attuali norme di diritto pubblico e privato sono riduttive rispetto alla problemati­ca del «privato sociale» che, soprattutto oggi, esige una normativa specifica non ancora definita.

La presenza del volontariato, su cui si regge il «privato sociale» più maturo, presenta quindi problemi rilevanti anche al legislatore. N. Lipari osserva, in proposito, che il legislatore è chia­mato a riconoscere l'esistenza di questo nuovo soggetto del diritto, che non ha ancora spazio nell'ordinamento giuridico italiano, ed a riflette­re, prima ancora, intorno ai valori di cui è porta­tore, ed alle categorie di comportamento propo­ste, relative al senso e alla qualità della vita, che impongono codici di riferimento nuovi, diver­si dai correnti.

 

L'esperienza del Privato Sociale in provincia di Trento

Queste considerazioni, assieme alla determina­zione degli organismi di volontariato di costituir­si come «forza sociale» di riflessione, di pres­sione e di proposta (cfr. Convegni Nazionali di Viareggio 1980, di Lucca 1982, 1984), hanno de­terminato in provincia di Trento, nel 1983, l'ap­provazione della legge «Disciplina degli inter­venti volti a prevenire e rimuovere gli stati di emarginazione».

La legge - peraltro profondamente criticata in quanto settoriale rispetto alle esigenze di una legge quadro di riforma del settore socio-assi­stenziale - presenta aspetti innovativi interes­santi e di stimolo al mutamento anche nei con­fronti dell'assistenza «ordinaria» o degli inter­venti precostituiti ed istituzionalizzati.

Gli aspetti di novità sono inerenti alla nor­mativa che regolamenta il rapporto fra settore pubblico e privato attraverso lo strumento del­la «convenzione», e alla gestione della leg­ge, che istituzionalizza la partecipazione di rap­presentanze elette dagli stessi organismi di «pri­vata sociale». Privilegia, inoltre, con priorità as­soluta gli interventi «rivolti a prevenire e ri­muovere gli stati di emarginazione giovanile» - ad esclusione delle tossicodipendenze - set­tore regolamentato con legge specifica.

Lo spirito della legge e le convenzioni stipu­late con gli organismi privati a norma di questa legge, costituiscono, in provincia di Trento, la base operativa del rapporto fra «pubblico» e «privato sociale». In alcuni casi, ed in compre­senza di compiti propri dell'assistenza ordinaria e di altri da essa esclusi, sono state stipulate con­venzioni fra assessorati, come ad esempio nel caso di organismi competenti per problemi di mi­nori e di persone ultradiciottenni portatrici di problemi di inserimento sociale e nel mondo del lavoro. In altri casi la convenzione richiama l'esi­genza di accordi fra Comune e Provincia in ordine a competenze specifiche, cfr. ad esempio, le con­venzioni relative all'inserimento di ospiti di orga­nismi con problemi di accoglienza e di inserimen­to lavorativo (es. Villa S. Ignazio, Centro di Ac­coglienza Bonomelli, ecc.).

A sette mesi dall'avvio dell'attività degli orga­ni previsti per la gestione della legge (Commis­sione dei rappresentanti degli organismi privati e Comitato composto dai membri della Commis­sione e dai rappresentanti di sei assessorati pro­vinciali) è emersa una serie di problematiche che interessano il settore socio-assistenziale nel suo complesso, quali, ad esempio, lo studio dei fenomeni e delle cause dell'emarginazione, la formulazione di una mappa del bisogno e delle risorse, secondo una formulazione dinamica in grado di essere modificata in rapporto al mutare delle condizioni a delle manifestazioni del bi­sogno.

Dall'analisi delle esperienze già operanti sul territorio provinciale e comunale, ed attraverso la predisposizione dei testi della convenzione è emersa, fin d'ora, la necessità di limitare l'acces­so ai benefici della L.P. n. 35, alla situazione di organismi la cui operatività risponda ai seguenti criteri:

a) assenza di interventi «ordinari» per il tipo di utenza seguita o per la tipologia del servizio offerto (es. attività propedeutica al lavoro);

b) globalità dell'intervento offerto in relazione alla natura dello stesso: prevenzione, riabilita­zione, inserimento sociale;

c) temporaneità del servizio, come stimolo contro la cronicizzazione dell'utenza e la fossi­lizzazione dell'attività dell'organismo.

d) collegamento (ricerca ed uso) con i provve­dimenti previsti da altre leggi, in materia di: so­stegno al lavoro di persone colpite da handicap, di persone in situazione di debolezza sul merca­to del lavoro, progetti di prevenzione, cura e ria­bilitazione degli stati di tossicodipendenza e al­coolismo, ecc.;

e) partecipazione attiva e collaborazione col volontariato «organizzato».

Dall'analisi delle realtà convenzionate e non, la Commissione e il Comitato si sono già impe­gnati ad affrontare i problemi che si presentano sul territorio secondo il seguente ordine di prio­rità:

a) verifica circa la qualità del lavoro svolto, attraverso l'offerta di strumenti di autovalutazio­ne del servizio offerto rispetto al bisogno della persona e di valutazione del bisogno non coperto dall'organizzazione dei servizi ordinari;

b) definizione delle modalità di controllo dei bilanci e delle proposte operative, in un clima di collaborazione intesa a migliorare il tipo e la qualità dei servizi erogati;

c) formulazione della mappa dei bisogni e dell'offerta dei servizi attraverso un'indagine estesa sia agli operatori delle realtà convenzionate che agli operatori dipendenti attraverso accordi con i responsabili dell'organizzazione pubblica;

d) individuazione degli aspetti di raccordo fra servizi ed interventi offerti dal privato sociale e dall'organizzazione pubblica.

Sembra di poter affermare che i problemi trat­tati e la prassi operativa seguita, ed in partico­lare il continua confronto con i servizi ordinari (finora a livello dei responsabili piuttosto che degli operatori) finirà per contribuire ad una cre­scita reciproca, dell'ordinario e dello straordina­rio. La futura riforma del settore socio-assisten­ziale non potrà prescindere dal lavoro svolto da queste realtà, potrà - invece - trarre elementi stimolanti dalla riflessione e dal materiale che si sta predisponendo a partire da questo lavoro.

In qualità di amministratore ritengo che il po­litico, oggi, non possa prescindere dalle rifles­sioni sociologiche più mature che individuano nel «privato sociale» e nel volontariato che agisce senza fini di lucra, la «terza forza», che si colloca con un ruolo di innovazione all'interno della dinamica sociale fra Stato e mercato.

Ritengo inoltre quanta mai necessario creare oggi, delle condizioni effettive tali da rendere possibile il dinamismo fra le parti sociali affinché il pubblico non escluda il privato in linea di prin­cipio; ed affinché il privato - e questo privato in particolare - giunga a potenziare i suoi interessi d'ordine collettivo.

Sembra ormai chiaro che l'Amministrazione pubblica non riesca più a concorrere sul mercato dell'efficienza anche se non potrà mai rinuncia­re - proprio per difendere i cittadini più de­boli - a definire un quadro complessivo del bisogno, le linee politiche dell'intervento, a pre­disporre precisi criteri di priorità, a mettere in atto i più opportuni procedimenti di verifica dei risultati e di controllo.

L'Amministrazione pubblica, anche sulla base delle provocazioni e delle sollecitazioni che de­rivano dal «privato sociale» deve porre, oggi, con urgenza, le premesse per correggere le dina­miche sociali generatrici di povertà; per supe­rare la frantumazione degli interventi e lo scoor­dinamento in atta che deriva dalla tendenza ad affrontare il settore socio-assistenziale con po­litiche sociali particolari; per superare i con­flitti fra gruppi sociali, operatori di servizi, grup­pi di base, gruppi di persone in difficoltà; per superare infine la mera amministrazione dei ser­vizi sulla base di chiari obiettivi di politica so­ciale. Tutto ciò implica l'attuazione del collega­mento fra singole azioni ed obiettivi dell'azione sociale nel rispetto di un coerente rapporto «mez­zi-scopi» (già affermato e sostenuto dalla teoria Weberiana e Maertoniana), oltre ad un costante coinvolgimento della base (operatori-utenti) su­gli obiettivi.

 

Problemi aperti

Prima di concludere, vale la pena di sottoli­neare che il volontariato e la organizzazione del «privato sociale» dovranno tenere costantemen­te presenti, a garanzia della loro stessa soprav­vivenza e sviluppo, una serie di problemi. Ad un'analisi sommaria, sono:

- il problema del mantenimento delle moti­vazioni originarie e l'acquisizione di competenze sociali a carattere propositivo, che hanno dato origine al riconoscimento «di fatto», prima anco­ra che «di diritto»;

- l'assunzione delle linee del volontariato «or­ganizzato», maturate in coerenza col movimento nazionale (M.O.V.I.);

- adeguamento delle prassi operative ai «bi­sogni» in mutamento, ed alle esigenze del ter­ritorio;

- attenzione costante contro il pericolo dell'istituzionalizzazione e della burocratizzazione, evitando in ogni caso, di strumentalizzare l'atti­vità volontaria per interessi di parte o per acce­dere a ruoli pubblici più definiti.

 

 

 

(1) Assessore alle attività sociali del Comune di Trento.

 

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