Prospettive assistenziali, n. 69, gennaio - marzo 1985

 

 

FUNZIONI E COMPITI DEL GIUDICE TUTELARE NELL'AFFIDAMENTO FAMILIARE (1)

MARIA LIDIA DE LUCA RAIMONDI

 

 

Illustri giuristi hanno commentato e commen­teranno molto meglio di me gli aspetti giuridici del nuovo istituto dell'affido familiare; la mia relazione cercherà quindi di inquadrare l'istituto dal punto di vista dell'operatore del diritto e - perdonatemi il bisticcio di parole - di un operatore che si sforza di operare, di ottenere cioè che la norma giuridica si concretizzi, si at­tualizzi; il che, come tutti sappiamo, è diventato nella nostra realtà italiana un fatto abbastanza problematico ed avventuroso.

Tuttavia siccome non è possibile operare cor­rettamente se non si è compreso appieno il senso della norma da applicare, desidero chia­rire preliminarmente a me stessa i motivi ispi­ratori e le finalità che hanno guidato il legisla­tore nel disciplinare l'istituto dell'affidamento familiare.

A mio avviso tutta la legge 184 deve essere letta ed interpretata alla luce di quanto sancito nell'art. 1 della legge stessa: «Il minore ha diritto di essere educato nell'ambiente della pro­pria famiglia».

Si impongono a questo punto una serie di con­siderazioni. Privilegiando - come luogo ottima­le per la crescita e l'educazione del minore - la famiglia di origine di quest'ultimo, il legisla­tore della legge 184 ha dimostrato di ricordare che il nostro è uno Stato pluralista e personali­sta, consapevole cioè che la realizzazione dei suoi propri fini è subordinata alla realizzazione dei fini della persona umana e delle forze asso­ciative che lo precedono, prima fra tutte la fa­miglia. È appena il caso di ricordare che a norma dell'art. 2 della Costituzione la Repubblica ri­conosce la famiglia come formazione sociale nella quale l'uomo svolge la sua personalità. Ed indubbiamente la famiglia ha una posizione prio­ritaria rispetto a tutte le altre formazioni sociali e rispetto allo stesso Stato, che - come dice­vamo - le riconosce tale posizione quale so­cietà naturale fondata sul matrimonio.

La famiglia è dotata di proprie leggi, di un proprio ordinamento interno che lo Stata si im­pegna a rispettare e tale posizione dello Stato nei rapporti con la famiglia mi pare concordi con una visione del diritto, concepito non come una sovrastruttura della realtà, come un involucro pe­sante che la condizioni, ma come autentica ga­ranzia dell'azione umana orientata verso un fine del quale l'ordinamento, la norma si fa stru­mento.

Mi ha colpito la circostanza che nei vari con­vegni, organizzati per commentare la nuova leg­ge - cui ho partecipato - ho sentito parlare solo d'interesse del minore - quasi mai di inte­resse della famiglia, come se nella loro dinamica fisiologica i due interessi: quello del minore e quello della famiglia biologica non fossero iden­tici e convergenti.

Ciò posto occorre chiarire quali pretese giu­ridiche nascono dal diritto riconosciuto al mino­re e chi siano gli interlocutori di questo diritto.

Indubbiamente a fronte del diritto del minore di essere educato in seno alla propria famiglia sorge l'obbligo del genitore di tenere il figlio con sé e di provvedere di persona all'educazione del figlio stesso.

Mentre sino ad oggi il genitore aveva il po­tere, desumibile dall'art. 318 c.c., di assegnare una determinata dimora ai propri figli (ed è noto che tale potere incontrava già un limite nella va­lutazione della condotta dei genitori da parte dell'autorità giudiziaria): dalla norma in esame si evince che aggi i genitori non hanno più un pa­tere decisionale di collocamento esterno del figlio, sia pure a scopo educativo o di istruzio­ne. Difatti l'art. 9 della legge sancisce l'obbligo del genitore il quale affidi - per un periodo superiore ai sei mesi - il figlio a persone che non siano parenti entro il quarto grado di segna­lare l'affido al G.T. La sanzione prevista è la pos­sibile decadenza dalla potestà parentale o l'a­pertura del procedimento di adottabilità. Uguale obbligo incombe a chi ospiti un minore da oltre sei mesi.

Va da sé che il menzionato obbligo del geni­tore costituisce anche un diritto dello stesso, poiché quest'ultimo conserva il potere di richia­mare pressa di sé il figlio, dovendosi leggere entro questi limiti l'art. 318 c.c.

Viene da chiedersi a questo punto: è solo il genitore l'interlocutore del minore nella sua aspettativa a veder realizzato il diritto all'edu­cazione?

L'art. 2 della Costituzione - che abbiamo già ricordato - stabilisce che la Repubblica rico­nosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua per­sonalità ed ancora l'art. 3 della Costituzione stes­sa: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impe­discono il pieno sviluppo della persona umana».

Sembra dunque delinearsi dalla normativa co­stituzionale un altro referente del diritto del mi­nore: la stessa Comunità, che si esprime nel suo momento giuridico-organizzativo nella ammini­strazione.

D'altro canto lo stesso genitore, per il quale l'obbligo di educare il figlio costituisce anche un diritto ai sensi dell'art. 30 della Costituzione e 147 c.c., potrà invocare nei confronti della Co­munità organizzata il dettato costituzionale di cui all'art. 2 al fine di poter realizzare il citato diritto nell'ambito della formazione sociale in cui è inserito e di cui all'art. 31, richiedendo all'am­ministrazione «le provvidenze» che questa deve assicurare per l'adempimento dei compiti rela­tivi alla famiglia.

Il diritto del minore ad essere educato nell'am­bito della propria famiglia di origine non potrà essere realizzato se questa non è in grado di assicurargli adeguate cure materiali e morali, ap­prestate nell'ambito di un valido rapporto af­fettivo.

Il genitore, quindi, deve essere messo in gra­do, attraverso la predisposizione di adeguati mez­zi e servizi, di assolvere ai propri obblighi per il soddisfacimento del diritto del figlio. Incom­berà dunque all'Amministrazione di colmare i vuoti, le carenze, che si oppongono all'attualiz­zazione del diritto del minore.

Il 2° comma dell'art. 1 della legge 184 ha enunciato che le norme utili per la realizzazione del diritto del minore sono da ricercarsi nella legge stessa, in particolare nelle disposizioni di cui all'art. 2 nonché nelle disposizioni dettate dalle leggi speciali. Qui si rinvia evidentemente alla legge statale di riassetto dei servizi socio­assistenziali, di cui si sente sempre maggiormen­te l'urgenza, ed alle varie leggi regionali già ap­provate al riguardo.

Tuttavia indipendentemente da una specifica previsione e codificazione dei servizi o delle provvidenze che il minore o il genitore - quan­to meno in rappresentanza del minore - posso­no esigere, viene da chiedersi se il diritto del minore di cui all'art. 1 legge 184, una volta re­cepito ed affermato dalla legge ordinaria, possa essere già inteso come un diritto ad agire nei confronti dell'Amministrazione perché siano ri­mossi gli ostacoli di ordine economico e socia­le, che gli impediscono di rimanere nella propria famiglia.

Mai come in questo caso viene da ricordare Jhering: il diritto è azione, non è vero diritto ciò che non si realizza.

In definitiva il mancato soddisfacimento del diritto del minore può trovare origine in una va­sta e complessa gamma di situazioni, che vanno dalla incapacità educativa ed affettiva totale dei genitori - che giustifica la sostituzione della famiglia biologica con la famiglia adottiva - ad una incapacità educativa per così dire parzia­le e temporanea. Per far fronte a tale situazione è stato previsto e disciplinato dalla nuova legge l'istituto dell'affido familiare, al fine di consenti­re il recupero della famiglia di origine del mi­nore, trapiantandolo - per uno spazio di tempo ben definito - in un altro ambiente familiare idoneo.

A monte ancora di tale situazione ve ne posso­no essere altre, riconducibili alla situazione di difficoltà temporanea di cui all'art. 4 della legge.

Quando tali situazioni possono essere fronteg­giate mediante determinate provvidenze o parti­colari servizi, già allestiti, non vi è dubbio che il minore vi ha un vero e proprio diritto, il geni­tore se ne può anzi se ne deve fare interprete e l'Amministrazione deve provvedere, salva una certa qual discrezionalità circa i modi più appro­priati di intervento. In definitiva il diritto del minore si risolve in questi casi nel dovere dell'Amministrazione di corrispondere alle attese del minore giusta una discrezionalità tecnica, che viene affidata alla professionalità degli ope­ratori sociali.

Il minore potrà esigere ad esempio di non essere allontanato dalla propria famiglia solo perché uno dei genitori è ammalato e l'altro de­ve recarsi a lavorare - dovendo l'Amministra­zione provvedere ad una adeguata assistenza do­miciliare ed infermieristica.

 

 

L'AFFIDAMENTO FAMILIARE - RUOLO DELL'ENTE LOCALE - IL SENSO DELL'INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE

 

Rimane possibile, anche in forza delle nuove norme, un affidamento da parte dei genitori a terzi estranei, anche per un tempo considerevo­le: superiore cioè ai sei mesi, come si ricava dall'art. 9 della legge.

Presupposto legittimante di tale affido, nell'ambito dell'autonomia riconosciuta alla fami­glia, deve ravvisarsi nella impossibilità tempo­ranea dei genitori a portare a termine personal­mente e con le sole proprie risorse il compito di allevare ed educare il figlio. Diversamente tale affido, che potremo definire «di fatto» contrap­ponendolo a quello disposto dall'ente locale, ma­schererebbe una dimissione dei genitori dal pro­prio ruolo e quindi lo stato di abbandono del minore ovvero addirittura il triste commercio del figlio.

Indispensabile e penetrante perciò dovrà es­sere il controllo del G.T. su ogni segnalazione di affido pervenutagli. Nel silenzio della legge deve dunque ritenersi che il G.T., al fine di garantire la realizzazione del diritto del minore sancito dall'art. 1 della legge, dovrà svolgere un'appro­fondita richiesta sulle motivazioni poste a base dell'affido, onde consentire al T.M. cui trasmet­terà una dettaglia relazione un efficace con­trollo sulla temporaneità dell'affido stesso.

Ed arriviamo finalmente all'istituto dell'affido di cui agli artt. 2 e segg. legge 184/83. Trascu­rando l'affido conflittuale che si instaura con provvedimento del Tribunale per i minorenni, mi limiterò a parlare di quello consensuale, dispo­sto dall'ente locale con il consenso dei genitori.

Tale tipo di affido che, in vista delle sue fina­lità, è stato già definito «assistenziale», trae origine dal ruolo primario della famiglia ricono­sciuto dal legislatore e dal conseguente diritto del minore. Proprio perché riconosce che il de­stino dell'uomo - la sua avventura risulta impre­scindibile dal destino della famiglia - il nostro legislatore interviene in aiuto alla famiglia che manifesti difficoltà nel perseguimento dei propri fini preoccupandosi di instaurare rapporti il più possibile imitativi di quelli familiari: di qui la preferenza accordata nell'art. 2 della legge a fa­miglie con figli minori, quindi a persone singole e solo in terzo luogo alle comunità di tipo fa­miliare.

Importantissimo appare dunque il ruolo dell'ente locale cui competerà individuare il biso­gno del minore - qualora questo bisogno non venga rappresentato dallo stesso genitore -, in­dividuare e selezionare gli affidatari, vigilare sull'affido con attenti e tempestivi interventi di mediazione tra le due famiglie ed infine soppor­tare il costo del servizio.

Non concordo, pertanto, con chi ha visto nella disciplina dell'affido un'eccessiva forma di inter­vento dello Stato sulla famiglia, né con chi ri­tiene che l'intervento del G.T. - che avrebbe la funzione di mitigare in qualche modo il carattere «eccessivamente pubblicistico» dell'affido - avrebbe complicato la vita dell'ente locale.

Ribadito che nel caso in esame l'ente locale assolve alla sua funzione di erogare servizi e prestazioni economiche per soddisfare un biso­gno del cittadino, è evidente che non si può assolutamente parlare di prevaricazione della fa­miglia che, legata com'è strettamente all'interes­se del minore, deve essere considerata anch'es­sa destinataria del servizio.

Indispensabile però si profila l'intervento dell'autorità giudiziaria e la motivazione del suo in­tervento è la stessa di quella individuata per il cosiddetto affido di fatto. L'autorità deputata a garantire i diritti del minore è e non può essere altra che l'autorità giudiziaria. Un atto ammini­strativo che disponesse del minore, collocandolo fuori dalla famiglia - sia pure con il consenso dei genitori -, che facesse sorgere - come ac­cade nell'istituto in esame - poteri sul minore in capo a persone estranee al minore stesso sen­za l'intervento dell'autorità giudiziaria sarebbe in contrasto con i principi dettati dall'ordinamen­to giuridico.

L'atto amministrativo di disposizione del mino­re - mi si passi la parola - non può infatti trovare la sua legittimazione soltanto nel con­senso dei genitori, poiché questi ultimi non han­no più un potere decisionale di collocarlo presso terzi - come si è già chiarito.

Inoltre dalle norme dettate per disciplinare l'affido si ricava che gli affidatari divengono tito­lari di poteri inerenti alla istruzione ed alla edu­cazione del minore. E se è vero che essi nello svolgimento di tali compiti devono tener conto delle indicazioni dei genitori - per i quali non vi sia stata pronuncia ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c. - è pur vero che in caso di contrasto su questioni di particolare importanza sono le­gittimati a ricorrere al giudice ex art. 316 c.c. Onde è chiaro che il rapporto che si instaura tra il minore e gli affidatari ha una sua rilevanza giuridica e conseguentemente il provvedimento di affido viene ad incidere su diritti personali e sui rapporti familiari dei soggetti interessati.

 

 

IL PROVVEDIMENTO DI AFFIDO E LA NATURA DELL'INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE

 

È indispensabile a questo punto esaminare quale sia la natura dell'atto amministrativo che costituisce l'affido e quale la natura dell'inter­vento del giudice tutelare.

Quanto alla natura dell'atto di affido di com­petenza dell'Amministrazione - se se ne esa­mina superficialmente il contenuto - verrebbe da pensare che si tratti di una convenzione tra l'ente locale e l'affidamento ai fini della gestio­ne del servizio, né più né meno di quanto avvie­ne ad esempio tra l'USL ed i soggetti che gesti­scono una casa di cura privata. Tuttavia va rile­vata che il legislatore ha fatto esplicito rife­rimento ad un «provvedimento» dell'Ammini­strazione ed ha usato poi il termine «dispone» che fa appunto pensare all'attributo dell'autori­tarietà, tipico dei provvedimenti amministrativi; se si riflette poi che, in forza del provvedimento amministrativo, l'affidatario è tenuto a prov­vedere al mantenimento, educazione ed istru­zione del minore e quindi anche ad esercitare i poteri inerenti a detti obblighi, che matura l'a­spettativa ai benefici ed alle previdenze di cui all'art. 80 della legge, se ne ricava che sul prov­vedimento amministrativo potrebbe essere indi­viduata una concessione costitutiva, rilasciata al termine del procedimento amministrativo in cui si inserisce la prestazione del consenso da parte dei genitori del minore.

Orbene, messo da parte un sottile dubbio (che pure si insinua) circa la legittimità costituzionale della norma giuridica che prevede un atto ammi­nistrativo che venga ad incidere sui diritti perso­nali dei soggetti interessati - da tutto il discor­so fatto prima consegue che il decreto - con il quale il giudice tutelare rende esecutivo, confe­risce efficacia all'atto amministrativo di affido - presuppone per forza di cose un sindacato pe­netrante su tutto l'iter amministrativo e sul prov­vedimento che lo conclude.

Esaminiamo i dati letterali. Si parla nell'art. 4 della legge di un decreto che rende esecutivo il provvedimento, il che farebbe pensare ad un controllo di legittimità formale. Tuttavia è anche detto che il G.T. deve essere costantemente in­formato dal servizio locale circa l'andamento dell'affido. Inoltre, come si legge nel 5° comma dell'art. 4 citato, il G.T. ha un potere sostitutivo, sussidiario rispetto all'Amministrazione nel va­lutare l'interesse del minore circa la convenien­za della prosecuzione dell'affido, qualora questo gli rechi pregiudizi ovvero qualora sia venuta meno la situazione di difficoltà della famiglia. In base a tale valutazione il G.T. può richiedere al T.M. - se lo ritiene necessario - l'adozione di ulteriori provvedimenti nell'interesse del minore.

Onde questo potere di vigilanza del G.T., che si esprime nel momento conclusivo dell'affido oppure in qualsiasi momento dell'affidamento stesso nella possibilità di individuare una situa­zione di pregiudizio del minore, induce a ritene­re che una valutazione del G.T. circa l'interesse del minore al provvedimento non può essere esclusa proprio nel momento costitutivo dell'affido.

D'altro canto, come si è già detto, è l'autorità giudiziaria - in questo caso il G.T. - a dover garantire il diritto del minore ad essere educato nell'ambito della propria famiglia. Onde il G.T. non potrà trascurare di verificare, prima di ren­dere esecutivo il provvedimento, la legittimità del consenso dei genitori: verificare cioè che il consenso dei genitori tragga origine da una rea­le situazione di difficoltà (e non dalla volontà di dimettersi dal proprio ruolo o a cedere il proprio figlio ad altri), il che significa anche verificare la temporaneità della difficoltà che giustifica l'af­fido, ed infine che gli affidatari siano idonei ad assicurare il reinserimento del minore nella pro­pria famiglia.

Non si può però parlare a tale proposito di un sindacato di merito del G.T. sul provvedimento amministrativo, poiché, com'è noto, i controlli amministrativi di merito sono tipici e non vi è nulla nel dettato letterale della norma in esame che faccia pensare ad un controllo di merito da parte di una autorità diversa da quella ammini­strativa.

In ogni modo appare evidente che il controllo esercitato dal G.T. dovrà investire non solo la conformità del provvedimento amministrativo al­le norme giuridiche: verificare cioè che tutto il procedimento sia stato esaurito in conformità a quanto disposto dal legislatore (che i genitori abbiano prestato il consenso - che gli affidatari abbiano accettato di accogliere il minore pren­dendo atto degli obblighi e dei poteri scaturenti dall'affido - che sia stato indicato il periodo di presumibile durata - che sia stato sentito il mi­nore che abbia compiuto gli anni dodici), ma di­cevamo, il G.T. dovrà controllare che il provve­dimento amministrativo raggiunga il suo fine isti­tuzionale, escludendo un eventuale eccesso di potere da parte dell'ente locale. Nell'adempimen­to della propria funzione garantista il G.T. potrà chiedere chiarimenti ed indicare le modifiche da apportare al provvedimento in vista della legit­timità del provvedimento stesso.

Diversamente, se si dovesse ritenere che il sindacato del G.T. debba investire la mera rego­larità formale del procedimento e dell'atto am­ministrativo, dovrebbe concludersi che le norme che disciplinano l'affido sono incostituzionali, conferendo all'autorità amministrativa una fun­zione garantista che è propria dell'autorità giu­diziaria.

 

 

LA NUOVA LEGGE E LA ISTITUZIONALIZZAZIONE

 

Mi sembra importante ora esaminare se ed in quale misura le nuove norme si siano po­ste l'obiettivo della deistituzionalizzazione dei minori.

Si è detto invero che la nuova disciplina nor­mativa sia finalizzata esclusivamente al conse­guimento di detto obiettivo - io ribadisco che la legge ha detto qualcosa in più - e se è pos­sibile usare uno slogan in un consesso così se­rio, dirò con il legislatore: non solo bando all'Isti­tuto ma viva la famiglia, il che, al di là della bat­tuta, significa l'obiettivo che la famiglia viva, abbia la possibilità di esprimere la sua intima essenza che è la coesione - l'unità - che vuol dire ancora operare nel senso della prevenzio­ne - considerare fondamentale l'azione preventiva per non creare minori da istituzionalizzare.

Secondo obiettivo della legge. Il legislatore parte dal riconoscimento che il miglior servizio che si possa prestare in favore di un minore «temporaneamente privo di un ambiente familia­re idoneo» è collocarlo in un'altra famiglia. Di­fatti solo nell'ambito della famiglia potrà allac­ciare quei rapporti personali - rinvenire quei modelli imitativi indispensabili per la sua cre­scita trovando sicurezza nell'auctoritas delle fi­gure parentali - di coloro che esercitano cioè questo servizio dell'autorità, destinato (come suggerisce l'etimologia della parola) ad augére - far crescere il minore.

Il ricovero in istituto è soltanto consentito: sono parole del legislatore: mi riferisco al 2° comma dell'art. 2 della legge 184 - consentito, dicevamo, quando le altre soluzioni, indicate nel­la stessa disposizione di legge, non siano possi­bili; il che vuol dire che dette soluzioni non pos­sono essere scartate a priori - ma devono es­sere quanto meno cercate, tentate.

Questo perché, una volta effettuata dal legi­slatore la scelta prioritaria dei servizi da erogare al minore, la discrezionalità dell'amministrazio­ne - per il noto principio di legalità - trova un limite in questa scelta.

L'organizzazione del servizio di affido è dive­nuta obbligatoria per l'amministrazione. A molti di voi sembrerà superflua questa mia afferma­zione: tuttavia devo ripetere che molti ammini­stratori stanno ancora disceptando sulla conve­nienza di un servizio rispetto alla cui organiz­zazione non hanno più alcuna possibilità di scel­ta: beninteso non mi riferisco al modo in cui or­ganizzarlo ma alla possibilità di realizzarlo o meno.

Dirò di più anche la famiglia, i genitori sono tenuti in certo qual modo a rispettare la scelta effettuata dal legislatore per il soddisfacimento del bisogno del minore.

Come il servizio locale non potrà soddisfare il bisogno del minore ricoverandolo sic et simpliciter in istituto, così il genitore in difficoltà non potrà immotivatamente e reiteratamente pre­ferire l'istituto. Una volta offerta completamente al genitore la possibilità di risolvere le sue diffi­coltà (sottolineo però che il genitore deve avere una concreta e reale possibilità di scelta) me­diante una collocazione del minore che non sia l'istituto - il suo rifiuto reiterato ed immotiva­to - potrà essere valutato dall'autorità giudizia­ria come comportamento pregiudizievole per il minore, ed in tal caso l'affido verrà costituito con provvedimento del T.M.

L'affido all'istituto è comunque un collocamen­to extra familiare, e come tale, dunque, deve es­sere segnalato al G.T. Ciò ha luogo mediante la trasmissione semestrale degli elenchi dei minori ricoverati da parte degli istituti di assistenza pubblici o privati - come stabilisce l'art. 9 del­la legge.

A questo proposito va rilevato che l'art. 9 fa riferimento ai soli minori ricoverati in istituto; è evidente perciò che deve essere segnalato al G.T. soltanto l'affido all'istituto con carattere re­sidenziale.

Nell'art. 70 che prevede la sanzione per la omissione della trasmissione degli elenchi, tor­na invece la distinzione, di cui all'art. 314/5 c.c. oggi abrogato, tra minori ricoverati ed assistiti. Il termine «assistito» stava ad indicare, come si ricava dall'art. 401 in relazione all'art. 404 c.c. - disposizioni anche queste entrambe abroga­te - quei minori assistiti, mi si perdoni il bi­sticcio inevitabile, dall'istituto di pubblica assi­stenza per il mantenimento educazione ed istru­zione mediante affido a persona di fiducia. At­tualmente dopo l'abrogazione dell'art. 404 c.c. per minori assistiti devono intendersi quelli affi­dati ad un ente diverso, da quello che ne cura l'assistenza, forse anche quelli in affidamento familiare. Anche se mi sembra in realtà super­flua la trasmissione degli elenchi semestrali, re­lativi ai minori in affido familiare, in ordine ai quali il servizio loca-le deve comunicare al G.T. costanti informazioni ai sensi dell'art. 4 della legge.

Il genitore, dal canto suo, è tenuto a segnalare l'affido, quando colloca il figlio in un istituto o collegio, che dir si voglia, sopportandone il co­sto, pagandone la retta.

Obbligo principale dell'affidatario è quello di favorire il reinserimento del minore nella sua famiglia di origine. Tale obbligo incombe ai sensi dell'art. 5 ultimo comma anche agli Istituti di Assistenza ed è inteso evidentemente alla rea­lizzazione del diritto del minore sancito dall'art. 1 della legge.

Ne consegue che anche quando il bisogno del minore viene soddisfatto attraverso tale tipo di servizio, l'ente pubblico che provvede al rico­vero, deve stabilire - d'intesa con i genitori - il periodo di presumibile durata del ricovero, sia quando gestisce direttamente il servizio sia quando il servizio viene gestito mediante con­venzionamento.

Va ricordato a questo punto che la Regione ha ereditato dall'ONMI - in forza della legge 698/75 - le funzioni (previste dall'art. 4 punto 4 del R.D. 24.12.34 n. 2386) di vigilanza sull'applicazione delle disposizioni legislative e re­golamentari in vigore per la protezione della ma­ternità e dell'infanzia. Onde è auspicabile che, nell'assolvere a tale compito in riferimento alle norme che stiamo commentando, la Regione provveda ad un censimento di tutti i minori isti­tuzionalizzati, onde - previo coordinamento con gli enti che assistono detti minori, verificare la possibilità, delle soluzioni alternative, previ­ste dalla legge 184.

Quanto poi ai minori, ricoverati in istituti di assistenza privati con retta a carico di benefat­tori, è da ritenersi che la Regione, cui sono stati trasferiti in forza della citata legge anche i poteri di vigilanza e controllo sulle Istituzioni di assistenza e protezione dell'infanzia, sia tenu­ta a segnalare detti minori al Servizio locale. Quest'ultimo verrà in tal modo a conoscenza delle situazioni familiari e dei bisogni dei mi­nori, che hanno provocato la istituzionalizzazio­ne, mettendo conseguentemente a disposizione dei minori stessi i servizi alternativi.

Alla luce delle nuove norme il ricovero in Isti­tuto deve, dunque, ritenersi illegittimo quando non siano stati esperiti, tentati gli altri inter­venti assistenziali, previsti dalla legge secondo un ben preciso ordine prioritario o quando non ne sia stabilita la presumibile durata.

 

 

LE ISPEZIONI DEL GIUDICE TUTELARE

 

In ordine all'attività che il G.T. svolge in rela­zione agli Istituti di Assistenza pubblici e pri­vati ritengo che la legge 184 sia venuta a col­mare un vuoto normativo preoccupante.

Tanto più preoccupante nella nostra realtà meridionale, in cui la mancanza pressoché to­tale di un'azione preventiva collegata ad un progetto di deistituzionalizzazione ha fatto sì che - sino ad oggi - i minori in istituto siano an­cora tanti, troppi.

La maggiore parte di essi appartengono ovvia­mente a famiglie indigenti e culturalmente depri­vate, per cui si è sempre sentita l'esigenza di una forma di vigilanza, che investisse soprat­tutto gli obiettivi dell'educazione, riabilitazione culturale ed inserimento nel mondo del lavoro.

Tale obiettivo rientra senza alcun dubbio tra i campiti della Regione, cui sono stati trasfe­riti - come abbiamo già detto - i poteri di vigilanza e controllo sugli Istituti, che erano dell'ONMI.

Quanto alla Regione Campania va detto però che dal 1975 - epoca cui risale lo scioglimento dell'ONMI e l'attribuzione delle citate compe­tenze alla Regione - si deve attendere il 1983 perché la Regione Campania si decida ad isti­tuire un'apposita commissione di vigilanza e controllo.

Va premesso a questo punto che il G.T. ai sensi dell'art. 344 c.c. sovrintende alle tutele e quindi ha nella sostanza il potere di indirizzo, scelta e controllo istituzionale sulla gestione dei poteri tutelari nei suoi vari aspetti. Orbene già sotto l'impero della vecchia normativa, l'istituto esercitava ai sensi dell'art. 402 c.c. i poteri tu­telari sul minore ricoverato o assistito - nel caso si dovesse aprire la tutela fino a quando non si provvedesse alla nomina di un tutore - ed inoltre in tutti i casi nei quali l'esercizio della patria potestà fosse impedito. Ne consegue che già prima dell'entrata in vigore della leg­ge 184, il G.T. avrebbe potuto entrare nell'isti­tuto per esercitare la forma di vigilanza, cui si è accennato, quanto meno in relazione ad una parte dei minori ricoverati, cioè quelli soggetti ai poteri tutelari dell'Istituto. Tuttavia, poiché la legge non prevedeva un potere ispettivo del G.T., la vigilanza, esercitata da quest'ultimo, si è spesso limitata ad un controllo delle carte: cioè degli elenchi trasmessi semestralmente dagli Istituti con qualche raro riscontro operato me­diante «visite».

La legge 184/83 ha innovato introducendo il potere-dovere del G.T. di procedere ad ispezioni periodiche e straordinarie degli Istituti.

L'ispezione appare solo ad una prima lettura finalizzata all'unico obiettiva del reperimento di minori in stato di abbandono.

Occorre infatti rilevare che l'istituto esercita tuttora, ai sensi dell'art. 3 della legge 184, i po­teri tutelari nei casi già previsti dall'art. 402 c.c. oggi abrogato. Comunque - e questo è il dato più significativo - in virtù delle nuove, norme l'istituto è in ogni caso affidataria del minore con gli stessi obblighi e poteri derivanti dall'affido familiare, come si ricava dagli artt. 3 e 5 della legge. Se si considera poi che anche all'Istituto incombe l'obbligo, come si è già accennato, di adoperarsi per il reinserimento del minore nella famiglia di origine e che il G.T. è l'autorità che garantisce il diritto del minore di cui all'art. 1, ne consegue che l'ingresso del G.T. nell'Istituto è finalizzata anche alla vigilanza sull'adempimen­to di tali obblighi da parte dell'Istituto stesso.

Si impone quindi tra l'altro la verifica degli obiettivi psico-pedagogici che l'Istituto deve por­si per la crescita e lo sviluppo del minore.

Aggiungo, per esemplificare, che proprio in forza dell'interpretazione sopra descritta del pro­prio potere di vigilanza, l'ufficio del G.T. - invo­cando le norme già citate - ha censurato ed ottenuto la modifica dei criteri di gestione di un brefotrofio napoletano. Detto istituto di fatti era gestito con criteri ed obiettivi pressoché esclu­sivamente sanitari con evidenti conseguenze sul­lo sviluppo fisio-psichico dei piccoli ricoverati.

Quanto alla individuazione di situazioni di ab­bandono, la cadenza di trasmissione degli elen­chi è divenuta da trimestrale a semestrale. For­se proprio perché tale trasmissione è l'equipol­lente della segnalazione dell'affido di fatto, il cui obbligo scatta, per l'appunto, decorsi sei mesi dall'affido. L'elenco deve contenere inoltre una serie di informazioni circa le condizioni psico­fisiche del minore ed i suoi rapporti con la fa­miglia, che non erano previste dall'art. 314/5 c.c. Tali informazioni devono essere accuratamente vagliate e controllate dal G.T., nel corso delle ispezioni, stimolando i responsabili degli Istituti ad approfondire le reali capacità educative e la validità dei rapporti genitori-figli al di là del fatto formale della visita o del dono.

Si richiede perciò un grosso impegno dei ser­vizi sociali e dello stesso G.T. al fine di rendere consapevoli i responsabili degli Istituti che essi costituiscono una indispensabile cinghia di tra­smissione dei bisogni del minore agli organi competenti. Se manca l'informazione o se questa è alterata, per superficialità o per un malinteso nei confronti delle famiglie, le situazioni si in­cancreniscono ed il giudice interviene troppo tardi, quando cioè recidere i legami familiari ri­sulta problematico e rischioso per il minore.

 

 

CONSIDERAZIONI OPERATIVE - LA SITUAZIONE IN CAMPANIA

 

Viene naturale dopo aver analizzato nelle varie componenti l'affido familiare - questo «nuovo strumento» che gli operatori sociali e gli ope­ratori del diritto si trovano a dover adoperare - viene naturale - dicevo - chiedersi se fun­zionerà.

Ho già ricordato che l'ordinamento giuridico non è una sovrastruttura della realtà, bensì una garanzia dell'azione umana secondo le sue esi­genze di sviluppo; che il diritto non è autentica­mente tale se non si rispetta la natura e la fina­lità dell'azione dell'uomo.

Ciò premesso, bisogna riconoscere che l'affido familiare ha per così dire, tutte le carte in rego­la. È infatti un mezzo di supporto, sostegno alla famiglia che ha una sua matrice naturale, una sua ragion d'essere a monte dello Stato. Isti­tuendolo inoltre il legislatore si è dimostrato attento ai fermenti culturali e sociali. Si è reso conto della necessità di mettere in moto un processo di rivalutazione della famiglia da op­porre al dilagante processo di frammentazione della società. Si è reso altresì conto di potersi appoggiare in tale compito, di poter ottenere la collaborazione di un nuovo modello di famiglia: «famiglia-comunità di affetti» in armonia con il modello di famiglia che si legge nella riforma del '75. Tale famiglia diventa sempre più consa­pevole del proprio compito di promozione socia­le. Compito che si realizza, oltre che con l'edu­cazione dei figli allo spirito di servizio, con l'at­tenzione ai bisogni degli altri e l'accoglienza ver­so le altre famiglie.

Tuttavia la norma giuridica, nel momento della sua attuazione, deve confrontarsi, «fare i con­ti» per così dire con la realtà sociale e cultu­rale in cui è destinata a calarsi.

Mi sia dunque consentito un breve esame del­la realtà in cui mi trovo ad operare onde valu­tare le possibilità concrete di «riuscita» - tra virgolette - dell'affido.

Ci troviamo in Campania - in particolare nell'area napoletana (parlo di quest'ultima con mag­gior cognizione di causa perché vi opero) in una zona di forte depressione economica. Non ho svelato alcun mistero. A tale depressione eco­nomica si accompagna però un crescente de­grado morale, una banalizzazione dei valori, che ha finito di scardinare la pur debole forza di coesione della famiglia fortemente indigente.

Non ultima causa - nel fallimento della scuo­la che, quando non respinge, si limita ad essere un parcheggio per i minori di determinate con­dizioni socio-culturali - non ultima causa di­cevo il consumismo, capillarmente diffuso dai mass-media, che va a braccetto con un certo tipo di assistenza, anzi di assistenzialismo derespon­sabilizzante, il cui slogan (lo rubo al collega Ciampa che lo ha coniato qualche giorno fa) po­trebbe essere «consumate tutto, tanto ci pen­siamo noi».

Il ragazzo della 167 di Secondigliano non si presenta quasi mai lacero e sporco, anzi indossa il giubbotto all'ultima moda. Molti dei minori che ho in tutela vivono di modestissime pensio­ni di reversibilità, il loro futuro è estremamen­te incerto, tuttavia trovano naturale e legittimo l'acquisto di costosissimi stereo. Il ritmo di vita di molte famiglie, che si arrangiano a campare alla giornata, è scandito (a volte fino a tarda notte) dai programmi della TV, vero diffusore di droga per nuclei familiari.

 

Più crescono i bisogni del superfluo, laddove non sono soddisfatti i bisogni essenziali: casa, salute, lavoro.

Attraverso un processo di reificazione dei rap­porti si indeboliscono i legami familiari e perso­nali. Si moltiplicano i nuclei familiari, nel senso che uno dei genitori - a volte entrambi - si legano successivamente a più partners, procrean­do. I figli nati da tali unioni, nel migliore dei casi, vanno in istituto, altrimenti vivono sulla strada ai margini della nuova famiglia che i ge­nitori si sono fatti.

Se questo è il contesto in cui dobbiamo ope­rare, è chiaro che l'affido è soltanto uno dei tan­tissimi mezzi da adoperare e non sempre il più indicato, data la natura delle «difficoltà» (tra virgolette) familiari che abbiamo descritte.

Occorre piuttosto una programmazione, che parta da precise scelte di politica sociale e non si lasci fuorviare da esigenze clientelari o de­magogiche ed una maggiore incisività dell'auto­rità giudiziaria.

L'operatore sociale - che sia utilizzato nel modo più corretto e produttivo possibile - non può limitarsi ad accogliere le richieste di assi­stenza dell'utente. Occorre invece partire da una analisi approfondita dei bisogni e delle risorse di ogni quartiere e promuovere negli utenti un processo di maturazione, di scelta, cui far cor­rispondere l'erogazione dei servizi.

Tutto questo, però, richiede un atteggiamento di recettività dell'ente pubblico che - partendo dalle esigenze segnalate dagli operatori socia­li - programmi e concretizzi i servizi, consape­vole della doverosità dei propri interventi.

Ciò che nella realtà napoletana quasi mai si verifica.

Il pericolo che già vedo concretamente deli­nearsi è che le norme, che abbiamo ora com­mentate, servano da alibi agli amministratori.

Al Giudice tutelare di Napoli non è stata ri­chiesta sinora l'emissione di alcun decreto di esecutività di affido familiare. Il Comune di Na­poli va limitando le ammissioni nell'istituto resi­denziale appellandosi alla nuova legge, che im­pone il ricorso prioritario alle altre soluzioni previste dalla legge stessa. Nello stesso tempo alcuni semiconvitti, validi centri di aggregazione in quartieri come Miano - alludo all'Istituto Don Guanella -, mandano vari S.O.S.: sono costretti a chiudere perché il Comune non paga.

Non vorremmo si ripetesse qui la storia della legge 180: si svuotano i manicomi senza appre­stare le strutture alternative, le famiglie sono lasciate sole a fronteggiare il loro dramma; risul­tato: pare che i manicomi stiano per riaprire.

Anche la Provincia di Napoli è rimasta muta sull'affido. Anzi in materia di assistenza agli il­legittimi, riconosciuti dalla sola madre, è ancora in vigore un regolamento, risalente al 1954. In esso è prevista in forma alternativa l'erogazione di un sussidio alla madre nubile o il ricovero del figlio in istituto. Il sussidio erogato alla madre nubile è di lire 2000 mensili. Qualche mese fa sembra sia stata fatta una proposta di delibera perché le duemila lire divengano da mensili, giornaliere. Viene comunque da interrogarsi cir­ca la legittimità di un simile regolamento che, in contrasto con la nuova legge, anteporrebbe in ogni modo alla famiglia il ricovero in Istituto: infatti la retta corrisposta per ciascun minore ricoverato ammonta a circa lire 150.000 mensili a fronte delle sessantamila lire che verrebbero erogate alla madre.

Anche la regione, cui competono i compiti e le funzioni - già citate - in forza della legge di scioglimento dell'ONMI, dovrebbe uscire dal suo silenzio e chiedersi: cosa è stato fatto e cosa si va facendo per l'applicazione della legge 184? Ma soprattutto dovrebbe provvedere alla legge di riassetto dei servizi sociali onde rendere at­tuabile il diritto del minore di cui all'art. 1.

Occorre dunque un'analisi dei bisogni, una programmazione; occorre un coordinamento tra gli enti ai fini della deistituzionalizzazione in vista della quale, peraltro, non risulta formulato alcun progetto.

E la cosa più singolare è che gli istituti ven­gono ancora accusati con anacronistiche e fanta­siose teorie di trattenere i bambini per lucrare le rette. Questa analisi non si attaglia quanto meno alla realtà napoletana dove gli enti pubbli­ci pagano male quando pagano.

È vero invece che molto spesso quando un istituto, un servizio viene gestito direttamente dall'ente pubblico, il bisogno del minore passa in secondo piano, perché prevale l'interesse oc­cupazionale: non è rara infatti la circostanza che un'istituzione venga mantenuta in piedi anche se non risponde più o risponde male alle esigenze dell'utente, perché non si sa come sistemare il personale o addirittura questo rifiuta una diversa collocazione.

Ho accennato prima, e concludo, ad una mag­gior incisività dell'autorità giudiziaria. Si parla molto di riforma della giustizia minorile, non in­tendo a questo punto affrontare il problema.

A mio avviso, però, in attesa della riforma, è quanto meno necessario che chi si occupa di minori, per così dire a tempo definito come il G.T., entri nell'ordine di idee che fare giustizia non è soltanto dirimere un conflitto, decidendo sulle relative pretese giuridiche. Esiste una con­flittualità meno appariscente, ma senz'altro più drammatica, tra l'attesa di chi vanta un diritto e non ha la capacità, la cultura, la forza di farlo valere e dall'altro lato l'inerzia di chi tale diritto dovrebbe soddisfare.

Mi va bene per chiudere un passo di un notis­simo discorso di Calamandrei sulla Costituzio­ne: La Costituzione - qui potremmo dire in ge­nerale la legge - è un pezzo di carta, se la lascio cadere non si muove. Perché si muova ogni giorno bisogna metterci dentro il combusti­bile: cioè il nostro impegno, la volontà di mante­nere le promesse della legge, in definitiva la nostra responsabilità.

 

 

 

 

(1) Relazione presentata da Maria Lidia De Luca Rai­mondi, Giudice tutelare di Napoli, al Convegno sul tema «Per una cultura dell'infanzia e dell'adolescenza» indetto dalla Provincia di Napoli e svoltosi a Napoli il 29, 30 e 31 marzo 1984.

 

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