Prospettive assistenziali, n. 69, gennaio - marzo 1985

 

 

STORIE DI ANZIANI

 

 

È ancora molto diffusa l'opinione secondo cui gli anziani che si rivolgono ai servizi assistenzia­li siano stati dei fannulloni, dei mangiapane a tradimento. Invece, se si analizzano le situazioni degli anziani ricoverati in istituto, oppure che vivono a casa loro in condizioni di indigenza, si riscontra che la realtà, in moltissimi casi, è ben diversa.

Un esempio è costituito dalle 13 storie inse­rite nel libro (del quale consigliamo la lettura alle persone interessate ai problemi della terza età) della Cooperativa «Cultura popolare», An­ziani scomodi - Una proposta per l'assistenza domiciliare, Giuffrè Editore, Milano, 1984, pp. 221, L. 15.000, che riportiamo integralmente per gentile concessione dell'Autore.

Operare per adeguare il settore assistenziale alle esigenze di quanti sono costretti a ricorrer­vi, non deve essere considerato, quindi, solo come un dovere nei riguardi della fascia più debole della popolazione, ma anche un mezzo per garantire a se stessi un trattamento più ido­neo nel caso in cui nella terza età si perdano le capacità di autogestione della propria esistenza.

 

 

1. Vivere soli.., insieme ai parenti. Storia di Elisa A.

 

Elisa ha 83 anni. Siciliana dell'interno, ha avu­to il privilegio di studiare, prima al suo paese, poi a Siracusa dove ha preso il diploma magi­strale. Alla buona cultura ha aggiunto quella che si chiama una buona conoscenza del mondo. Ac­compagnando il fratello, ufficiale di carriera, ha potuto girare molte città italiane.

Elisa è sempre stata appassionata di letteratu­ra, poesia, arte e musica; tuttora passa gran parte del tempo leggendo, ascoltando musica; e, da qualche tempo, scrivendo un libro.

Superata la sessantina è stata colpita da emi­plegia e non si è più potuta spostare da sola. Per questo non usciva più da anni quando l'ab­biamo conosciuta nel 1980. Su segnalazione di un vicino siamo arrivati a casa sua. Versava in un grave stato di denutrizione e aveva le gambe coperte di vermi, praticamente in putrefazione.

Questo perché da molto tempo non andava più a dormire a letto e restava tutto il giorno sulla sua poltrona, incapace ormai di alzarsi da sola.

Suo fratello e la cognata, per evitare che ca­desse, quando uscivano la legavano a quella pol­trona, non la facevano più muovere. Quando, per muoversi, le capitava di cadere doveva aspettare intere mezze giornate prima che l'aiutassero a rialzarsi.

Pensammo subito di farla trasportare in ospe­dale dove i medici attribuirono la degenerazione del suo stato fisico alla grave denutrizione. Fu così che in un tempo sorprendentemente breve, circa un mese, poté tornare a casa. Al momento della dimissione i parenti chiesero che venisse trasferita in un istituto, contro la sua volontà. Su nostra insistenza accettarono, però, poi, che tornasse a casa.

Prendemmo accordi con loro e iniziò l'assi­stenza domiciliare.

Al rientro a casa Elena era allettata ed incon­tinente e noi dovevamo provvedere a tutti i suoi bisogni, dato che il fratello e la cognata non si occupavano affatto di lei se non per portarle la minestra.

Anche questo cambiò in breve: concessoci l'uso della cucina, cominciammo a preparare noi i pasti principali.

In poco tempo Elisa ha cominciato, anche con l'aiuto della fisioterapista, a non stare più tutto il giorno a letto: uno dei principali obiettivi del­le visite domiciliari è stato proprio quello di farla alzare (e farla stare seduta soltanto parte del tempo) per camminare con l'aiuto di un de­ambulatore.

Nella sua stanza, quando ci stiamo noi e lei è in piedi, non c'è però quasi spazio per muoversi: infatti quasi tutto il pavimento è ingombrato da scatoloni e bauli con dentro tutta la sua roba. È, questo, il risultato dell'isolamento progressivo che ha accompagnato il suo rientro, vagamente tollerato dai parenti più stretti, in casa.

Il fratello e la cognata hanno praticamente smesso di entrare nella sua stanza, fino a rarefa­re la comunicazione quasi completamente. I rari rapporti con lei si sono ridotti a messaggi del tipo: «da domani non possiamo più portare giù l'immondizia»; oppure «il davanzale è sporco, bisognerà pulirlo».

Elisa, che non ha perso interesse nei loro con­fronti, tenta ormai di intuire i particolari della loro vita dai rumori della stanza attigua alla sua. È da quei rumori che suppone o capisce se sono in casa o se escono, qual è il loro stato di salute o di che umore sono, le parole non esistono più. A prima vista si sarebbe detto che Elisa era un'ingrata, nei nostri confronti. Ombrosa, spesso arrabbiata, alla ricerca di pretesti per dire che noi non eravamo in grado di aiutarla, quando addirittura non passava ad accuse più incredibili e circostanziate, come quelle di avere rovinato degli oggetti o di averla allontanata dalla fami­glia. In realtà molti di questi rimproveri si sono rivelati altrettanti esami per verificare fino a che punto ci saremmo occupati di lei e guada­gnare la certezza che, almeno noi, non l'avrem­mo mai abbandonata.

Un episodio per tutti: quello del «lavandino». L'accusa era di avere prodotto accidentalmente una crepa nel sanitario del bagno. L'unico modo per riparare sarebbe stato quello di acquistarne una nuovo, cosa per lei impossibile. «Ecco, non state mai attenti a come fate le cose». Ma pia­no piano aggiunse che del lavandino non le im­portava nulla e che voleva vedere se ci prende­vamo a cuore le sue preoccupazioni.

Da molto tempo, ormai, le «assistenti domi­ciliari» sono le uniche persone che lei vede du­rante la giornata: ed Elisa si prepara all'incontro umano pensando durante il giorno alle cose che dovrà dirci quando ci vedrà.

Nell'aprile 1984 una nipotina è andata a tro­vare il fratello e la cognata. Quando passava da­vanti alla sua porta, la spingevano a camminare più in fretta per timore che prendesse l'iniziativa di entrare da «zia Elisa». Ovviamente Elisa, la persona strana, ha commentato: «se non mi ve­nisse da piangere ci sarebbe da ridere».

 

 

2. «Se stai male peggio per te». Storia di Ines C.

 

76 anni. Tutta la vita passata al rione Monti in un vecchio appartamento senza ascensore, trat­tata con rispetto e timore dagli altri inquilini. Ines era stata una «signora», la più ricca là dentro. Aveva sposato un noto ingegnere e con lui era entrata nella buona società: ricevimenti, viaggi, gli amici che contano, case di proprietà con tanto personale di servizio: «Avevo i milio­ni, i milioni», questi i suoi ricordi belli.

A cinquant'anni Ines si è ammalata di artrite reumatoide e a poco a poco è stata abbandonata da tutti gli amici, anche dal marito.

Noi l'abbiamo conosciuta quattro anni fa e l'ab­biamo assistita fino alla sua morte avvenuta l'an­no scorso. Ines allora viveva sola e aveva le gam­be paralizzate, riusciva a spostarsi a fatica con le stampelle. La stanza dove stava tutta il gior­no era la cucina: piccola con al centro un tavo­lino con un cassetto pieno di cose perché po­tesse arrivare a tutto senza alzarsi: orologio, to­vaglioli, forbici, soldi, fotografie. Tutto il mondo in un cassetto. La gente, ormai, era diventata per lei un unico nemico. Il risentimento per l'abban­dono dei vecchi amici si ripercuoteva ormai in modo indistinto su chiunque, anche su coloro che cercavano di avvicinarsi a lei per romperne l'iso­lamento e aiutarla nelle necessità più urgenti: qualche vicina e noi. Ci sentivamo comandare a bacchetta: «Vi pagano per venire qua e allora lavorate come si deve». In altri termini signi­ficava: «Restate qui con me, sempre, a tutto servizio».

Abbiamo cominciato ad andare da lei quattro volte al giorno: al mattino per aiutarla a lavarsi, vestirsi e per fare le pulizie in casa. A pranzo per farla mangiare, darle le medicine e metterla a letto. Dopo pranzo per rialzarla dal letto e la sera per la cena. A questo punto, in genere, vo­leva che rimanessimo lì con lei a vedere la te­levisione.

Ines era riuscita ad organizzare la sua vita «razionalmente»: ogni cosa aveva un suo posto, ogni persona il suo ruolo. La signora che le fa­ceva il bagno, quella che la aiutava ogni tanto in casa, noi per le faccende quotidiane, un nipo­te «parrucchiere delle dive» che le faceva i capelli e così via.

A differenza di altri anziani, il suo attacca­mento agli oggetti di casa nasceva non tanto dal loro potere di evocare il passato, ma da un inso­lito pragmatismo: le servivano al presente e le sarebbero potuti servire «un domani».

All'origine c'era il suo modo di pretendere tutto: non le andava mai bene come pulivamo o quello che compravamo o l'orario in cui arriva­vamo da lei e non era strano che volesse che pulissimo due volte lo stesso pavimento. Qual­che volta lo facevamo.

Una sera, arrivando prima del previsto a casa sua, l'abbiamo sentita dalle scale mentre chia­mava il nome di una di noi. Lo ripeteva come una cantilena, per poi interrompersi appena ci ha sentiti entrare in casa. Non era successo niente, non aveva bisogno di niente, ma chia­mava. Voleva che arrivassimo prima? Da allora abbiamo cercato di anticipare il nostro arrivo da lei e ci siamo accorti che, in nostra assenza, ci chiamava la stesso, come un rito, che serviva ad accorciare il tempo. Poi all'arrivo si metteva a parlare con noi, e riprendeva, rassicurata, a «sgridarci».

Abbiamo voluto molto bene a Ines e pensiamo che anche lei ci ha voluto molto bene. Poi si è aggravata e abbiamo cercato di non lasciarla mai sola neanche la notte. Era, ovviamente, «ille­gale». L'orario di lavoro non lo prevedeva, né avremmo potuto fare lo straordinario. A periodi alterni andò avanti così per qualche mese.

Alla fine è morta come si muore quando si è anziani. Ma «Padrona» di molti amici.

 

 

3. «A casa mia siamo in tanti: io, 14 gatti e 7 uccelli». Storia di Elena P.

 

Alta, grossa, il viso rosso da montanara, quan­do sulla porta di casa rispondeva alle nostre do­mande in un dialetto veneto, con molta genti­lezza, abbiamo quasi creduto che non avesse bi­sogno di niente. Ma poi abbiamo voluto verifi­care meglio.

Elena, 81 anni, vive in quella casa al rione Monti con 14 gatti e 7 uccelli. È difficile imma­ginare la sporcizia, il fetore ed anche il disagio provato quando ci trovammo a camminare cir­condati da gatti e uccelli lasciati in libertà.

Elena era rimasta sola dopo la morte del mari­to e si era ammalata di una grave forma di de­pressione che le aveva procurato seri disturbi psichici.

A poco a poco si era presa in casa gli animali; quasi uno stuolo di ammiratori muti delle sue opere artistiche. Infatti Elena artista lo era stata davvero: una brava pittrice e una fotografa di­lettante, soprattutto per aiutare il marito, archi­tetto durante il fascismo.

Non avevamo mai visto fino ad allora una casa come la sua: riempita dal chiasso degli animali e carica di vecchi ricordi.

Elena vive della pensione di reversibilità del marito; è cardiopatica ed ha alle gambe una tramboflebite granulosa. Malgrado questo all'ini­zio non voleva essere aiutata nelle pulizie della casa. «La casa è pulita» ci ha ripetuto per mol­to tempo.

Per conquistare la sua fiducia abbiamo deciso di andarla a trovare spesso.

L'intervento, già problematico per la partico­lare gravità della situazione, si presentava ancor più difficile per le sue resistenze. Elena, molto orgogliosa, non accettava nessun consiglio, tan­tomeno riguardo alla casa o alle sue condizio­ni di salute che si andavano aggravando. Le si erano aperte delle ulcere sulle gambe, lei le me­dicava da sola rischiando di infettarle.

Dopo cinque mesi di inutili tentativi per invo­gliarla ad accettare il nostro aiuto abbiamo pen­sato ad uno stratagemma: allestire a casa sua con tutte le sue vecchie fotografie e i suoi qua­dri, una mostra a cui invitare gli anziani del cen­tro sociale del rione Monti. Naturalmente per fare questa occorreva pulire la casa, far sparire qualche gatto, mettere gli uccelli nelle gabbie... Elena si è mostrata entusiasta di questa idea e ha cominciato a collaborare al progetto.

La mostra ha avuto «un buon esito» ma non solo per il successo artistico.

 

 

4. E quando a casa non ci vuole stare? Storia di Rita R.

 

Rita R. è una di quelle persone che, normal­mente, viene definita matta. 65 anni, piena di pacchetti con dentro la sua casa, è una donna­sacchetto che da anni non conosco una casa. La sua vita scorre senza particolari novità, che non siano il caldo o il freddo, la paura o la fame, nel riparo artificiale che una nicchia della Ma­donna all'angolo di una delle chiese del rione Monti le offre. Per la gente, che la conosce di vista, è una situazione da tollerare, ma che an­drebbe rimossa.

L'abbiamo conosciuta e avvicinata mentre era lì, nella sua cappellina privata. Quando ci siamo accostati, abbiamo trovato persone preoccupate che potesse farci del male: «non vi avvicinate, che quella picchia chiunque ha a portata di braccia».

La stracciona Rita viene da tre anni con noi in rosticceria, ogni giorno, per il pranzo. Da qual­che tempo non c'è più neanche l'anfratto della cappella della Madonna dove ripararsi, perché è stata chiusa da una grata di ferro battuto. La gente dei dintorni si è detta finalmente soddi­sfatta.

Si direbbe un'anziana che necessita delle cure e dell'assistenza psichiatrica del Centro di Salu­te Mentale. Ma, ovviamente, non ha mai richie­sto al CSM di zona di essere aiutata e, come è consuetudine, gli operatori del CSM intervengo­no solo quando c'è un'esplicita, consapevole ri­chiesta da parte del soggetto con difficoltà psi­chiche o psicologiche. Senz'altro alle spalle di Rita c'è una storia fatta di ricoveri in manicomi fin da giovane. Anche sua sorella ha avuto pro­blemi di questo tipo.

Nella storia più recente va registrato il fatto che abitavano, lei e la sorella, in un apparta­mento a pochi metri dall'edicola della Madonna, dove Rita non ha fatto più ritorno dopo la mor­te, drammatica, della madre. Che la madre fosse morta è stato scoperto dai vicini dopo una set­timana, perché veniva fuori un gran tanfo da dietro la porta: loro due stavano metà tristi, metà con lo sguardo vuoto vicino al corpo della madre.

Avvicinarsi a Rita non rientrava nei compiti istituzionali dell'assistenza domiciliare. Qui non c'era e non c'è una casa in cui assistere, né letti da rifare. Abbiamo però scelto ugualmente per questa assistenza «anomala» perché senz'altro il tipo di vita che Rita conduceva era altamente pericoloso, precario, non in grado di assicurare a se stessa la sopravvivenza.

Nonostante le anomalie è stato possibile con­statare una evoluzione profonda nel nostro rap­porto e nella condizione oggettiva di vita di Rita.

Il luogo dell'«assistenza» è, ovviamente, la strada. Qui ci incontriamo con lei, con continuità. Ogni giorno, ad ore precise. Si va a mangiare as­sieme nella rosticceria all'angolo e, alla sera, facciamo con lei la strada fino al dormitorio di San Gregorio al Celio. Anche continuando a vivere fuori casa, ora, la sua vita è senz'altro meno confusa e disordinata e meno sottoposta a peri­coli improvvisi e a rischi gravi come la malnutri­zione o il freddo notturno. Elemento decisivo si è rivelata la continuità del rapporto umano con una dei nostri operatori domiciliari. Il fatto di vedersi tutti i giorni, alle stesse ore (oltre a qualche altra volta) ha creato una stabilità e aperto una breccia nel mondo chiuso di Rita. La persona che l'avvicina, col tempo, è diventata «Nannarè» e, più avanti, tutta la nostra presenza è stata assi­milata all'amica «Nannarè». Ora ciascuno di noi, quando si avvicina, è «un amico di Nan­narè».

 

 

5. «Per il bene suo è meglio che la rinchiudete...». E invece no! Storia di Amelia S.

 

Amelia, 84 anni, passava il suo tempo chie­dendo l'elemosina all'angolo tra via Marmorata e via Galvani nel quartiere Testaccio. Piccolina, una faccia furba con due occhi vispi, malvestita, ripeteva in continuazione ai passanti: «che mi paga un cappuccino?».

I soldi raccolti bastavano solo per la colazio­ne e per il pranzo, consumato in una rosticceria nei pressi del mercato. La sua casa era vicino, al quarto piano senza ascensore di un palazzo or­mai fatiscente. Ci andava solo a dormire.

Il primo incontro è stato difficile: non voleva parlare con noi, forse aveva paura. Ci siamo ri­volti allora alla gente del quartiere. Le risposte erano rassicuranti: Amelia era ricca, con una casa di proprietà, con i parenti che le abitava­no vicino.

Dopo due mesi il servizio sociale dell'ospeda­le S. Camillo segnalò che una donna di nome Amelia si era rotta il femore. L'operazione era riuscita ma «la donna» aveva grossi problemi psichici, e non voleva camminare; così era auto­maticamente finita nella lista di attesa per il cronicario. Parlammo con la direzione dell'ospe­dale per bloccare, almeno per qualche giorno, il suo trasferimento, il tempo per iniziare un rap­porto con lei, per tentare di farla alzare, poi l'avremmo riportata a casa. Comincia così la nostra storia con Amelia. All'inizio non si vo­leva alzare, non voleva mangiare. Stava lì, ab­bandonata a letto e ripeteva: «dottore, mi man­da a casa?».

Andavamo da lei tutti i giorni per farla man­giare ed incoraggiarla ad alzarsi ma le nostre facce si confondevano, non avevano un nome: per lei eravamo tutte «la signora». Dopo un po' le cose andarono meglio: c'era la possibilità di riportarla a casa. Prima però, occorreva dare «una sistemata». Prese le chiavi ed entrati per la prima volta a casa di Amelia ci accorgemmo che una semplice sistemata non sarebbe servita a niente: la sua stanza era un cumulo di immon­dizie che arrivava al soffitto, brulicante di inset­ti di ogni tipo. Per terra un materasso rotto, di crine: il suo letto. Per anni aveva accumulato quella roba e nessuno era mai entrato là dentro. Da soli non avremmo potuto fare niente. Ma anche gli addetti ai lavori si dichiaravano impo­tenti. La Nettezza Urbana si rifiutava di interve­nire: troppo pericoloso per gli operai. Occorre­va, prima l'intervento dell'Ufficio Disinfestazione della USL. La Disinfestazione, per intervenire, voleva la casa sgombrata dalla Nettezza Urbana.

Intanto, a causa di questo scarico di respon­sabilità passava del tempo prezioso. L'ospedale faceva pressioni perché portassimo via Amelia. Abbiamo chiesto, parlato, insistito e litigato con molti. Alla fine un fonogramma che sanciva l'ac­cordo tra le due parti in causa: la N.U. e la Di­sinfestazione sarebbero intervenute contempora­neamente, secondo un piano concordato. Dopo aver superato le ultime (e sconcertanti) difficol­tà tecniche, quali ad esempio il fatto che, dopo tutte le preoccupazioni per la salute degli operai, questi ultimi non avevano in dotazione neanche le mascherine per la bocca (gliele abbiamo com­prate noi), la casa finalmente fu liberata. A noi restava il compito di terminare le pulizie e di fare altre scoperte del mondo «strano» di Amelia, nei cassetti e negli armadi.

Ripulite le pareti, trovato un letto (da amici) e il necessario per vivere dignitosamente, l'ab­biamo riportata a casa. Era ancora allettata e ave­va bisogno di continua assistenza. Andiamo da lei tre volte al giorno, e ci occupiamo di tutto: faccende, spesa, gestione dei soldi, fisiotera­pia etc.

Nella nostra storia con Amelia in tutti questi mesi, non abbiamo avuto amici. Lavorare da soli, con l'ostilità dei parenti e dei vicini è stato diffi­cile. La nipote che sta al piano di sotto, non è mai venuta a trovarla, non capisce perché ci interessiamo di lei.

Ma anche con Amelia è stata una storia di difficili conquiste; all'inizio aveva grossi proble­mi psichici: confondeva le persone, il tempo, i luoghi. Le sue urla si sentivano in tutto il pa­lazzo. Urlava perché non voleva fare la fisiotera­pia, non voleva camminare. Tentava di «impieto­sirci» dicendo che non poteva muoversi. Poi, di nascosto, stava dritta in piedi senza alcun ap­poggio. Oggi cammina benissimo ma si finge malata perché le resta una paura, quella di per­derci.

Nella sua vita Amelia aveva perso tutti i suoi affetti. È una storia triste: lei e la sorella Rosina, erano conosciute nel quartiere Testaccio come due ubriacone, poi Rosina muore: era per Amelia l'unica persona che le voleva bene.

Alcune vecchie foto che abbiamo ritrovato la ritraggono da ragazza con la stessa faccia fur­ba, un po' imbronciata, dietro alla processione, vicino alla sorella. Una terza sorella era morta, dicono, in odore di santità. In casa Amelia ha un altare vero e proprio, con le statue della Madon­na e dei Santi. Ogni giorno davanti al Bambinel­lo, mette un uovo: un modo per ringraziare.

La vita adesso continua ma non più da sola. Oggi quando andiamo a casa sua ci invita a man­giare con lei e qualche volta, all'improvviso, se ci avviciniamo a lei ci prende la faccia e ci dà un bacio.

 

 

6. «Sono caduti gli angeli su una terra sconosciuta». Storia di Beatrice B. e Pietro T.

 

Beatrice e Pietro, 72 anni lei e 78 lui, nati ad Avola, in Sicilia. Il figlio, Salvatore, da ragazzo era venuto a Roma per cercare lavoro e mettere su casa. Alla fine era riuscito ad aprire una piccola tintoria con la moglie. Poi era venuta la malattia, grave, e Salvatore era morto. Allora Beatrice e Pietro, un po' per affetto e un po' per dovere, decidono di « emigrare »: non si può lasciare sola la nuora in una grande città.

Beatrice è piccola, sempre vestita di nero col fazzoletto in testa anche d'estate; Pietro ha il viso dolce, conosce solo il dialetto del suo paese.

Vanno dalla nuora, ma dopo un po' nascono le prime incomprensioni: due mentalità troppo di­verse per convivere. Si stabiliscono allora in una vecchia casa al rione Celio, un appartamen­to sporco e umido, con una sola stanza per dor­mire e cucinare, il gabinetto in comune con gli altri inquilini del palazzo. Tolte le spese dell'af­fitto e della luce, resta poco della pensione (la minima dell'Inps) per vivere.

Beatrice è più intraprendente del marito, forse lo diventa per necessità: «Pietro è malato», ci ripeteva. «Pietro sta male davvero», le aveva detto un medico appena arrivati a Roma: pro­statite la diagnosi, con l'obbligo fastidioso di usare il catetere.

Quando li abbiamo conosciuti stavano a Roma da cinque anni. Era difficile capirli e farsi capire. Beatrice, in particolare, aveva maturato, a cau­sa di numerose esperienze negative, una pro­fonda sfiducia nelle istituzioni. Non credeva alle promesse e, per curare i suoi interessi, aveva imparato a girare di ufficio in ufficio come in uno strano pellegrinaggio. Anche nei nostri confronti aveva un atteggiamento questuante e lamentoso, di continua richiesta. È quell'atteggiamento fur­bo fatto di insistenza che si impara presto per ottenere qualcosa o per riuscire almeno a farsi ascoltare.

Abbiamo accettato che cominciasse così il no­stro rapporto con lei: dandole retta e ascoltando i suoi lamenti. Anche Pietro cominciava a par­lare e dalle sue parole emergeva, a poco a poco, il dramma di chi, da anziano, è costretto ad emigrare.

Beatrice nei primi tempi andava a fare la spesa al mercato e ascoltava tante parole «stra­ne»: «pagnotta» (1) per esempio. Lei aveva co­nosciuto a Roma il senso di una parola simile (di ben altro significato) e quando doveva chie­dere il pane, per non dire quella che credeva una volgarità, lo indicava stando zitta. Anche la pa­rola «amico» a Roma poteva avere un signifi­cato diverso: «hai visto quella, ha l'amico». E Beatrice si confondeva. Ce le raccontava riden­do queste cose, mentre si vergognava e il ma­rito faceva «sì» con la testa, come per dire che questo era proprio un altro mondo.

Pietro faceva una vita molto triste. Con il catetere aveva difficoltà a camminare e stava quasi sempre in casa. Ogni dieci giorni era co­stretto ad andare in ospedale per sostituirlo. Ab­biamo voluto verificare meglio il suo stato di sa­lute portandolo da un altro specialista; ci ha det­to che Pietro non aveva assolutamente bisogno di catetere: lo aveva portato inutilmente per cin­que anni. È stata una grave ingiustizia e un'inu­tile sofferenza imposta a chi già soffriva per la lontananza dal paese e dagli ambienti più fa­miliari.

Non è facile descrivere la gratitudine di Beatrice e Pietro dopo questi fatti. Il rapporto con noi è cambiato molto a partire dai problemi quo­tidiani come le pulizie della casa che fino allora non ci avevano permessa di fare. «Si sono aper­ti i cieli e sono caduti gli angeli» ci ha detto Beatrice un giorno, e si è messa a piangere men­tre ci guardava lavorare. Tutto andava per il meglio. Si riusciva persino a fare progetti insie­me e a realizzarli: con la ristrutturazione della casa, a spese del Comune, Pietro e Beatrice han­no finalmente potuto avere il bagno nell'apparta­mento. Ci ha detto Beatrice quando lo ha visto: «questo è un abuso di miracolo!».

Un giorno hanno ricevuto la comunicazione di sfratto. Dovevano andar via di lì. Abbiamo cer­cato per loro un'altra sistemazione, ma non l'ab­biamo trovata. Così, sono andati a vivere in una baracchetta ad Ostia. Non era possibile che la loro vita finisse lì. È stato difficile, ma, col tem­po, li abbiamo convinti a tornare al loro paese in Sicilia. Ci hanno telefonato a Pasqua: non di­menticano.

 

(1) Tipo di pane.

 

 

7. Dal cronicario a casa: anche questo è possibile. Storia di Umberto O.

 

Abbiamo visto Umberto per la prima volta da­vanti al portone della casa dove ha sempre vis­suto; era stato «riportato» a casa da un'assi­stente sociale del «cronicario» Villa delle Quer­ce di Nemi vicino a Roma, e da un autista.

«Ma come, non è contento?» si domandavano. Forse Umberto avrebbe dovuto esprimere la sua gratitudine elargendo sorrisi ai suoi accom­pagnatori...

Umberto è sconvolto, ha uno sguardo assente, sembra non riconoscere la sua casa, sembra di­sinteressato a ciò che sta accadendo. Eppure Umberto si è sempre ribellato con forza di fron­te a chi decideva della sua vita, anche quando la moglie, molto più giovane di lui, «per incom­patibilità di carattere» ha colto l'occasione di una sua caduta (Umberto è epilettico), e lo ha avviato in ospedale. È iniziato così il suo lungo itinerario, tra un ospedale e l'altro, che lo ha portato fino alla casa di cura dei Castelli romani.

Qui la diagnosi è chiara e immediata; Umberto sarebbe un tipico malato di mente: urla sempre, minaccia gli altri, non si adatta all'am­biente...

Umberto comincia a far parte della folla dei cronici, degli irrecuperabili. Ma continua ad in­sistere stancamente che vuole tornare a casa. Lui la casa ce l'ha, anche la pensione... ma dov'è finita la pensione? Poi un incontro felice: un assistente sociale della Circoscrizione in cui abita a Roma, e l'assistenza domiciliare che è appena cominciata proprio in quel quartiere.

Ora Umberto è di nuovo a casa, è tornato all'inizio, afflitto da uno stato confusionale grave con disturbi dell'orientamento, senza più la di­mensione del tempo e dello spazio.

Ora sta imparando ad usare il citofono, la sve­glia, ad aprire e chiudere le porte e le finestre, a farsi la barba...

In cronicario Umberto camminava, camminava a lungo per raggiungere una finestra, un po' di luce, per cercare un infermiere: ora dopo pochi passi è sul pianerottolo, a volte è uscito di casa in pigiama.

La moglie lo ha lasciato ma Umberto sta cer­cando i suoi vecchi amici, e alcuni li ha trovati: il medico, il parroco; altri li cerca ancora, spes­so in questa ricerca Umberto si perde nelle vie del suo vecchio quartiere.

Sono evidenti le difficoltà nell'aiutarlo a recu­perare le capacità psico-fisiche perse in questi ultimi anni. Solo oggi, infatti, comincia ad accet­tare il nostro intervento: si fida di più, è sicuro che noi non lo riporteremo mai più in cronicario.

 

 

8. Quando la follia è piena di sentimenti. Storia di Elvira S.

 

Elvira ci fu segnalata come un caso «diffici­le»: 86 anni, una forte arteriosclerosi. I parenti non potevano aiutare pur volendo, i vicini non la sopportavano più perché spesso lasciava il gas aperto, rimaneva chiusa fuori casa e sporca­va le scale del palazzo. Vagava per il rione, il Celio, uscendo soprattutto la notte. Spesso al­lontanandosi dal quartiere, le era capitato di per­dersi nella città. Quando andammo a casa sua, al terzo piano di un palazzo signorile, scoprimmo i segni di un'agiatezza passata: un appartamento molto grande con mobili antichi. Elvira invece, era vestita in modo strano, quasi «alla rove­scia», scalza, molto sporca, con un cappotto per vestaglia e uno strano berretto di lana viola a forma di cilindro. Senza chiedere chi fossimo ci fece entrare subito, ci fece accomodare nel salotto da tempo inutilizzato e ci «offrì» le foto­grafie di quando era giovane, quasi si trattasse di pasticcini. Ci trattò, insomma, come vecchie amiche ritrovate dopo tanto tempo.

È vero, era un caso «molto difficile»: non sa­pevamo come inserirci nel suo mondo. Per EI­vira non esistevano orari; mangiava a tutte le ore le cose più strane: un etto di burro, due dadi da brodo... Aveva l'armadio pieno di vestiti, ma non si cambiava mai. Non aveva i soldi perché li perdeva, oppure perché a volte metteva nella cassetta delle «offerte» in chiesa tutta la pen­sione. Avevamo dei problemi contingenti da af­frontare: l'alimentazione, trovarle tante occupa­zioni per la giornata in modo da evitare che uscisse di notte, la situazione igienico-sanitaria.

La mattina andavamo da lei presto per pulire la casa e preparare la colazione. Tornavamo poi all'ora di pranzo, la facevamo mangiare e usciva­mo con lei a prendere il caffè. All'inizio si sen­tiva limitata nella sua «libertà» e spesso ripe­teva: «sono io la padrona!». Quando si arrab­biava diceva: «Cattive! Avete un pelo lungo sul cuore!». Ma nel frattempo iniziava a rispettare fedelmente l'appuntamento con noi, ricambiando le attenzioni che avevamo nei suoi confronti, co­me poteva, a modo suo. Così, se noi stendevamo i panni, lei ci stendeva i documenti e gli oggetti personali che trovava nelle nostre borse.

Il suo modo di parlare era misto di ricordi, fra­si inventate e vecchi proverbi che ripeteva in continuazione: parole senza un apparente senso come «non fare la bocca quadra» oppure « ...e la signora sta in camera». Decidemmo di dare una dignità a quelle parole «strane», oggetto in passato di incomprensione con i vicini, usandole anche noi.

Così cominciò tra noi e lei un dialogo tra «paz­zi», con frasi sconclusionate, privo di una lo­gica strettamente razionale, con l'intenta di apri­re un varco nel suo mondo immaginario. Col tempo abbiamo scoperto che una logica c'era: erano parole legate a frammenti della sua storia, del suo passato, difficile da ricostruire, ma cari­co di drammi e incomprensioni. Una storia che nessuno aveva mai ascoltato perché apparente­mente priva di senso.

Elvira per «ricambiare» cominciò a preoccu­parsi introducendo nel suo «vocabolario» delle espressioni di affetto, delle parole nuove: ci chie­deva che lavoro facevamo, se eravamo sposa­te, ci dava consigli. Era diventata amica di qual­cuno perché contava per qualcuno.

Tutto questo è continuato anche in ospedale dove è stata ricoverata per una caduta e dove è morta dopo una lunga agonia.

 

 

9. «Una volta ero bella». Le donne nascoste. Storia di Maria P.

 

Abbiamo conosciuto Maria un po' per volta in un rapporto quasi quotidiano con lei. Quando è stato richiesto l'intervento di assistenza domici­liare sembrava infatti quasi impossibile seguirla. Aveva 64 anni, allora era ricoverata in una cli­nica per malattie mentali.

Molto calma, soprattutto per l'effetto dei far­maci, ma con un notevole deficit di linguaggio e costretta a letto da un'emiplegia, esito di ictus cerebrale recente. Non era stata sottoposta a trattamento fisioterapico perché i medici ritene­vano impossibile la sua collaborazione. Era, co­me si dice con linguaggio tecnico, in dimissione. Era una di quelle situazioni tipiche per cui l'as­sistenza domiciliare è stata ideata: una persona che ha avuto gravi problemi sanitari, una malat­tia «acuta», tale da richiedere il ricovero ospe­daliero, doveva ritornare a casa perché la sua si­tuazione non richiedeva più la degenza ospeda­liera. Salvo il fatto che, in lei, si sommavano una serie di problemi tali da rendere difficile ad una persona sola, in casa, di assisterla. Di lì a poco avremmo dovuto aiutarla a superare il peso del­la perduta autosufficienza in collaborazione con il marito che era stanco di accudirla. Infatti, or­mai doveva «controllarla» in continuazione per­ché non commettesse «sciocchezze»: lei diceva spesso che era stanca di vivere perché si senti­va invecchiata e brutta.

Anche la situazione della casa gli procurava difficoltà: una stanza senza riscaldamento, all'ultimo piano di un vecchio e cadente palazzo senza ascensore e con i servizi in comune con altre famiglie; una tipica casa non padronale, un po' in disarmo, del centro storico.

Già da anni, prima ancora dell'ultima crisi, Maria viveva relegata in quella stanza. Nessuna amicizia. Nei primi incontri con noi non sapeva dire altro che: «dammi una sigaretta» e «ero bella, ora son brutta». Ripeteva queste cose os­sessivamente. Urlava e piangeva se le si negava la sigaretta e, in ogni caso, non rispondeva affat­to alle nostre domande.

Spesso il marito non era in casa. Al nostro ar­rivo, più di una volta, l'abbiamo trovata per terra seminuda, nonostante il freddo, mentre cercava di raggiungere le sigarette trascinandosi sul pa­vimento. Non gradiva che la lavassimo e non pro­testava per l'evidente stato di abbandono in cui si trovava, anzi a fatica riuscivamo a farle cam­biare posizione per evitare le piaghe da decubito.

Cominciammo ad esigere una maggiore cura da parte del marito, a dire il vero, con qualche risul­tato. In seguito cominciò a piacerle di essere pu­lita e curata.

Nonostante il nostro intervento, Stefano, il marito, continuava a lamentarsi e proponeva di ricoverarla per riposarsi un po'; ma per Maria stare in ospedale era peggio di stare in casa. A volte allora lui la trattava con cattiveria dicen­dole: «Guarda come sei ridotta» e sembrava che quella Maria fosse un'altra persona rispetto a quella che lui ricordava.

Le fotografie alle pareti mostravano un passa­to diverso: due persone ben curate, con abiti de­corosi, panorami di luoghi di villeggiatura. Ave­vano vissuto per molti anni in Argentina condu­cendo una vita agiata. Dopo un improvviso rovescio economico erano stati costretti a ritornare in Italia con notevoli ripercussioni, però, nel te­nore di vita, oramai a livello di sopravvivenza. Maria sembrava tra i due quella che risentiva di più della mutata situazione e già da anni vi­veva «come se fosse già morta», senza interes­si e amareggiata per l'atteggiamento del marito.

La nostra presenza interrompeva l'isolamento in cui tutt'e due erano abituati a vivere e dopo qualche mese cominciammo a notare dei pro­gressi. Maria cominciò a farsi lavare, vestire e ad alzarsi dal letto. Chiedeva sempre quando sa­rebbe venuto il fisioterapista. Ci raccontava di quando era giovane: «Ero bella, dicevano che ero la più bella di tutte, un pittore mi fece il ritratto e quando gli altri lo vedevano volevano conoscermi. Ho fatto la modella e avevo tanti bei vestiti, tutti mi facevano i complimenti per come vestivo. Avevo molti corteggiatori». Rac­contava queste cose con orgoglio ma anche con la tristezza di averle perdute, con il rifiuto di come è adesso.

Abbiamo pensato di vestirla bene e di truc­carla, un po' di rossetto e di cipria, gli orecchi­ni, si è guardata allo specchio e ha detto: «sono bella». Non è stato un episodio. Una delle atti­vità principali nel rapporto con lei è stata proprio quella di stabilire una relazione nuova con il corpo «di adesso».

Anzitutto per trovare una dimensione nuova, quella del presente. La messa in piega dei ca­pelli, un po' di rossetto sulle labbra, non alla ricerca dell'impossibile passato, ma per scopri­re una dimensione gradevole dei suoi anni. Non la ricerca giovanilistica e surreale dell'assenza di rughe, ma il recupero della propria storia, della propria espressione, della certezza di in­teressare a qualcuno anche oggi. Non era pre­visto nel «mansionario». Da qualche mese Ma­ria ha ripreso ad uscire di casa.

 

 

10. Comunicare senza parole. Storia di Zelda B.

 

Zelda all'età di 69 anni ha avuto un ictus cere­brale ed è diventata afasica ed emiplegica. La sua vita da quel momento è stata costretta nel silenzio. Da allora Zelda si è chiusa in un mondo indecifrabile: il pianto ed il riso come uniche espressioni di sé. Anche Giuseppe, il marito, in seguito ad una operazione alle corde vocali non può più parlare.

Siamo entrati in questa casa silenziosa, dove l'unico modo per comunicare erano i rumori del­le cose. Zelda era in grado di capire tutto, ed era perfettamente cosciente della propria situa­zione: questa lucidità l'aveva condotta ad una grave forma di depressione. È stato difficile, i primi tempi, dialogare con lei, cercare di capire le sue risposte inarticolate. Dopo qualche mese di lavoro la logoterapista è riuscita a farle pro­nunciare qualche parola: i nostri nomi, un sem­plice saluto. Poche cose, ma in questo modo si era aperta una strada, una possibilità di recupe­ro della parola.

Poi Zelda ha avuto un altro ictus, ed è stata ricoverata in un grande ospedale. Qui un assi­stente sociale ha prospettato al marito una solu­zione per tutti e due in una stupenda clinica tuffata nel verde, «una vera oasi di pace»: Zel­da è finita in un cronicario, poco distante da Roma. Non è vero che ci sono le stanzette per due, non è vero che c'è il verde, non è vero che si sta in pace.

Giuseppe si arrabbia molto con i medici, con gli amministratori del cronicario; vorrebbe urla­re, fare delle scenate: scrive loro innumerevoli biglietti infuocati. Paga per avere ascolto, paga per farla lavare, paga per non farle venire le piaghe. La vuole far tornare a casa; c'è la possi­bilità, ci sono gli operatori dell'assistenza domi­ciliare, una casa attrezzata: perché è impossibi­le portarla a casa?

Siamo andati a parlare con il direttore sanita­rio della clinica. Le resistenza sono diventate sempre più forti; i medici non avrebbero mai da­to il permesso. Forse Zelda è una malata como­da: non si muove mai dal suo letto, e non ha neanche la voce! Giuseppe ripeteva: «non per­metterò mai che Zelda muoia guardando il soffit­to». Abbiamo continuato a insistere per nove mesi. Zelda adesso è tornata a casa.

 

 

11. Non c'è notte e non c'è giorno: il tempo è sempre uguale. Storia di Giacomina V. e Saturnino S.

 

Giacomina e Saturnino, 93 anni lei, non tutti dichiarati subito, 89 anni lui. Vivono insieme da 70 anni.

Li abbiamo conosciuti quattro anni fa, «sco­vati» in un sottoscala del rione Monti, in uno stato di semi-abbandono. Stavano a letto tutto il giorno. Lui, Saturnino, si era allettato per un motivo apparentemente banale: un dolore reu­matico al braccio, che, nel tempo si era trasfor­mato in un processo più serio di degenerazione. Adesso era un principio di immobilizzazione. An­che per questo si era abituato a mangiare po­chissimo. La prima immagine che ne abbiamo tratto è quello di uno che piangeva spesso.

Giacomina stava meglio: verso l'ora di pranzo si alzava «per scaldare un boccone per lui, non per me!...» ripeteva. Sempre in pigiama, sem­pre al buio, tanti ricordi che parlano, con mac­chie di grigio, delle fotografie, il paese, le feste, i parenti. Tanti ricordi che parlano dall'ingiallito attestato di appartenenza ai Cavalieri di Vittorio Veneto, da una vecchia locandina della «Bohéme» che svela un'antica passione per la musica ri­dotta a ricordo muto.

Una storia lunga: un figlio in un lontano car­cere, una figlia «ormai anziana», tutto appiat­tito in un tempo tutto uguale, senza giorno e notte, senza attesa. La sensazione, non solo, è che sembra impossibile che torni la voglia di vi­vere. «Andate da chi ha bisogno, noi ormai aspettiamo solo di morire...» è stata la canti­lena di settimane, forse mesi. In essi l'orgoglio di non voler chiedere aiuto, l'abitudine alla as­senza degli altri, alla pietrificazione della vita.

È stato difficile entrare in casa: per un perio­do era possibile farlo solo verso l'una, quando mangiavano; poi giorno dopo giorno abbiamo de­ciso di provare ad entrare un po' prima: dopo una settimana a mezzogiorno, dopo due settimane al­le undici, e così via...

Abbiamo notato che, prima del nostro arrivo, c'era un accenno, un tentativo di rendersi pre­sentabili, una camicia, o una giacca sopra il pi­giama, ma solo più avanti hanno ripreso a ve­stirsi, a scandire il tempo sul suono del campanello, sul nostro arrivo.

Abbiamo proposto e ottenuto che Saturnino accettasse la fisioterapia per il braccio e le gambe. Quando lo raccontavamo, da più parti sentivamo ripetere «che può fare un fisioterapi­sta con un anziano di 90 anni?». Un giorno, in­vece, Saturnino si è fatto trovare seduto in cu­cina lavato e ben vestito.

Abbiamo poi riparato il giradischi e restaurato dalla polvere di anni la collezione di dischi. Ed ogni mattina: «sei arrivata, finalmente è arriva­ta la musica, mettiamo un disco!». A primavera, appena ha fatto un po' più caldo, fra lo stupore dei vicini di casa, siamo usciti a passeggiare: è stato un avvenimento: «Chi lo avrebbe immagi­nato, questa è la nostra seconda giovinezza!». È così cominciata una vita con il giorno e con la notte, con le scadenze del tempo, con l'attesa del giorno dopo.

 

 

12. «La mia casa era buia, sporca e c'erano anche i topi». Storia di Gisella F.

 

La storia di Gisella è simile a tante altre, ep­pure particolare, come è uguale e diversa la vita di tutti. Nata 89 anni fa, figlia di una fami­glia numerosa, orfana di padre. È ancora una ra­gazza quando arriva a Roma dal Veneto, come tante sue coetanee, in cerca di lavoro. Una sto­ria ricca di nomi, date e il ricordo di un lontano parente che precedentemente aveva preso con­tatti con qualche famiglia de siori. Cercavano «una buona e brava ragassa» che svolgesse un po' tutti i compiti: bambinaia, dama di compa­gnia, accompagnatrice.

Ci racconta di quando viveva in casa della con­tessa Del Seno e del suo povero «fiolo» morto a soli 14 anni, oppure del lavoro in casa del mi­nistro Broglio. Alla fine, va in pensione e si ri­trova improvvisamente sola: per più di quindici anni non esce quasi mai dalla sua casa nei pressi di Porta Maggiore.

Nel dicembre 1981 ci viene segnalata dalla Usl Rm 1 in questo modo: «Anziana dimessa dalla Clinica S. Antonio causa pregresso infarto del miocardio, necessita assistenza».

Il primo incontro è cordiale: sempre gentile, un «comandi» infilato un po' dovunque che tra­disce la sua storia.

«La mia casa - ci dice - è una casa di po­vera gente, perché io ho vissuto sempre povera, modesta, ma è pulita, sa, è la casa degli artigia­ni». Parla di una casa modesta ma pulita per il suo forte senso di dignità; invece si tratta di uno scantinato buio, umido, le pareti nere di muf­fa e di ragnatele, i soffitti ormai senza più into­naco, le finestre a livello stradale. In cucina, per una porta, si sale attraverso una scaletta ripida e scivolosa per il muschio, fino ad uno sterrato pieno di immondizie buttate dalle fine­stre, che Gisella chiama «il mio giardino».

Quando ci offriamo di aiutarla in casa si op­pone con tenacia: «io la ringrazio, ma non si deve preoccupare... sarà una casa vecia ma 1'è pulita, questi pavimenti, guardi, li passo un gior­no sì e uno no con il petrolio: niente di meglio mi creda! Mica questi prodotti moderni, che mi costano tanti soldi e non puliscono...». È stato già un successo quando abbiamo ottenuto di poter lavare la scaletta del giardino. Ma a preoc­cuparci di più erano i topi di fogna, che infe­stavano lo scantinato.

Gisella durante tutti questi anni aveva imparato a difendersi da loro: metteva un pezzo di legno sopra il water e dandogli la caccia con la scopa. Aveva riesumato anche delle vecchie e rudimen­tali trappole per topi di campagna (quelle con dentro il pezzetto di formaggio).

Ma aveva paura, Gisella, di dirci che così vi­veva male. Aveva paura perché altre persone le avevano detto che non poteva restare in quella casa, che ogni altro posto sarebbe stato meglio, che con un ricovero in ospedale si sarebbe si­stemata per il resto della sua vita. Ma a tutti rispondeva: «si sa quel che si lascia, ma non si sa quel che si trova». Noi siamo certi che la sua non era la paura di una vita nuova; nasceva, al contrario, dalla consapevolezza del destino che l'attendeva: morire soli in cronicario. Anche nei nostri confronti all'inizio c'è stata questa sfiducia: riconoscere, ad esempio, che il problema dei topi andava risolto una volta per tutte era pericoloso per lei. Poteva significare uscire di casa per permettere la derattizzazione e non tornarci più. Per questo è stato necessario ras­sicurarla: «Non vale la pena di chiamare la ditta, lo facciamo noi». Gisella ha accettato. Così è iniziato un nuovo rapporto: le prime confidenze, il racconto delle sue angosce e la paura di mo­rire da sola, dimenticata da tutti: «sa, signorina, questa notte ho pensato: domani mattina dico alla signorina, di prendersi le chiavi di casa per­ché potrei sentirmi male e morire e se mi tro­vano morta dopo tanto tempo, magari tutta ro­sicchiata dai topi...».

Sono iniziati così i gesti di fiducia e di affet­to. Non la avremmo abbandonata mai e questa ha cominciato ad essere la sua sicurezza. «Vede in quel cassetto ho il vestito che mi metterà quando non ci sarò più. È tutto in ordine: lavato e pulito. In questa scatola ci sono tutte le carte. È tutto in regola, lo sa, sono povera, ma per non dare noie a quelli che rimangono quaggiù ho comprato un fornetto al camposanto».

Un giorno, all'improvviso, un fatto nuovo che rompeva con un passato carico di paura e di so­litudine: ci ha chiesto di aiutarla a trovare un'al­tra sistemazione. Ora Gisella vive in una comu­nità-alloggio di Roma insieme ad altri cinque an­ziani. Così ha commentato il primo giorno: «che lusso siorina, ma mi terranno davvero qui?» e poi «è troppo onore per me, questo è un posto di "siore"».

 

 

13. La vecchia Roma. Non c'è posto per l'artigiano più vecchio di tutti. Storia di Adriano I.

 

«Qui sono nato e qui voglio restare!». Storia di Adriano, il più vecchio artigiano della Capitale. Nato a Trastevere in una casetta vicino al fiu­me, quando suo padre trovò un posto di guar­diano al Foro Romano, andò a vivere a Monti. A Monti andò a scuola, a Monti trovò moglie: «Lei era proprio un angelo! Io la prendevo in giro, e lei mi rincorreva. Ci siamo fidanzati che eravamo due ragazzini».

Dopo la lunga parentesi della Grande guerra, Adriano conobbe il fascismo: prima «i gruppi di ragazzi che prima ti provocavano e poi ti pic­chiavano», e poi «la bella idea di Mussolini, che per far vedere i ruderi ha buttato giù le case e ha mandato i poveretti a vivere fuori Roma». A Primavalle però Adriano non volle andare: «Qui sono nato, e qui voglio restare!» disse, e riu­scì a trovare un'altra casa un po' più in là.

Noi abbiamo incontrato Adriano nella sua bot­tega, dove ancora oggi ripara biciclette: una pas­sione cominciata da bambino, una vera malat­tia, tanto da lasciare la scuola per la bottega del fratello, meccanico ciclista alla Suburra e «cam­pione di bicicletta di tutto Monti». Così, ancora ragazzo, Adriano lavorava e non si lamentava - «oggi i giovani vogliono tante cose, ma non si sanno divertire» -; quando cominciò a cor­rere, il pomeriggio si allenava ai Castelli.

Dopo qualche anno il fratello morì, Adriano prese in mano la bottega e cominciò ad insegna­re il mestiere al figlio Mario, il primogenito, il più amato. Sono gli anni più belli: dopo la guer­ra, rimasto vedovo «troppo presto», Adriano vive con il figlio e la nuora. E col figlio il lavoro andava bene: «Mario aggiustava pure le moto­rette, e fuori della bottega c'era la fila», tanto da poter regalare una macchina al genero. «Fai del bene e scordati, fai del male e pensaci», diceva suo padre: una morale semplice, fondata su pochi proverbi, cui obbedire per essere felici.

Quando cinque anni fa conoscemmo Adriano, ci colpì la voglia che aveva di raccontare la sua storia. Non riusciva a capacitarsi di come nel giro di un anno la sua vita «dal bene era andata giù al male». Il «male» cominciò con la malat­tia del figlio: «un male tremendo: gli era en­trato dentro e se lo portava via poco a poco». Pochi giorni dopo la morte di Mario, ci fu lo scontro con la nuora: lei pretese dei soldi di Mario, Adriano esitò, la risposta invece fu pron­ta. «Una risposta che non potrò mai dimentica­re: "hai finito di fare il padrone, finalmente pa­drona qui dentro sono io, e comando io: se vo­glio ti sbatto fuori"».

Quel giorno Adriano uscì sbattendo la porta, e cominciarono giorni d'inferno: «Io piangevo tutte le notti, e chiamavo Mario. Una notte en­trò mia nipote e mi disse che se non la smet­tevo mi buttava di sotto dalle scale... così mi presi il letto e me ne andai a dormire a bottega: ci sono rimasto un anno e mezzo, finché non ho conosciuto voi del Governo».

La bottega era angusta, buia e fredda. C'era­no anche i topi. Ma era tutta la sua vita: era lì che aveva lavorato Mario, c'erano ancora tutti i suoi attrezzi e le sue cose. Cominciammo ad andare spesso a trovarlo, Adriano ci raccontava la sua vita.

Si affezionò a noi, finché ci svelò il suo segre­to: ogni mattina andava a trovare il figlio. Ci of­frimmo di accompagnarlo due chilometri a pie­di, nel cimitero, fino alla tomba dei suoi cari. Lì Adriano parlava con Mario, e piangeva: per del­le ore. Presto non volle più andarci da solo, ma solo se ci andavamo anche noi.

Con Adriano la nostra prima preoccupazione fu ovviamente la casa. Si fidava di noi, e solo per questo accettò presto di trasferirsi in una pensione a spese del Comune. Dopo 3 anni gli fu assegnata una casa popolare, a Torbellamo­naca cioè a 35 Km. dal centro storico.

Discutemmo per mesi con «uffici competen­ti»: dicevamo che era impossibile pensare che Adriano potesse ricostruirsi una vita in un mon­do così lontano, completamente nuovo e disgre­gato, che sarebbe stata la sua fine. Piuttosto era meglio che restasse in pensione. Tutti ci rispon­devano che «non è vero che a 94 si hanno più problemi dei giovani», che noi eravamo  iper­protettivi e assistenziali», che «l'anziano avreb­be potuto aprire lì una bottega (sic!) e continua­re a lavorare».

Al vigile urbano venuto a spiegargli che, es­sendo assegnatario di un alloggio popolare, non aveva più diritto alla stanza in pensione, Adriano rispose ancora una volta: «io da qui non mi muovo. Qui sono nato e qui voglio restare! Non ci sono riusciti i fascisti, non ci riuscirete nem­meno voi».

Alla fine si arresero: Adriano è rimasto a Mon­ti. Ogni mattina lo accompagniamo dalla pensio­ne alla bottega «dove c'è il sole, che è la miglio­re medicina», e quando torniamo a prenderlo per il pranzo spesso ferma qualcuno e ci pre­senta: «Questi sono quelli del Governo: guar­date che sono gente buona...».

 

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