Prospettive assistenziali, n. 69, gennaio - marzo 1985

 

 

ASSISTENZA E SOLIDARIETÀ: RUOLO DELLO STATO E DELLA FAMIGLIA

GIACOMO BRUGNONE

 

 

INTRODUZIONE

 

La letteratura specialistica tradizionale è sino­ra stata prodiga di analisi teoriche e di descri­zioni di esperienze concrete in materia di inter­venti sanitari ed assistenziali. In essa il ruolo dello Stato e della famiglia nei confronti dei sog­getti in difficoltà psicofisica e/o socioeconomica è stata però - molto spesso - definito, o in maniera superficiale e contraddittoria, o in modo tale da avallare il disimpegno della collettività e delegare ai privati il maggior numero possibile di doveri e competenze; quasi un ritorno ai tem­pi in cui la soluzione di questi problemi era affi­data alla solidarietà della famiglia patriarcale o, in sua assenza (o incapacità a farvi fronte), alla generosità dei benefattori.

Relativamente rara e frammentaria è invece la letteratura di segno politicamente più avanzato, le cui produzioni sono esclusivamente frutto di movimenti di base e di alcuni autori progressisti, in quanto, soprattutto nel settore dell'assistenza sociale, i partiti, i sindacati e le associazioni storiche, hanno, con rare eccezioni, assimilato la filosofia della conquista del consenso delle mag­gioranze, mirando prioritariamente al soddisfa­cimento dei bisogni dei gruppi che detengono potere contrattuale, trascurando le istanze delle minoranze, quali sono appunto gli utenti del set­tore assistenziale che questo potere non hanno. In essa sono state sviluppate, in maniera quasi sempre esauriente, le analisi relative ai doveri dello Stato nei confronti dei «diseredati» che, vivendo in un contesto socioeconomico misero, non possono fare affidamento su di una solidarie­tà endogena. Scarse e massimalistiche sono in­vece quelle relative agli altri emarginati che potrebbero in teoria contare sulla solidarietà parentale.

La non chiarezza su questo punto è molto pe­ricolosa: infatti, in piena buona fede, possono essere assunte iniziative che, invece di raggiun­gere l'obiettivo di una migliore qualità della vita, rafforzano i tentativi di razionalizzazione del vec­chio obsoleto modello assistenziale, o di indi­scriminata delega alle famiglie.

Non può inoltre essere ignorato e sottovaluta­to il fatto che molto spesso l'emarginazione vie­ne giustificata come conseguenza del disinteres­se dei familiari nei confronti dei soggetti più deboli (handicappati, anziani, bambini e adole­scenti, ecc.).

Queste giustificazioni - spesso consolidate nella cultura ufficiale - tendono ad ingenerare atteggiamenti fatalistici nell'opinione pubblica.

Ci pare quindi opportuno contribuire al di­battito politico-culturale in corso, con una prima analisi che evidenzi le contraddizioni e le inade­guatezze della vigente normativa e l'anacroni­smo degli usi consuetudinari cui questa fa ri­ferimento; e formuli contemporaneamente delle ipotesi di soluzioni alternative.

Svilupperemo l'argomento definendo ciò che è giusto che la famiglia faccia per i suoi compo­nenti, ciò che invece può fare sul piano volon­taristico; infine metteremo in evidenza le inade­guatezze e le contraddizioni della vigente norma­tiva in materia, ed i rischi - in termini di attri­buzione di competenze non spettanti - cui la famiglia potrebbe andare incontro a causa di una restrittiva interpretazione di detta normativa.

A questo punto diverrà superfluo elencare gli obblighi della collettività in quanto essi costitui­scono la totalità di quelli non esplicitamente con­templati fra i doveri dei singoli, o comunque fra quelli che la famiglia - spontaneamente o op­portunamente incentivata e supportata - decide di assumersi di sua volontà.

Sarà però opportuno distinguere le prestazio­ni della pubblica solidarietà in sociali, cioè auto­maticamente riconosciute a tutti i cittadini, indi­pendentemente dalle loro condizioni socioecono­miche, ed in assistenziali, rivolte cioè alle cate­gorie più deboli; ricordando come nei periodi di crisi economica quest'ultimo settore divenga il capro espiatorio verso cui rivolgere i tagli della spesa pubblica.

 

 

LA TRASFORMAZIONE DELLA FAMIGLIA DA PATRIARCALE A NUCLEARE

 

Una completa analisi del fenomeno emargina­zione presupporrebbe l'esame della «miseria tradizionale» e delle «nuove forme di povertà»; qui ci limiteremo ad approfondire queste ultime, accennando solo marginalmente alla prima, già ampliamente descritta altrove.

L'attuale trasferimento di competenze (e ri­sorse) sociali dai singoli alla collettività non è sintomatico di una crisi della solidarietà fami­liare, bensì risponde ad una esigenza di adegua­mento al nuovo modello socioculturale che ci siamo dati (1) ed al mutato rapporto qualitativo/ numerico fra soggetti produttori e non. Contrariamente a quanto avviene oggi, in un sistema sociale che predilige efficienza e pro­duttività ed emargina quanti non sono in grado di adeguarsi a tali parametri, in seno alla vecchia famiglia patriarcale, che si configurava come en­tità socioeconomica autarchica - inserita in una società preindustriale che faceva ricorso a tec­nologie poco sofisticate - anche anziani e disa­bili trovavano in genere una loro collocazione at­tiva. Quando ciò non era possibile, essi venivano assistiti con impiego di risorse inferiori a quelle attualmente richieste dallo Stato sotto forma di imposte e contributi sanitari e previdenziali.

Quella di pubblicizzare l'assistenza sociale, la sanità e la previdenza è una scelta irreversi­bile in quanto ogni altra soluzione sarebbe in­compatibile con la sopravvivenza della famiglia nucleare.

Sarà a tale proposito opportuno ricordare co­me la consistenza numerica degli ultrasettanten­ni sia negli ultimi 120 anni più che decuplicata e sia quasi quintuplicata la loro incidenza per­centuale su tutta la popolazione italiana (2). No­nostante i notevoli progressi compiuti dalla scienza medica e le migliorate condizioni socio­economiche che hanno consentito alla maggio­ranza della popolazione di raggiungere età avan­zate, non si è ancora riusciti a garantire la pre­venzione dei disagi psicofisici, ragion per cui nella terza (e quarta) età la malattia - spesso a decorso cronico ed invalidante - è un evento tutt'altro che raro (3); e comunque i soggetti molto anziani in discrete condizioni psicofisiche ben difficilmente possono essere considerati completamente autosufficienti.

Ad accrescere ulteriormente il numero degli assistiti contribuisce anche il continuo incre­mento numerico dei «veri» e «falsi» handicap­pati; i primi come diretta conseguenza dei pro­gressi della scienza medica che consentono an­che ai più gravi di sopravvivere, i secondi quale prodotto della più rigorosa selettività della no­stra società.

Questa maggiore longevità della popolazione fa sì che siano sempre più frequenti casi di ul­traottantenni con figli ultrasessantenni, nipoti trentenni e pronipoti di pochi anni. È quindi com­prensibile come in questi non rari casi, non si possa pretendere dalla famiglia giovane che provveda contemporaneamente oltre che ai pro­pri bisogni anche a quelli di nonni, padri e figli.

 

 

LO STATO GARANTE DELLA SICUREZZA SOCIALE DEI CITTADINI

 

Parallelamente al modello familiare si è evo­luto anche lo Stato che da mero spettatore si è dovuto trasformare in diretto gestore (o comun­que garante) di un sempre maggior numero di interventi rivolti ai singoli cittadini (4).

Ogni cittadino dovrebbe dunque aver diritto alla sicurezza sociale, direttamente o indiretta­mente garantita dalla collettività. È naturalmen­te sottinteso che ciò è subordinato al dovere di ognuno a concorrere - se è obiettivamente in grado di farlo - al finanziamento della spesa pubblica sotto forma di contributi, in misura proporzionale alle sue reali capacità contributive.

Per poter adempiere a questo dovere e con­temporaneamente soddisfare i propri bisogni (e quelli della sua famiglia), per non divenire a sua volta assistito, ogni cittadino che non abbia mez­zi economici autonomi, deve esser messo in con­dizione di esercitare il suo diritto-dovere ad una attività lavorativa adeguata alle proprie condi­zioni psicofisiche e socioculturali.

Secondo un calcolo teorico (o meglio utopi­stico) il trasferimento della gestione della si­curezza sociale dalla famiglia alla collettività avrebbe dovuto razionalizzare le prestazioni, ri­durre gli sprechi e migliorare il rapporto fra risorse impiegate e benefici conseguiti.

La realtà è purtroppo diversa e la causa di ciò è da ricercarsi nelle errate scelte politiche di chi ci governa:

- prelievi fiscali e contributi non sempre pro­porzionali alle risorse degli utenti;

- evasioni ed esenzioni fiscali e contributive;

- privilegi clientelari pensionistici (5) ecc.

A fare le spese di questo malgoverno sono soprattutto gli anziani e di disabili che si vedono riconosciuta una pensione inadeguata (6) ed in molti casi addirittura negata l'assistenza sanita­ria. È quest'ultimo il caso degli anziani ammalati cronici cui viene di fatto negato il diritto all'as­sistenza ospedaliera (7).

In questo stato di strumentale confusione ideo­logica, non è sempre facile aver chiari i concetti di diritto e dovere dei singoli e della collettività. Quando un cittadino perde l'autosufficienza so­cioeconomica o psicofisica, spesso si verifica il palleggio dell'assistito: lo Stato vorrebbe scari­carlo alla famiglia, richiamandola ai suoi doveri di solidarietà nei confronti dei membri più debo­li; questa dal canto suo, vuoi perché conscia dei propri legittimi diritti e doveri o più semplice­mente perché obiettivamente incapace di farvi fronte, tende a rifiutare tale ruolo.

 

 

I DOVERI DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA FAMIGLIA E DEL PARENTADO

 

I doveri del cittadino nei confronti della fami­glia e degli altri congiunti, ed i doveri dello Stato nei confronti dei cittadini in difficoltà, più che da un armonico digesto di leggi, sono regolati da provvedimenti anche in contrasto fra di loro che spesso non tengono in alcuna considerazio­ne i dettati della Costituzione italiana o inter­pretano in maniera funzionale al disimpegno del­la collettività il conflitto fra i principi enunciati dagli articoli 4, 30, 32 e 38 della stessa che san­ciscono i doveri della famiglia e dello Stato nei confronti dei singoli (8).

Entrando nel merito dei doveri che il singolo ha nei confronti dei componenti il suo nucleo familiare (conviventi o comunque figli minoren­ni o maggiorenni purché studenti) e degli altri parenti ed affini, il diritto di famiglia contempla due tipi di obblighi: il mantenimento nel primo caso e la corresponsione degli alimenti nel se­condo.

L'obbligo corresponsione degli alimenti - la cui misura non deve superare quanto sia neces­sario alla vita dell'alimentando - si differenzia dal più vasto obbligo a contribuire ai bisogni del­la famiglia ed al mantenimento dei figli; in que­st'ultimo caso l'obbligato deve provvedere a tut­te le necessità di vita dei componenti il suo nucleo familiare, in proporzione delle sue so­stanze e delle sue possibilità e non solo dei suoi redditi.

 

I doveri del cittadino nei confronti dei componenti il suo nucleo familiare

Il codice civile stabilisce che dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e che entrambi i coniugi sono tenu­ti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della fami­glia (9); quindi anche al mantenimento, educa­zione ed istruzione dei figli (10). Questi ultimi sono tenuti a loro volta a contribuire, sinché convivono, al soddisfacimento dei bisogni di ge­nitori e fratelli (11).

Il nuovo diritto di famiglia (12) non stabilendo limiti di età in merito al mantenimento dei figli, crea di fatto un vuoto normativo che viene col­mato col ricorso agli «usi consuetudinari», se­condo i quali il loro mantenimento è dovuto sin­tantoché non abbiano raggiunta la maggiore età o comunque siano in grado di provvedere a se stessi con i propri mezzi (13), o quanto meno, sino al momento in cui i figli, secondo una va­lutazione fatta usando i criteri della normalità e della ragionevolezza, avrebbero dovuto e potu­to conseguire detta indipendenza economica. Questo criterio potrebbe essere meglio definito prendendo come riferimento la formula prevista per la corresponsione degli assegni familiari (o aggiunta di famiglia) accordata ai lavoratori (o ai titolari di pensioni) per i figli maggiorenni che frequentano scuole medie superiori o l'uni­versità, per un periodo non superiore alla durata legale degli studi suddetti.

A nostro avviso hanno diritto al mantenimen­to anche i figli che stanno apprendendo un'arte o un mestiere. Dopodiché dovrà ritenersi adem­piuta la funzione propria della famiglia, che è quella di mantenere, istruire ed assistere i figli; qualora questi ultimi siano impegnati in attività di specializzazione o perfezionamento (non retri­buite), o siano alla ricerca di una occupazione, al mantenimento subentra il diritto ad essere aiutati, cioè agli «alimenti», la misura dei quali è legata alle possibilità economiche dei genitori.

Per poter però adempiere a queste funzioni la famiglia, formazione sociale in seno alla quale si realizza la convivenza e la promozione della personalità individuale, deve vedersi concreta­mente riconosciuto, per i suoi componenti attivi, il diritto al lavoro e ad una vita socialmente ed economicamente decorosa.

Sin qui la descrizione della famiglia «norma­le», il cui ruolo solidaristico non viene messo in discussione da nessuno; quando però la stes­sa accoglie al suo interno membri aventi disagi psicofisici, la solidarietà privata si intreccia con quella sociale. A nostro avviso, quest'ultima pre­vale assorbendo o addirittura eliminando la prima. A sostegno di questa interpretazione vi sono numerose disposizioni che sanciscono il diritto di questi soggetti al benessere psicofisico e all'autonomia economica. Oltre alla legge di ri­forma sanitaria, di cui parleremo più ampiamen­te in seguito, fra le altre ricorderemo le se­guenti:

- quella che prevede il collocamento lavora­tivo obbligatorio per i disabili con un grado di invalidità compreso fra il 33 ed il 100% (14);

- la legge che contempla il trattamento pen­sionistico per ciechi, sordomuti e disabili con in­validità superiore al 66% (15);

- infine quella che prevede la corresponsio­ne dell'indennità di accompagnamento ai ciechi ed agli invalidi civili totali che necessitano dell'aiuto continuativo di una persona per potersi spostare e provvedere ai più elementari bisogni indispensabili alla loro sopravvivenza (16). Queste disposizioni sanciscono tre principi fondamentali che, se opportunamente messi in pratica, potrebbero da soli derimere il conten­zioso fra singoli cittadini e collettività in mate­ria di competenze assistenziali:

- il diritto del disabile al lavoro;

- quello dell'autonomia economica anche nel caso di una sua obiettiva incapacità lavorativa. I requisiti che vengono richiesti per fruire della pensione tengono infatti conto delle sole risorse personali d211'avente diritto e non di quelle del suo nucleo familiare (17);

- viene infine sancito il principio costituzio­nale secondo il quale spetta allo Stato rimuo­vere le cause che limitano la libertà e l'ugua­glianza dei cittadini ed impediscono il pieno svi­luppo della personalità umana. Essendo infatti la concessione dell'indennità di accompagnamen­to legata alla sola condizione di invalidità totale ed esclusivamente concessa a tale titolo, essa si configura come prestazione sociale dovuta a tutti coloro che ne abbiano diritto, indipendentemen­te dal reddito e/o dal patrimonio (personale e/o familiare) di cui possono disporre.

 

I doveri del cittadino nei confronti dei congiunti indigenti

Ritornando al codice civile, vediamo in cosa consistono gli «alimenti», come e a chi sono dovuti (18).

Gli obblighi che ogni cittadino (provvisto di mezzi) ha nei confronti dei congiunti che versino in stato di indigenza, si limitano alla correspon­sione degli alimenti, che debbono essere asse­gnati in proporzione del bisogno di chi li do­manda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Essi non debbono tuttavia supe­rare quanto sia necessario per la vita dell'ali­mentando, avuto però riguardo per la sua posi­zione sociale (19).

La loro somministrazione può, a scelta di chi è tenuto per legge a provvedervi, il civilmente obbligato (20), consistere o in un assegno ali­mentare o nell'ospitare presso di sé e mantene­re colui che ne ha diritto.

Ma la norma del codice civile che più di ogni altra è in contrasto con l'aspirazione allo «Stato sociale» è quella secondo la quale l'Autorità Giudiziaria può, secondo le circostanze, determi­nare il modo di somministrazione degli alimen­ti (21). Questa disposizione, peraltro in disuso, è facilmente impugnabile in quanto configura a tutti gli effetti il mantenimento e non la corre­sponsione degli alimenti; la qual cosa, oltre a costituire un onere economico per il nucleo fa­miliare di colui che è tenuto a provvedervi, rap­presenterebbe un arbitrario limite alla sua liber­tà ed un impegno assistenziale non contemplato dalla vigente normativa in materia.

Pur non avendo il nuovo diritto di famiglia abro­gato gli articoli del codice civile relativi all'ob­bligo alla corresponsione degli alimenti, alcune leggi hanno, anche se in maniera ancora inade­guata, recepito il principio costituzionale secon­do il quale compete allo Stato assicurare condi­zioni di vita economicamente e socialmente de­corose a tutti i cittadini in difficoltà. Ci riferia­mo ai provvedimenti relativi alle previdenze eco­nomiche a favore dei disabili (cui abbiamo fatto cenno sopra) e a quello relativo all'istituzione della pensione sociale a favore degli ultrases­santacinquenni titolari di redditi inadeguati (22). Con queste disposizioni viene riconfermato un principio fondamentale della nostra legislazione protettiva, in vista del raggiungimento di quel compiuto ed armonica sistema di sicurezza so­ciale, delineato dagli articoli 32 e 38 della no­stra Costituzione, a tutela dei cittadini che ver­sano in stato di bisogno. Nei requisiti richiesti per il riconoscimento della pensione sociale è esplicitamente espresso il diritto di ogni citta­dino all'autonomia economica; in essi si tiene infatti conto dei redditi del richiedente (ed even­tuale coniuge convivente) e non dell'esistenza o meno di civilmente obbligati in grado di prov­vedere al suo mantenimento (23).

In tutti gli altri casi di impossibilità a conse­guire e conservare autonomamente un minimo di benessere psicofisico e/o socioeconomico, sono tenuti ad intervenire gli Enti locali (Comu­ni, Amministrazioni provinciali o ULS, a secon­da delle competenze) (24).

Gli Enti locali tendono, dal canto loro, ad in­terpretare questo dovere come sussidiario del­la solidarietà familiare, destinato ad operare so­lo in assenza di civilmente obbligati abbienti; pertanto, laddove sia possibile, cercano di recu­perare totalmente o parzialmente i costi delle prestazioni assistenziali. Essi motivano questo provvedimento sia in base ai principi genera­li (25), sia applicando il principio stabilito dall'articolo 7 della legge 17.7.1890, n. 6972, in base al quale la congregazione di carità (poi l'E.C.A. ed ora il Comune) «deve curare gli interessi dei poveri del Comune ed assumerne la rappre­sentanza legale».

L'applicazione di tale principio sarebbe giu­stificata dal presupposto «logico» secondo il quale non possono ricorrere all'assistenza pub­blica se non coloro che siano «inabili a qual­siasi proficuo lavoro e che non abbiano mezzi di sussistenza, né parenti tenuti per legge a prov­vedere agli alimenti e in condizione di poterli prestare»: così testualmente recita l'articolo 154 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurez­za (26), esprimendo evidentemente un principio generale (considerato) implicito in questa ma­teria. Secondo tale interpretazione l'intervento pubblico sarebbe giustificato solo laddove non possa giungere la solidarietà familiare.

In questi casi, qualora i congiunti rifiutassero di contribuire alle spese assistenziali, l'Ente lo­cale potrebbe agire o con normale azione civile per chiedere la loro condanna al pagamento delle somme richieste, o indirizzando l'assistito ver­so il gratuito patrocinio.

Nutriamo seri dubbi sull'opportunità e legitti­mità di questa politica, ravvisando innanzitutto il rischio che la richiesta ai familiari di contri­buire ai costi delle prestazioni assistenziali pos­sa di fatto tradursi in un ricatto: «provvedere­mo al ricovero del vostro congiunto a condizione che voi (civilmente obbligati) versiate mensil­mente la somma di L. . ...».

In ogni caso l'intervento degli Enti locali per il soddisfacimento di richieste assistenziali (ri­coveri, aiuto domiciliare, contributi economici, ecc.) deve essere il più tempestivo possibile; ciò indipendentemente dall'esistenza o meno di civilmente obbligati in grado di provvedervi. Solo in un secondo tempo, qualora dovessero rite­nerlo opportuna, e se saranno in grado di otte­nere un provvedimento del Tribunale in tal sen­so, potranno esercitare il diritto di rivalsa nei confronti dei congiunti abbienti, tenuto conto che l'elencazione di cui all'articolo 433 del codice civile è tassativa. Ne deriva che non si possono chiedere gli alimenti ad obbligati del grado in­feriore se quelli di grado superiore possono adempiere l'obbligo. Non si possono, ad esem­pio, chiederli ai figli o ai nipoti se il coniuge è in grado di provvedervi.

Occorre inoltre tener conto che con la suddet­ta procedura gli Enti locali entrano nell'ambito familiare, creando situazioni anche traumatiche. Si potrebbe così creare una situazione di con­flitto fra il figlio, al quale il Comune chiede un contributo economico, e i genitori anziani. Non sono, a tale proposito, rari i casi di anziani che rifiutano di farsi assistere dal Comune o dall'ULS temendo - a causa di dette richieste - il ri­schio di fratture (o comunque dissapori) con i congiunti. È esemplificativo il suicidio dei due coniugi ricoverati in una casa di riposo che, per non far pagare ai figli un contributo, da essi ri­tenuto troppo oneroso, «... hanno smesso di mangiare e a un certo punto se ne sono an­dati» (27).

In questa fase di transizione in cui la famiglia non è più patriarcale e lo Stato non è ancora «sociale», in cui si chiede ai cittadini di rinun­ciare a rilevanti quote delle loro risorse econo­miche per finanziare le prestazioni sociali e di mettere a disposizione parte del loro tempo (o denaro) per l'assistenza diretta ai congiunti in difficoltà, anche la cultura corrente ratifica que­ste interpretazioni restrittive.

In ogni caso sempre più viene avvertita, come assolutamente ingiusta, la richiesta di contribu­ti economici ai parenti degli anziani cronici non autosufficienti ricoverati in istituti di assistenza. Questi anziani, infatti, avrebbero diritto, ai sensi delle vigenti leggi, di essere curati e riabilitati in strutture sanitarie residenziali (quindi gratui­tamente) sempre che non si possa intervenire a livello domiciliare o ambulatoriale.

È quindi comprensibile come il conseguimento dello Stato sociale sia un obiettivo non facile, che presuppone il superamento dell'attuale mo­dello culturale e politico. Attendendo il suo av­vento, sintantoché non verranno modificate le disposizioni del codice civile incompatibili con questa concezione, sarà indispensabile - rispet­to ai casi concreti - sollecitare interpretazioni estensive delle stesse, e qualora ciò non sia possibile, sollevare eccezioni di costituzionalità, valutando i pro e i contro.

 

 

CIÒ CHE IL CITTADINO PUÒ FARE SUL PIANO VOLONTARISTICO PER I COMPONENTI LA SUA FAMIGLIA E PER GLI ESTRANEI IN DIFFICOLTA

 

Oltre a quella sociale e a quella familiare, vi è un'ulteriore forma di solidarietà che si espri­me sul piano volontaristico. Tralasciando di ana­lizzare il fenomeno generale del volontariato e degli interventi sostitutivi della famiglia (adozio­ne, affido e semiaffido familiare), che affronte­remo in altra sede, ci limiteremo a trattare delle prestazioni nei confronti dei congiunti in diffi­coltà che, non essendo previste fra quelle cui il cittadino non può sottrarsi, sono da questi assi­curate solo per libera scelta.

 

L'assistenza diretta ai congiunti disabili

A prescindere dall'interpretazione che si vo­glia attribuire alle modalità previste per l'adem­pimento all'obbligo del mantenimento, nei con­fronti del coniuge e dei figli a carico, e della corresponsione degli alimenti, nei confronti di altri congiunti indigenti, è inconfutabile come l'obbligo dello Stato, in materia sanitaria ai di­sabili, debba intendersi come primario, tale da precedere quello di ogni altro soggetto. Ne deri­va che, essendo l'assistenza diretta a questi cit­tadini una necessità imposta dal disagio psico­fisico e che comunque si basa prioritariamente su prestazioni sanitarie (mediche, infermieristi­che, farmaceutiche, diagnostiche e riabilitative), l'impegno dei congiunti nei loro confronti non può essere che frutto di una libera scelta ispi­rata dà sentimenti di affetto e resa possibile solo in presenza di condizioni favorevoli quali la di­sponibilità di adeguate risorse economiche, spa­zio abitativo, tempo materiale e attitudini suffi­cienti per assolvere tale compito; condizioni, queste, difficilmente riscontrabili nella maggio­ranza dei casi.

Dall'obbligo dello Stato a garantire assisten­za sanitaria a tutti i cittadini senza limiti di du­rata ed indipendentemente dalle cause che han­no determinato lo stato di mancato benessere sia fisico che psichico, deriva il diritto per il disabile (e per i suoi familiari) a vedersi assicu­rate le prestazioni del caso, nella sede e con le modalità più idonee, e a non essere costretti a far ricorso ad un dispendioso servizio sanitario privato. In materia di assistenza diretta i con­giunti del disabile potrebbero, solo per loro li­bera scelta, sostituirsi parzialmente al Servizio sanitario nazionale, e solo nei casi in cui sia praticabile l'ospedalizzazione domiciliare. Qua­lora dovesse realizzarsi questa possibilità, com­peterà allo Stato, quale principale e diretto ga­rante del benessere psicofisico di tutti i cittadini, creare i presupposti per incentivare questa so­luzione alternativa.

Vi sono, a nostro avviso, due validi motivi per orientare le attuali scelte politiche verso l'incentivazione dell'assistenza diretta ai con­giunti disabili: i minori costi che essa compor­terebbe nei confronti dell'assistenza ospedaliera tradizionale e le condizioni più rispondenti alle esigenze affettive degli assistiti. Questo discor­so non va però generalizzato, ma preso in con­siderazione solo in presenza di favorevoli condi­zioni logistiche e qualora lo consentano le con­dizioni psicofisiche dell'ammalato. In ogni caso la valutazione dei costi che questa operazione comporterebbe non deve esser fatta in termini monetaristici, bensì tenendo conto del rapporto fra risorse impiegate e benefici conseguiti.

Nella vigente legislazione sono già contenuti alcuni fra gli strumenti necessari a consentire questa operazione; li ricordiamo brevemente:

- l'indennità di accompagnamento agli inva­lidi totali;

- la pensione di invalidità civile;

- la corresponsione alle famiglie del contri­buto economico, a copertura dei costi per le spe­se infermieristiche, che attualmente molte Re­gioni erogano attingendo dal Fondo sanitario na­zionale, nei casi di ricoveri assistenziali e che ammontano a 3-400.000 lire mensili;

- prestazioni di medicina di base più ade­guate;

- l'attivazione di prestazioni specialistiche e riabilitative a domicilio (28);

- l'assistenza domiciliare generica ed infer­mieristica, ed il servizio per il trasporto e l'ac­compagnamento dei disabili, già funzionante in alcune realtà;

- l'attivazione di ospedali diurni e di altri servizi territoriali;

- contributi economici per la rimozione delle barriere architettoniche (29);

- in attesa che la riforma delle modalità di assegnazione di appartamenti costruiti col con­tributo pubblico stabilisca criteri preferenziali a favore di famiglie disposte ad accogliere defini­tivamente congiunti disabili, la messa a loro di­sposizione di alloggi di proprietà degli Enti locali e delle IPAB.

Pur essendo queste incentivazioni esplicita­mente previste da precise disposizioni di legne e da provvedimenti degli Enti locali, esse vengo­no continuamente disattese; ai disabili dimessi (o non accettati) dagli ospedali, non rimane che sopravvivere in condizioni che sono spesso al limite di ogni umana sopportazione, coinvolgen­do in questi disagi anche i congiunti. L'unica soluzione praticabile in questi casi è l'opposi­zione alle dimissioni ed il rifiuto di accettare, in alternativa, ricoveri assistenziali, sostenendo questa posizione, se necessario, con ricorsi ai Tribunali amministrativi regionali o all'Autorità giudiziaria, che non potranno non riconoscere le inadempienze del Servizio sanitario nazionale.

 

 

CONCLUSIONI

 

A conclusione di questa prima analisi dell'ar­gomento, che va necessariamente ampliata e sviluppata in ogni sua parte, sono già possibili alcune considerazioni.

L'integrale applicazione del dettato costituzio­nale secondo il quale compete allo Stato il sod­disfacimento dei bisogni dei cittadini in difficol­tà, è un obiettivo a medio termine, il raggiungi­mento del quale è subordinato al superamento degli attuali modelli culturale e politico. È in questa direzione che deve essere rivolto ogni nostro impegno. Nel frattempo la corresponsione degli alimenti deve limitarsi ai soggetti le cui difficoltà derivino da disagi economici.

Comunque il mantenimento e la somministra­zione degli alimenti non vanno confusi con l'as­sistenza diretta ai disabili adulti, la qual cosa è possibile solo sul piano volontaristico. In que­sti casi compete alla collettività creare i presup­posti per incentivare tale scelta, sia con contri­buti economici, sia con la messa a punto di ser­vizi di supporto; facendo ben attenzione però che questa incentivazione non produca il feno­meno dei falsi disabili o speculazioni ai loro danni.

Per quanto concerne poi l'eliminazione delle «degenze improprie», finalizzata al contenimen­to della spesa sanitaria, sarà opportuno ricordare come parte di queste siano conseguenti a di­sfunzioni del settore ospedaliero e all'inesisten­za di servizi territoriali alternativi. Non va a tal proposito dimenticato come molti ammalati acu­ti vengano attualmente parcheggiati in ospedale, in attesa di accertamenti diagnostici che potreb­bero essere eseguiti anche ambulatorialmente, o di interventi chirurgici che potrebbero essere programmati in modo tempestivo. Quanto poi agli ammalati cronici, per molti di essi la degenza ospedaliera potrebbe essere, con soddisfazione di tutti, egregiamente sostituita da un'assisten­za specialistica, riabilitativa ed infermieristica domiciliare o ambulatoriale. Sintantoché non ver­rà razionalizzato l'intero settore, nel senso di un miglior utilizzo dei servizi residenziali e della creazione di strutture alternative, l'ospedale ri­marrà l'unica soluzione offerta a questi ammalati, ed il ricovero a tempo indeterminato non potrà esser negato a nessun cittadino affetto da disagio psicofisico.

Concludendo, sarà opportuno, partendo da casi concreti, denunciare alla magistratura e all'opi­nione pubblica le contraddizioni della vigente normativa, e sollecitarne l'adeguamento.

 

 

 

(1) Il 10% degli ultrasessantenni non sono sposati (2,5% celibi, 7,5% nubili); il 7,7% sono vedovi ed il 25,7% vedove; in totale assommano al 43,4% gli anziani che vivono da soli (cfr. D. GATTESCHI, «Servizi sociosanitari a disposizione degli anziani», Ed. N.I.S.). A questi dati va aggiunto che, secondo il censimento del 1981, la fa­miglia media italiana era composta da 2,8 membri; questa percentuale tende a contrarsi ulteriormente.

(2) Cfr. M. PAVONE e F. SANTANERA, «Anziani ed interventi assistenziali», Ed. La Nuova Italia Scientifica, Roma 1982, pagg. 37-38.

(3) Secondo le recenti indagini campione dell'ISTAT sulle condizioni di salute della popolazione e sul ricorso ai servizi sanitari nel 1980:

- il 44% degli ultrasettantenni contro il 14% di tutta la popolazione italiana dichiara di non godere buona salute;

- il 33% dei soggetti di età compresa fra i 60 ed i 70 anni sono per tale motivo costretti a sospendere le loro normali attività, tale percentuale sale al 41% fra gli ul­trasettantenni, di questi circa la metà vive da sola;

- il numero degli ultrasettantenni che a causa delle loro precarie condizioni di salute abbisognano di cure e di assistenza più o meno continua ammonta a 1.500.000 unità.

(4) ROSARIO ROMEO nel suo saggio «Risorgimento e capitalismo», pagg. 123-30, Ed. Laterza 1970, riferisce come 120 anni orsono la presenza pubblica nei settori dei servizi erogati alle persone fosse quantitativamente e qualitativamente irrisoria. Ciò si può dedurre dai seguen­ti dati: i tributi pagati dagli italiani nel 1862 (450 milioni di lire dell'epoca che costituivano il 6,96% del prodotto nazionale netto) furono così utilizzati dallo Stato: spese militari 40% del totale; rimborso dei debiti 21%; opere pubbliche 10%; funzionamento della pubblica amministra­zione, istruzione, sanità ecc. 29%. Nei decenni immedia­tamente successivi l'incidenza dei tributi sul P.N.L. au­mentò (circa l'11% nel 1882) e vennero ridotte le spese militari, senza che peraltro crescessero le risorse desti­nate ai quasi inesistenti servizi sociali. Attualmente la macchina pubblica (Stato, sue aziende ed agenzie autono­me, parastato ed Enti locali) macina oltre il 50% del P.N.L., destinandone una parte considerevole ai settori socioassistenziale (1,8-2%), sanitario (6%) e previdenziale (17% del P.N.L.), senza peraltro soddisfare le reali esi­genze dei cittadini.

(5) Nel 1982, ultimi dati disponibili, l'incidenza dei pen­sionati sul totale dei percettori di redditi, era del 29,1%. Divisi per classi d'età, essi costituivano: l'1,9% degli ita­liani di età compresa fra 0 e 20 anni; lo 0,7% di quelli d'età fra 21 e 30; il 2,8% fra 31 e 40; il 5,7% fra 41 e 50; il 45% 51 e 65; il 98,3% degli ultrasessantacinquenni. Su 100 pensionati, 2,4 avevano un'età inferiore a 40 anni; 3,4 fra 41 e 50; 37,8 fra 51 e 65; 56,4 un'età superiore a 65 anni. Su 100 pensioni 60,4 erano di vecchiaia o anzianità; 26,9 d'invalidità; 7,7 ai superstiti; 4,4 sociali; 0,6 di guer­ra. Quanto al loro importo annuo, esso ammontava a meno di un milione e mezzo di lire per il 2,3% di tutte le pensioni; ad una cifra compresa fra 1,5 e 2 milioni per il 4,9%; fra 2 e 2,5 milioni per il 4,8%; fra 2,5 e 3 milioni per il 20,9%; fra 3 e 4 milioni per il 31%; fra 4 e 6 milioni per il 14,6%; fra 6 e 8 milioni per l'11,6%; fra 8 e 10 mi­lioni per il 6,8%; ed oltre 10 milioni per il 3,1%. Se ne desume che il 78,2% dei titolari di pensioni, potevano far affidamento su un reddito familiare inadeguato, molto spesso inferiore al «minimo vitale». A questi importi vanno aggiunte integrazioni di fondi speciali, che general­mente non riguardano i titolari dei redditi più bassi, e contribuiscono a determinare il fenomeno delle cosid­dette «pensioni d'oro». (Fonte: Banca d'Italia, «I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 1982», 28 dicembre 1983, supplemento al bollettino n. 57).

(6) L'importo del trattamento pensionistico minimo cor­risposto agli ex lavoratori dipendenti, assicurati presso l'INPS (rivalutabili ogni tre mesi) a partire dal 1° gennaio 1985 ammonta a lire 345.700 mensili. L'importo degli stes­si trattamenti corrisposti agli ex lavoratori autonomi sono ancor più irrisori. A decorrere dalla stessa data gli im­porti delle pensioni sociali ammontano a L. 204.700 mensili.

(7) Cfr. Prospettive assistenziali: n. 44 «Gli anziani cronici vengono calpestati nei loro diritti»; n. 45 «Gli anziani rifiutati anche dagli ospedali»; n. 46 «Iniziative contro le dimissioni dagli ospedali di anziani cronici»; n. 47 «Il paziente geriatrico lungodegente» di C. Mac­chione; «Contro il rifiuto degli ospedali di curare gli an­ziani cronici»; n. 49 bis «Atti del seminario di Jesolo del 5, 6, 7 ottobre 1979 sugli interventi sanitari ed assi­stenziali per gli anziani autosufficienti e cronici nelle Uni­tà locali dei servizi»; n. 50 «Le rette per anziani cronici: una battaglia vinta»; n. 51 «Presa di posizione del Co­mune di Torino contro le dimissioni forzate di anziani cronici dagli ospedali»; n. 53 «Esposto penale per la di­missione di un'anziana ammalata dall'ospedale»; n. 54 «Diritto degli anziani cronici all'assistenza sanitaria ed ospedaliera»; n. 59 «Gli anziani cronici non autosuffi­cienti: eutanasia da abbandono - Una ricerca in una casa di riposo»; n. 60 G. Brugnone «Due esposti all'autorità giudiziaria per le discriminazioni cui sono sottoposti gli anziani malati cronici»; n. 61 G. Brugnone «L'Italia è ancora il paese dei celestini»; Circolare del Comune di Torino sugli anziani cronici; n. 64 «Operatori di una casa di riposo sotto processo: la sentenza di Mestre»; n. 66 «Campagna per la difesa del diritto alle cure sanitarie degli anziani malati cronici non autosufficienti».

(8) Cfr. Costituzione italiana: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le con­dizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società» (art. 4).

«È dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educa­re i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano as­solti i loro compiti» (art. 30).

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale di­ritto dell'individuo e interesse della collettività, e garan­tisce cure gratuite agli indigenti...» (art. 32).

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mez­zi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale...» (art. 38).

(9) Cfr. codice civile, art. 143.

(10) Ibidem, art. 147.

(11) Ibidem, art. 315.

(12) Cfr. la legge 9.5.1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia, con la quale è stata regolata l'attuale normativa in materia.

(13) Cfr. A. TRABUCCHI, «Istituzioni di diritto priva­to», pag. 256, 26ª edizione, CEDAM, Padova, 1983.

(14) Cfr. la legge 482/1968 «Collocamento lavorativo obbligatorio delle categorie protette» e la legislazione

speciale relativa al collocamento lavorativo obbligatorio di ciechi e sordomuti.

(15) La legge 29.2.1980, n. 33, ha introdotto alcune in­novazioni alla legislazione riguardante le provvidenze eco­nomiche spettanti agli invalidi civili, ciechi e sordomuti, nell'intento di eliminare le sperequazioni esistenti fra le varie categorie di handicappati senza peraltro riuscirvi completamente; a decorrere dal 1° maggio 1985 l'importo della pensione riconosciuta ai ciechi totali ammonterà a lire 224.635 mensili, contro le 207.740 lire riconosciute alle altre categorie di invalidi.

(16) L'importo dell'indennità di accompagnamento, pre­vista dalla legge 18/1980 a favore degli invalidi civili to­tali e dei ciechi assoluti, è fissata a decorrere dal 1° gennaio 1985 in lire 465.650 mensili (annualmente rivalu­tabile).

(17) Il limite di reddito massimo riconosciuto all'invalido civile parziale (con ridotte capacità lavorative dal 66 al 99%), per poter accedere alla pensione, è congelato in lire 2.927.500 annue; ciò sintantoché condizioni di maggior favore consentiranno di equipararlo a quello richiesto per la pensione sociale. Il limite di reddito massimo ricono­sciuto agli invalidi totali, ciechi (totali e parziali) e sor­domuti, è dal 1° gennaio 1985 fissato in lire 10.930.525 annue.

(18) Cfr. codice civile artt. 433/438.

(19) Ibidem, art. 438.

(20) Ibidem, art. 433. «All'obbligo di prestare gli ali­menti sono tenuti nell'ordine: 1° il coniuge; 2° i figli le­gittimi o legittimati o naturali o adottivi e, in loro man­canza, i discendenti prossimi anche naturali; 3° i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche na­turali; gli adottanti; 4° i generi e le nuore; 5° il suocero e la suocera; 6° i fratelli e le sorelle germani o unilate­rali, con precedenza dei germani sugli unilaterali».

(21) Ibidem, art. 443.

(22) Cfr. la legge 30.4.1969, n. 153 «Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale», art. 26.

(23) La pensione sociale viene riconosciuta per intero alle persone non coniugate (vedovi o separati) prive di reddito ed a quelle conviventi con coniuge, con reddito inferiore a lire 8.025.750 annue; ed in misura proporzio­nalmente inferiore, nel caso in cui le stesse abbiano un reddito rispettivamente inferiore a lire 2.571.300 ed a lire 1.059.705 annue (dati aggiornati al 28.2.85).

(24) Cfr. il d.p.r. 616/77 con il quale lo Stato ha tra­sferito competenze in materia di assistenza sociale ai Comuni singoli o associati, e la legge 833/78 istitutiva del Servizio sanitario nazionale.

(25) Cfr. art. 2028 del codice civile e sentenza della Cassazione n. 148 del 19.1.1956.

(26) Cfr. il R.D. 18.6.1931 n. 773, approvazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

(27) Cfr. Regione Emilia-Romagna, Le residenze protette per anziani - Atti del Convegno di Modena del 28, 29 e 30 ottobre 1982, pag. 222.

(28) Cfr. legge 833/78, art. 14.

(29) Cfr. d.p.r. 384/78, attuativo dell'art. 27 della legge 118/71.

 

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