Prospettive assistenziali, n. 68, ottobre - dicembre 1984

 

 

SENTENZA PENALE NEI CONFRONTI DI DUE OPERATORI DELL'OSPEDALE MOLINETTE DI TORINO PER LE DIMISSIONI SELVAGGE DI UN ANZIANO

 

 

La campagna intrapresa dal CSA per la difesa del diritto alle cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, degli anziani cronici non autosuffi­cienti (cfr. Prospettive assistenziali, n. 66, aprile­-giugno 1984, pp. 29-34), fa emergere nuovi e gra­vi episodi.

Nel n. 64, ottobre-dicembre 1983, avevamo se­gnalato a p. 77 la incivile dimissione di Stefano Nosenzo di anni 95, precisando che al riguardo l'Unione per la lotta contro l'emarginazione so­ciale aveva presentato in data 30 marzo 1983 un esposto alla Procura della Repubblica.

Con estrema sollecitudine la Magistratura è intervenuta ed ha pronunciato la documentata sentenza che riproduciamo integralmente.

In calce alla sentenza pubblichiamo due dichia­razioni ufficiali rilasciate sul caso in esame, la prima del Vice Direttore sanitario dell'Ospedale Molinette, dott. Vogliolo (vedi Allegato 1) e la seconda del Presidente dell'USSL Torino 1-23 (vedi Allegato 2), dalle quali risulta evidente una presentazione dei fatti del tutto favorevole alla istituzione e dimentica dei diritti dell'utente.

Ricordiamo, infine, che finora le autorità reli­giose torinesi non sono intervenute né a favore del Nosenzo, né in merito al problema degli an­ziani cronici non autosufficienti.

 

 

TESTO DELLA SENTENZA

 

Il Tribunale civile e penale di Torino, Sezio­ne IV penale, composto dai Dott. Mitola Giovanni, Presidente; Dolcino Patrizia, Giudice; Mancini Maria Rita, Giudice; ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro Trombini Ma­rina e Marforio Paolo, imputati del reato di cui all'art. 591 C.P., per avere nelle rispettive qua­lità il Marforio di ispettore sanitario presso l'Ospedale Molinette, la Trombini di assistente sociale USL applicata presso il predetto nosoco­mio, abbandonato Nosenzo Stefano (il quale non era in grado di provvedere a se stesso sia per vecchiaia sia in relazione alla particolare situa­zione di tempo e di luogo in cui avvenne il fatto: egli aveva 94 anni, era appena giunto dall'Ospe­dale di Pietra Ligure dopo una lunga degenza; era un giorno assai freddo del mese di febbraio, in ora tarda e buia ed essendo il Nosenzo vestito del solo pigiama e della vestaglia) non conse­gnandolo al momento della dimissione a fami­liari o a persone da loro indicate, ma facendolo trasportare da solo a bordo di un taxi nelle vi­cinanze di un numero civico ove era sito un al­loggio abitato da persone le quali avevano le chiavi di quello del Nosenzo.

In Torino, il 16.2.1983, oltre le ore 16,00.

 

Svolgimento del processo

Nel tardo pomeriggio del 16 febbraio 1983 un vecchietto, piangente e disorientato, veniva soc­corso mentre, recando con sé una valigetta con­tenente indumenti, sostava, infreddolito e smar­rito, nell'androne dello stabile di via Petrarca 28 dell'abitato di Torino.

Si poteva accertare che nello stabile abitava certa signora Longarini Natalina, che da tempo dedicava cura e assistenza al vecchietto, e que­sti veniva identificato per tale Nosenzo Stefano, novantaquattrenne.

Dell'episodio, per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su forme di emarginazione tollerate dalla comunità sociale, si occupava, con un trafiletto, la stampa cittadina; e della dif­fusione della notizia veniva informata la Procura della Repubblica della città.

Venivano pertanto avviate indagini di p.g., le quali portavano a stabilire che il Nosenzo, da qualche tempo ricoverato presso l'Ospedale Mo­linette di Torino e poi avviato alla divisione di Medicina Generale presso l'Ospedale Santa Co­rona di Pietra Ligure, era stato dimesso il 16 febbraio. Rientrato a Torino con automezzo mes­so a disposizione dall'Ospedale, non aveva tro­vato parenti o familiari che lo accogliessero, e pertanto era stato a mezzo di un taxi accompa­gnato all'indirizzo che egli stesso aveva indicato al personale dell'Ospedale come luogo di custo­dia delle chiavi della sua abitazione.

Si accertava altresì che ad assumere la deci­sione in ordine alle modalità di avviamento del Nosenzo alla propria abitazione erano stati l'as­sistente sociale in servizio presso l'Ospedale, tale Trombini Marina, e l'ispettore sanitario, dott. Paolo Marforio.

Ad entrambi veniva perciò contestato il reato in epigrafe specificato.

Gli imputati respingevano l'addebito.

La Trombini dichiarava che, essendo stata in­formata che il Nosenzo non aveva trovato alcun familiare che lo accogliesse al rientro da Pietra Ligure, aveva preso contatto con lui, dal quale aveva appreso che certa signora Longarini prov­vedeva ad assisterlo. Su incarico del Nosenzo, aveva quindi telefonato all'abitazione della Lon­garini, e una donna, qualificatasi come figlia della predetta, le aveva riferito che era impossibilitata per esigenze di famiglia a recarsi in Ospedale a prelevare il Nosenzo e che, d'altra parte, la ma­dre era assente da Torino.

Aggiungeva la Trombini che aveva segnalato tali difficoltà al Nosenzo; e questi l'aveva pregata di accertare a mezzo telefono se le chiavi del suo alloggio fossero custodite presso la portineria della abitazione della Longarini.

Effettuato con esito positivo detto accertamen­to - concludeva la Trombini - aveva aderito al desiderio del Nosenzo di rientrare a casa, e ave­va pertanto disposto - dopo aver ricevuto anche l'assenso del dott. Marforio, da lei occasional­mente incontrato - che il Nosenzo fosse cari­cato a bordo di un taxi e accompagnato al domi­cilio indicato.

Dichiarava infine la Trombini di non aver avuto il benché minimo sospetto che il Nosenzo fosse incapace di provvedere a se stesso.

Identico giudizio in ordine alla insussistenza di elementi che potessero fare seriamente dubi­tare della integrità della salute fisica o psichica del Nosenzo esprimeva, dal canto suo, il Mar­forio, il quale confermava, nelle linee essenziali il racconto fornito dalla Trombini e ribadiva di avere effettivamente prestato il proprio consen­so alla soluzione prospettatagli dalla assistente sociale di far condurre a casa il Nosenzo a mezzo di un taxi.

Veniva intanto disposta ed eseguita perizia me­dico-legale per accertare quali fossero i limiti di autosufficienza del Nosenzo all'atto della dimis­sione dall'Ospedale; e la perizia, pur sottolinean­do come le condizioni psichiche e fisiche del No­senzo fossero buone in relazione alla sua tarda età, evidenziava lo stato di fisiologica fragilità sia fisica che psichica connessa all'invecchia­mento ed escludeva quindi che il Nosenzo po­tesse essere «fornito di totale autosufficienza».

All'esito dell'istruttoria, condotta con rito som­mario, la Trombini e il Marforio venivano tratti a giudizio davanti a questo Tribunale.

In dibattimento gli imputati, entrambi presen­ti, ribadivano le difese già illustrate in istrut­toria; indi, escussi i testi, sentito a chiarimenti il perito medico-legale in presenza del consulen­te tecnico nominato dagli imputati e data lettura degli atti consentiti, P.M. e difesa concludevano come da verbale.

 

Motivi della decisione

Per individuare genesi, limiti e fondatezza dell'addebito rimproverato agli imputati gioverà pre­mettere un rapido cenno allo sviluppo cronologi­co della vicenda conclusasi con il solitario viag­gio del Nosenzo, a bordo di un taxi, verso uno stabile cittadino del quale non avrebbe ricono­sciuto, se non dopo una angosciante e sofferta attesa, il tepore e il calore della familiarità.

Il Nosenzo viene accompagnato - il dato è pacifico, perché emergente da sicure annotazio­ni figuranti sulle cartelle cliniche, diligentemente consultate dal perito - la sera del 25 gennaio 1983 all'Ospedale Maggiore San Giovanni Batti­sta di Torino, visitato presso il Pronto Soccorso e il giorno successivo trasferito presso il reparto dell'Eremo, ove viene trattenuto fino al giorno 2 del mese di febbraio, quando viene avviato pres­so la divisione Medicina Generale Lungodegenti dell'ex Ospedale di Loano ora inserita nell'Ospe­dale Santa Corona di Pietra Ligure.

Il motivo del ricovero va ricercato in una ria­cutizzazione di una bronchite ormai cronica, per la quale viene praticata dapprima terapia anti­biotica e poi (verosimilmente in connessione col miglioramento del quadro patologico) terapia li­mitata a somministrazione di farmaci bechici.

Alla data del 16 febbraio 1983 viene disposta la dimissione del paziente.

Il provvedimento viene comunicato (evidente­mente sulla scorta delle indicazioni fornite dal­lo stesso Nosenzo) alla famiglia Longarini, che da tempo provvede alla saltuaria assistenza di lui. Ma gli interpellati manifestano la loro indi­sponibilità a recarsi a Pietra Ligure per ricevere in consegna il dimittendo.

Seguendo, allora, una prassi vigente da tempo e disciplinante i rapporti tra l'Ospedale Molinet­te di Torino e il Santa Corona di Pietra Ligure (che ne costituisce una sorta di reparto distac­cato) il Nosenzo - unitamente agli altri pazienti dimessi per i quali non sia possibile effettuare la consegna a familiari nella sede ligure - viene trasportato, con automezzo messo a disposizione dalla Amministrazione Ospedaliera, a Torino.

Luogo di convegno per lo smistamento dei di­messi è il cortile dell'Ospedale, ove si affollano, intorno all'autobus in arrivo, i familiari in attesa e dove - salvo che nel corso del viaggio non si siano manifestati sintomi di malesseri che, ap­prezzati dall'infermiere addetto al trasporto e ri­feriti ai sanitari, consiglino il perdurare del rico­vero per qualcuno o comunque un temporaneo precauzionale avvio al Pronto Soccorso - il grup­po si scioglie per le più diverse destinazioni.

Il pomeriggio del 16 febbraio 1983, però, non tutti i degenti in arrivo trovano il conforto di una persona cara ad attenderli; e, quando il gruppo si disperde, nella desolazione del cortile rimane, solo, il Nosenzo Stefano, la barba non ben rasa­ta, forse solo sommariamente vestito (sul punto le risultanze istruttorie non hanno fatto piena luce), la valigetta con gli indumenti accanto.

La situazione non può sfuggire al personale ad­detto al controllo; e difatti viene rappresentata, per le decisioni del caso, all'assistente sociale Trombini e poi (poco importa se per una circo­stanza occasionale o perché la Trombini reputa a sua volta di dover richiedere il parere di altra persona più qualificata) all'assistente sanitario Marforio.

E qui si affaccia subito un primo problema, in­trodotto dalla enunciazione del fronte più avan­zato della linea di difesa svolta dagli imputati.

Si è sostenuto, infatti, che essendo stata de­cretata dai sanitari del Santa Corona la dimissio­ne del Nosenzo, nessun ulteriore dovere di cura e di custodia incombeva sulla organizzazione ospedaliera che aveva accolto il Nosenzo a To­rino, posto che solo per esigenze logistiche e per favorire i dimittendi era stato eseguito il trasferimento dal luogo di degenza alla città di residenza.

La tesi è molto ardita, in quanto porterebbe ad­dirittura a qualificare come frutto di generosità e di altruismo (non dettato da norme giuridiche né imposti da canoni di deontologia professiona­le) la successiva attivazione dei due imputati, e a considerare quindi come particolarmente meri­toria anche sotto il profilo umano quella condotta che il capo di imputazione addebita agli stessi come espressione di distaccato e freddo disin­teresse.

Non è chi non veda, però, come siffatta impo­stazione, ancorata ad elementi meramente for­mali (quale il rilascio di certificazione) non si armonizza con la «ratio» che presiede la norma di cui all'art. 591 C.P. e prima ancora con la di­sciplina legislativa del settore sanitario.

Non si dubita della correttezza del presupposto dal quale l'argomentazione difensiva prende le mosse.

Ed invero - a parte la differenziazione inter­na, operata tra persone infraquattordicenni, per le quali vige la presunzione assoluta di inido­neità all'autogestione e persone per altra causa incapaci - la norma di cui all'art. 591 C.P. po­stula, per la sua operatività, un preesistente ob­bligo giuridico dell'agente di curare e custodire la persona. Orbene, che per effetto della vigente disciplina posta a tutela della salute l'obbligo di cura e di custodia gravi in via generale sulla organizzazione ospedaliera non è assolutamente contestabile. Ma è del pari incontestabile che il rapporto, per effetto del quale sorge il dovere di cura e di assistenza da parte dei sanitari pre­posti al servizio e degli altri addetti, cessa sol­tanto con la «effettiva» dimissione del paziente e non già con la redazione del certificato che la legittima e la autorizza.

E se, di norma, la consegna del certificato a mani del dimittendo, ove sia persona in grado di provvedere a se stesso, sostanzialmente coin­cide con la «effettiva» dimissione e fa correla­tivamente cessare ogni ulteriore obbligo di assi­stenza, non può pervenirsi ad identica conclu­sione allorquando, per qualunque causa, la di­missione richieda ulteriori interventi dell'appa­rato sanitario: si pensi, per citare un esempio che funge anche da caso-limite, all'ipotesi che la dimissione non possa avvenire se non median­te trasporto del paziente in ambulanza al proprio domicilio. .

Si vuol dire, cioè, che l'obbligo sancito in via generale si atteggia diversamente in relazione alle singole situazioni concrete, alle quali va mo­dellato. E, mentre l'obbligo di cura sicuramente cessa col venir meno dell'esigenza di protrarre l'assistenza sanitaria connessa al ricovero, non altrettanto può dirsi per quanto attiene all'ob­bligo di custodia, che non può considerarsi esau­rito se non con il concreto effettivo abbandono da parte del paziente del recinto ospedaliero. Con la conseguenza - come si è accennato - che, mentre nella generalità dei casi l'assenso dato al paziente a lasciare l'ospedale (salvo il rispetto di orari o di formalità che chiaramente attengono soltanto all'aspetto organizzativo dell'Ente) svincola i sanitari da ulteriori obblighi nei confronti degli assistiti, in talune ipotesi l'obbli­go assistenziale si estende, nei riguardi di per­sone bisognose di particolare protezione, fino a prevedere le modalità e le forme più appropria­te per il rientro presso il loro domicilio, ed ap­prestare gli eventuali presidi terapeutici occor­renti, a predisporre l'utilizzazione di personale înfermieristico o di attrezzature adeguate.

In sintesi: l'obbligo di assistenza (intesa que­sta espressione come comprensiva del dovere di cura e di custodia) viene a cessare solo allor­quando sia assicurato al paziente il totale rein­tegro delle condizioni psico-fisiche atte a garan­tirne l'autosufficienza. E, quindi, ove tale situa­zione non sia in concreto verificabile (ad es. per il perdurare di uno stato morboso diagnosticato come insanabile; per lo stato di debilitazione con­seguente ad intervento chirurgico ma non neces­sitante di ulteriore ricovero: per postumi invali­danti o, comunque, limitativi della autonomia del soggetto ...) esso si estende fino al momento in cui (realizzatasi, ad es., la consegna del paziente ai familiari) non si trasferisca in caso ad altre persone, a loro volta vincolate per legge o per contratto ad assolvere analoga funzione.

Esempi più vistosi ed eloquenti potrebbero trar­si dalla casistica concernente le dimissioni di pazienti portatori di gravi «handicaps» fisici o sofferenti di disturbi psichici o di malattie men­tali. Nessuno oserebbe certamente affermare che in tali ipotesi l'obbligo di assistenza possa esse­re soddisfatto con la redazione del certificato di dimissione e senza l'ulteriore dovere di provve­dere alla consegna del dimittendo nelle mani di affidatario idoneo.

D'altro canto che questi principi fossero pre­senti alla Direzione sanitaria del nosocomio ri­sulta evidente dal fatto che fosse stato previsto e predisposto un apposito servizio di trasporto dei malati a Torino: servizio - si è concorde­mente sottolineato anche dagli attuali giudicabi­li - organizzato proprio per rendere possibile la consegna dei malati (solitamente lungodegenti ed anziani) ai familiari che non avessero avuto la possibilità di raggiungerli in Pietra Ligure. Quindi è avvertita l'esigenza del materiale affida­mento dei dimittendi a familiari come proie­zione del perdurante obbligo istituzionale di cura e di custodia.

Il problema, allora, è quello di stabilire in con­creto se le condizioni del Nosenzo potessero legittimamente esonerare coloro che dovevano aver cura di lui dall'obbligo di vietargli di lasciare l'Ospedale da solo.

Si perviene, così, al tema centrate dell'attuale procedimento, la cui discussione passa attraver­so due interrogativi: il primo concernente le con­dizioni di salute del Nosenzo, il secondo atti­nente alle modalità della dimissione di lui.

Occorre quindi chiedersi in primo luogo se le condizioni di salute del Nosenzo fossero tali da esigere forme di più accurata protezione.

Una chiara risposta al quesito proviene dalla lettura dei dati illustrati nella perizia medico-­legale in atti, le cui osservazioni non sono state contraddette neppure dal consulente di parte, intervenuto in sede dibattimentale.

Si apprende dall'elaborato peritale che all'atto della visita (effettuata dopo circa tre mesi dall'episodio del quale si discorre) il Nosenzo «pre­sentava discrete condizioni generali, normoter­mia, respiro aspro diffusamente (fl. 12), ipoacu­sia bilaterale con caratteristica propria della oto­sclerosi» (fl. 13). In complesso - è il perito a sottolinearlo - «all'esame delle condizioni fisi­che...» il Nosenzo faceva registrare «uno stato di salute globalmente buono in relazione alla tarda età»; e «reperti in accordo a bronchite cronica, di blande turbe irroratorio arteriose agli arti inferiori, di accenni a lievissima insufficien­za cardiocircolatoria e di modesta ipoacusia» vengono correttamente considerati espressione di «processi patologici non influenzanti la nor­malità fisica globale» (fl. 13).

A conclusioni meno perentorie conduce, per contro, la valutazione del colloquio clinico e del­le prove neuro-psico-diagnostiche: il Nosenzo in­fatti sembra conservare le principali facoltà men­tali superiori, ma denuncia discontinuità nella qualità del pensiero (fl. 14): situazione, questa, che il perito giustamente reputa significativa non tanto di uno stato patologico quanto piuttosto «di una fisiologica riduzione delle prestazioni» (fl. 15).

Sta di fatto, comunque, che, sia pure «in ac­cordo con le caratteristiche psichiche comuni in soggetti della sua età», il Nosenzo appare «li­mitato nelle capacità di adattamento a situazioni ambientali sconosciute» e dimostra una «non completa capacità valutativa sulle reali possibi­lità di organizzazione delle condizioni di vita» (fl. 16).

Ne emerge un quadro caratterizzato, a livello psichico, da «crescente fragilità psico-emotiva, scarsa adattabilità a successive e repentine va­riazioni delle condizioni ambientali, facile sug­gestionabilità, riduzione delle prestazioni nell'e­secuzione dei compiti più complessi» (fl. 17).

Il quadro descritto è chiaramente indicativo di una solo parziale autosufficienza, limitata alle prestazioni semplici ma essenziali della vita quo­tidiana (quali il vestirsi, coricarsi, lavarsi...), con conseguente necessità di assistenza nelle opera­zioni più complesse.

Se si aggiunge, poi, che, in occasione della dimissione dall'Ospedale, il Nosenzo ha dovuto affrontare una serie di situazioni frustranti (di­missione da Pietra Ligure, trasferimento a Tori­no, difficoltà nel contattare persone sconosciute, impossibilità reale o presunta di riappropriarsi del proprio alloggio), vi è quanto basta, da un lato, per spiegare - proprio tenuto conto della segnalata labilità emotiva - la crisi in preda alla quale lo trovarono i primi soccorritori, e dall'al­tro per affermare con pari certezza che in stato di turbamento, di angoscia, di sgomento e di di­sorientamento il Nosenzo dovette dibattersi an­che allorché entrò in contatto con gli attuali giu­dicabili.

Il Nosenzo era, quindi, in una situazione di minorata capacità di autonomia, sicuramente ac­centuata dalle vicende che si andavano snodan­do e che lo chiamavano in causa direttamente come protagonista.

Né ha pregio l'osservazione difensiva, secon­do cui le attività complesse sono quelle che im­pongono scelte tra soluzioni alternative, impe­gnando direttamente le facoltà mentali superiori, mentre, nel caso di specie, il rientrare a casa a bordo di un taxi e lungo un percorso obbligato configurerebbe una tipica attività elementare, re­lativamente allo svolgimento della quale le ca­pacità di autodeterminazione del Nosenzo non sarebbero state compromesse.

L'osservazione si appalesa speditiva ed epi­dermica. Essa infatti omette di considerare che proprio nel momento in cui sarebbe stato scari­cato dal taxi il Nosenzo avrebbe dovuto fronteg­giare le maggiori difficoltà. Ed inoltre si trascu­rano gli elementi più significativi che alla situa­zione, quale descritta freddamente dall'osserva­tore estraneo, si associavano nel caso concreto. Vivere soggettivamente la solitudine glaciale dell'abbandono derivante dalla constatazione della assenza delle persone che avevano costituito il suo punto d'appoggio e di riferimento non poteva non essere sconvolgente e traumatizzante per il Nosenzo; e non stupisce che, pur apparentemen­te sicuro di sé e pur dichiarandosi capace di re­cuperare le chiavi del proprio alloggio, il No­senzo si sia prontamente smarrito davanti alle scale dello stabile e non abbia saputo assumere alcuna determinazione sì da presentarsi indifeso e disorientato ai primi soccorritori.

Nessuna particolare e apprezzabile variazione era intervenuta nel breve lasso di tempo inter­corrente tra l'uscita dall'Ospedale e il raggiungi­mento dell'abitazione, atta a giustificare una rea­zione del Nosenzo assolutamente anomala ed imprevedibile.

La verità è che il turbamento emotivo ha solo evidenziato e messo a nudo una realtà che i pre­venuti dichiarano di avere ignorato e di non essersi potuti con immediatezza rappresentare: e cioè fino a quando il Nosenzo è stato «ogget­to» nelle mani di terzi, che lo hanno trattenuto nei corridoi dell'Ospedale o hanno per conto di lui eseguito le telefonate o hanno provveduto a guidarlo fino a casa, ha risposto con l'unico atteggiamento possibile, ossia con l'acquiescen­za (che è difficile dire quanto fosse deliberata o necessitata); ma non appena la cortina di pro­tezione si è dissolta, il Nosenzo si è ritrovato quella persona che, a cagione della età, era or­mai diventata, ossia la persona incapace di prov­vedere adeguatamente a se stessa, di autoge­stirsi, di muoversi ed orientarsi, di soddisfare i primari bisogni della vita.

Era accaduto, del resto, altre volte al Nosenzo di smarrirsi e di affidarsi all'aiuto di qualche vo­lenteroso per rientrare a casa. Lo riferisce la Longarini, la cui deposizione enuncia, con un linguaggio scevro dal tecnicismo proprio del pe­rito, e spesso con riferimenti ad episodi a lei noti per la lunga dimestichezza col Nosenzo, in­dicazioni del tutto sovrapponibili a quelli ora ri­cordati e desunti dall'elaborato peritale. Riferisce in particolare la donna che col pro­gredire dell'età le condizioni psichiche del No­senzo avevano subìto un notevole deterioramen­to, a far epoca dal dicembre del 1982, tanto che in varie occasioni il Nosenzo non era riuscito a trovare la strada per tornare a casa e lei era dovuta intervenire su sollecitazione di terzi. Ha precisato poi la Longarini che a tale deteriora­mento psichico si era accompagnato un progres­sivo decadimento fisico, per cui le capacità di autogestirsi del Nosenzo si erano venute ancor più affievolendo.

Dalla descrizione della Longarini si ha quindi conferma del quadro delineato dal perito. Significativa ed illuminante è ancora l'annota­zione che figura sul referto di dimissione redatto dai sanitari del Santa Corona di Pietra Ligure, del seguente tenore: «sembra che abbia una perso­na che lo assista, per cui acconsentiamo alla sua richiesta di dimissione».

L'analisi testuale della annotazione non lascia spazio ad equivocità interpretative: il consenso alla dimissione viene fatto discendere dalla as­serita sussistenza di possibilità assistenziali al di fuori dell'ambito ospedaliero. Il che è quanto dire che il sanitario giudica il dimittendo non in grado di provvedere adeguatamente a se stesso e quindi bisognoso di ulteriore appoggio assi­stenziale.

E proprio il dato ora richiamato consente di risolvere anche il quesito circa la rilevabilità delle limitazioni alla capacità di autogestione di cui il Nosenzo sicuramente soffriva.

La degenza del Nosenzo presso l'Ospedale non si era protratta a lungo; i contatti del Nosenzo con i medici curanti non erano stati verosimil­mente né assai frequenti né molto ricorrenti (in quanto legati esclusivamente alle necessità te­rapeutiche derivanti dalla affezione bronchiale di cui il paziente era portatore e che era già stata diagnosticata come cronicizzata); scarse erano state le occasioni per il Nosenzo di palesare le limitazioni connesse al suo stato psico-fisico, posto che la vita di lui si svolgeva in ambiente protetto, che chiaramente riduce i momenti di effettiva autonomia soprattutto quando i pazienti sono persone molto anziane. Ebbene, ad onta di tutto ciò, il medico che redige il referto di dimis­sione ha cura di annotare che la protezione ap­prestata fino a quel momento dal nosocomio deve perdurare alla dimissione; e ciò significa che le ridotte capacità di autogestione erano abbastan­za evidenti e quindi agevolmente rilevabili.

Ed in effetti questa situazione non sfugge alla Trombini, nonostante le contrarie affermazioni di lei. Tant'è che la prevenuta interpella espressa­mente il Nosenzo in ordine alle modalità di pro­grammazione della sua vita futura, ricavando dal colloquio, da un lato, la conferma che il Nosenzo faceva affidamento sulla presenza della signora Longarini quale punto di riferimento e di concreto aiuto, e dall'altro l'impressione che in realtà il rapporto Nosenzo-Longarini fosse turbato da qual­che contrasto (cfr. relazione della Trombini al Sovrintendente Sanitario). Precisa anzi l'impu­tata che, proprio per propiziare il superamento di tale intuita difficoltà (che lei aveva attribuito a motivi di carattere economico), si era premu­rata di segnalare la cosa all'assistente sociale del Centro di Base territorialmente competente, sollecitando una visita domiciliare.

Anche la Trombini, dunque, avverte chiaramen­te che l'assistenza prestatagli dalla Longarini è elemento indispensabile per la vita del Nosenzo; né, a ben riflettere, occorreva molto per giungere a tale conclusione, una volta accertato che il Nosenzo era solo, in età molto avanzata, privo di familiari che lo accogliessero e che nella Lon­garini trovava l'unico anello di congiunzione con la vita di relazione.

Inoltre, sol che ci si fosse doverosamente soffermati un attimo a leggere il referto di dimis­sione (che nessuno degli imputati si è, invece, curato di esaminare), si sarebbe tratto immedia­tamente un ulteriore segnale di allarme circa l'esigenza che fosse assicurata al Nosenzo mag­giore e più adeguata assistenza.

Si aggiunga che, effettuando la telefonata in casa Longarini per conto del Nosenzo, la Trom­bini non poté non acquisire la certezza sia della indisponibilità (almeno momentanea) della fami­glia a provvedere al Nosenzo stesso sia della incapacità di quest'ultimo a gestire direttamente (e senza l'intermediazione della prevenuta) il con­tingente e imprevisto contrattempo.

Agevole risulta poi la replica all'obiezione se­condo cui le condizioni del Nosenzo non avreb­bero denunciato quelle limitazioni che solo in sede di perizia medico-legale si son potute ri­scontrare, non avendo il Nosenzo palesato alcun sintomo di malessere nel corso del viaggio, avendo con chiarezza ed ostinazione espresso il desiderio di far ritorno alla sua abitazione, aven­do con prontezza indicato il proprio recapito ol­tre che l'indirizzo e il numero telefonico della Longarini, essendosi dichiarato disponibile a viag­giare in taxi.

Ancora una volta, infatti, con osservazioni sug­gestive, si finisce col pretermettere la valuta­zione del dato più tipicamente essenziale della vicenda, rappresentato dalla età reale del No­senzo: circostanza che, ad avviso del Collegio, assume ai fini che qui interessano decisivo ri­lievo.

È nozione di comune esperienza che alla vec­chiaia si associano molteplici processi patologi­ci (tanto più numerosi ed imponenti e gravi quan­to più incisiva e penetrante è l'azione devasta­trice degli anni) sì da suggerire, sia pure sul terreno non strettamente medico-scientifico, la definizione della vecchiaia come una forma es­sa stessa di malattia. Orbene, proprio valoriz­zando il data empirico citato, il legislatore ha ipo­tizzato, nella norma di cui all'art. 591 del Codice Penale, la vecchiaia tra le cause limitatrici dell'efficienza psico-fisica del soggetto, corredan­dola di autonoma fisionomia e differenziandola dalla «malattia» di mente o di corpo. E se un margine di elasticità può ammettersi nella de­terminazione del termine cronologico da assume­re come soglia oltre la quale estendere il set­tore della vecchiaia, è certo comunque che tale soglia il Nosenzo aveva abbondantemente oltre­passato.

Dunque: se la vecchiaia è essa stessa - co­me il legislatore ha previsto e come l'esperienza quotidiana insegna - circostanza invalidante (a tal punto che la saggezza popolare non ha man­cato di parificare il vecchio al bambino, anzi di privilegiare il vecchio rispetto al bambino nella gerarchia degli indifesi, allorché ha proverbial­mente tramandato che il vecchio è due volte bambino), sicuramente l'incapacità all'autogestio­ne va rapportata ai diversi livelli di età nell'am­bito della vecchiaia e acquista valori inversa­mente proporzionali a quelli degli anni. Ne de­riva che, allorquando l'invecchiamento della per­sona raggiunge stadi inconsueti, nessun dubbio può sussistere che le facoltà di autonoma gestio­ne del soggetto anche nei più elementari aspetti della vita quotidiana debbano considerarsi di tale ridotta entità da necessitare comunque di un appoggio protettivo, indipendentemente dalla ap­parente relativa integrità delle condizioni di sa­lute del soggetto.

Al di là, quindi, di ulteriori considerazioni cir­ca la rilevabilità di preoccupanti profili patolo­gici desumibili dall'aspetto, dall'atteggiamento o dalla condotta del Nosenzo, l'età di lui - essen­do assai avanzata - imponeva di giudicarlo inca­pace di provvedere a se stesso e bisognoso di quella protezione, di quelle cure e di quell'assi­stenza la cui mancata somministrazione da parte di coloro che abbiano il dovere di fornirle integra la figura delittuosa in esame.

Di tanto, però, non si sono fatti assolutamente carico gli attuali giudicabili, che hanno dimo­strato invece una stupefacente, oltre che ripro­vevole, disinvoltura nel disfarsi frettolosamente di un incomodo personaggio che, forte unicamen­te della sua solitudine, veniva ad intralciare il normale lavoro (all'insegna della «routine») di «smistamento» pressoché automatico dei de­genti in dimissione convogliati, in transito, nel cortile dell'Ospedale.

Quali sono infatti le modalità attraverso le quali si perfeziona lo «scarico» del Nosenzo? La Trombini entra innanzitutto in contatto te­lefonico con casa Longarini: apprende che la fa­miglia è informata della dimissione del Nosenzo, che la signora Longarini Natalina è assente da Torino, che la figlia non è in grado di recarsi in ospedale a prelevare il Nosenzo, che comunque è indisponibile a prestargli assistenza.

Sembra a questo punto che la vicenda non pos­sa essere suscettibile di ulteriori sviluppi. In­vece, aderendo a una richiesta del Nosenzo, la Trombini accerta che nello stabile ove abita la Longarini sono reperibili presso il custode le chiavi dell'appartamento del Nosenzo; questi si dichiara pronto a recuperarle e, dopo un rapido consulto della Trombini col Marforio, un infer­miere viene incaricato di caricare il Nosenzo su un taxi perché raggiunga, solo, la destinazione indicata.

Risulta evidente come la Trombini possedes­se tutti gli elementi per una diagnosi precisa della situazione che si apprestava a risolvere; e gli stessi elementi vengono valutati dal Marfo­rio, il quale assume di avere anche reiterato un colloquio personale col Nosenzo.

Come potevano, allora, i prevenuti ragionevol­mente supporre che, una volta scaricato dal taxi davanti alla propria abitazione, il Nosenzo avreb­be saputo e potuto far fronte ad ogni evenienza? Come potevano i prevenuti pensare (se non ripo­nendo fiducia esclusivamente nella buona sorte) che, difettandogli l'appoggio della Longarini, il Nosenzo avrebbe potuto risolvere eventuali dif­ficoltà, nascenti ad es. dal mancato reperimento del custode delle chiavi dell'alloggio? Come po­tevano fondatamente sperare che il Nosenzo avrebbe potuto, anche se fosse riuscito a recu­perare il proprio alloggio, attendere senza rischi alle ordinarie occupazioni e in particolare a quel­le dettate dalla necessità e urgenza di riprendere il ritmo di vita dopo la parentesi del ricovero ospedaliero?

Interrogativi, questi, che o non si sono affac­ciati alla attenzione dei prevenuti o sono stati frettolosamente superati con una decisione (qua­le quella di avviare il Nosenzo a casa a mezzo taxi) che non solo appare estranea a qualsiasi impulso di umana solidarietà, non solo è stri­dente con i canoni della deontologia professio­nale, ma è altresì violatrice di prescrizioni del Codice Penale poste a presidio dell'integrità e dell'incolumità della persona.

La decisione dei prevenuti, frutto di determi­nazione volontaria adottata con la sicura consa­pevolezza (derivante dalla conoscenza di dati inequivoci di immediata percettibilità) di lascia­re il Nosenzo, una volta scaricato dal taxi, in completa balìa di se stesso integra, pertanto, an­che sotto il profilo soggettivo, la contestata ipo­tesi delittuosa, essendo insito nella situazione descritta quel potenziale stato di pericolo (in­teso come probabiltà della verificazione di eventi lesivi) per l'incolumità dell'incapace, che è la ragione ultima della norma de qua.

Alla luce delle esposte osservazioni si impo­ne, pertanto, l'affermazione di responsabilità de­gli imputati in ordine al reato loro ascritto.

Reputa tuttavia il Collegio che - ove si pre­scinda dalla particolare qualifica degli agenti - il fatto non rivesta connotazioni di particolare gravità, tenuto conto del fatto che l'ostinata in­sistenza con cui il Nosenzo chiedeva di essere restituito al suo domicilio e la manifestata in­sofferenza di lui a protrarre la degenza (esterna­ta già in precedenza alla Longarini e ai sanitari del Santa Corona che acconsentono - come si legge nel più volte citato referto - alla «ri­chiesta» di dimissione) hanno certamente avu­to una parte non secondaria (anche se deviante) nell'orientamento dei poteri decisionali dei pre­venuti, sollecitandone l'accondiscendenza al de­siderio del Nosenzo che non poteva non appa­rire istintivo oltre che legittimo.

Ciò valutato e tenuti presenti gli altri criteri elencati nell'art. 133 C.P., stimasi equo contenere in mesi nove di reclusione la misura della pena base irroganda, riducendola poi in ragione di un terzo per le attenuanti generiche, delle quali gli imputati appaiono meritevoli per la loro incen­suratezza.

Consegue la condanna degli imputati in solido al pagamento delle spese processuali.

La qualifica rivestita dagli imputati, essendo il reato commesso in violazione dei doveri relativi, comporta l'applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per una du­rata che si reputa di fissare nella misura minima edittale.

Potendosi fondatamente presumere che dall'esito della presente vicenda giudiziaria i preve­nuti sapranno trarre adeguati stimoli per evitare ulteriori violazioni della legge penale, si concede ad entrambi il beneficio della sospensione con­dizionale della pena.

P. Q. M.

Visti gli artt. 483 e 488 C.P.P., dichiara Mar­forio Paolo e Trombini Marina colpevoli del reato loro ascritto e, concesse ad entrambi le atte­nuanti generiche, li condanna ciascuno alla pena di mesi sei di reclusione ed entrambi in solido al pagamento delle spese processuali.

Visti gli artt. 28 e 31 C.P., interdice il Marforio e la Trombini dai pubblici uffici per la durata di anni uno.

Visti gli artt. 163 e 164 C.P., concede a entram­bi gli imputati il beneficio della sospensione condizionale della esecuzione della pena.

 

Torino, 28 marzo 1984

IL PRESIDENTE (EST.)

 

 

 

Allegato 1

 

Nota del Dott. Vogliolo, Vice Direttore sanitario dell'Ospedale Molinette

 

Il Sig. Nosenzo Stefano di anni 95, ricoverato presso la Divisione di Medicina Generale della Sede Eremo, fu trasferito presso la Sede per Lungodegenti dell'Ospedale di Pietra Ligure di­retta dal Dottor Giacomasso.

In data 16.2 u.s. venne dimesso non essendo più ritenuta necessaria la sua permanenza in Ospedale.

Il Dottor Pinna, Aiuto della suddetta Divisione, telefonò per avvertire del rientro a Torino alla Sig.ra Longarini, il cui nominativo era stato for­nito dallo stesso Sig. Nosenzo, segnalandola co­me persona da lui delegata per tutelare tutti i suoi effetti bancari.

Assieme ad altri pazienti dimessi Egli giunse alle Molinette verso le ore 17,15 circa.

Come di norma in questi casi venne inviato al domicilio da lui fornito (Via Petrarca presso sig.ra Longarini) in taxi, previa telefonata dell'Assisten­te Sociale Trombini Maria, a casa della suddetta, dove rispose la figlia.

Risulta che il caso del Sig. Nosenzo Stefano adesso è seguito dal Centro Sociale di Via Saluz­zo n. 50, in particolare dalla Assistente Sociale Sig. Allara Giovanna (Tel. 682280).

 

Torino, 1° marzo 1983

 

 

Allegato 2

 

Nota dell'ing. Giulio Poli, Presidente dell'USSL Torino 1-23

 

Con riferimento alla comunicazione verbale del 28 febbraio u.s. relativa ad un telegramma del Geom. Santanera a nome della «Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale» circa le di­missioni del Sig. Stefano Nosenzo, allego copia del pro-memoria in merito fornitomi dal Direttore Sanitario Dott. Vogliolo e dell'articolo apparso sulla «Stampa Sera» del 28.2.83.

Da informazioni assunte personalmente in col­loqui col Dott. Pinna e con l'Assistente Sociale del San Giovanni Sig.ra Antonella Giraudo, ho appreso che la persona interessata non richie­deva ulteriore ricovero in Ospedale, che la Sig.ra Longarini era nota perché visitò alcune volte il Sig. Nosenzo presso l'Ospedale di Pietra Ligure e che la detta persona sembra curi gli interessi patrimoniali e finanziari del Sig. Nosenzo.

 

Torino, 2 marzo 1983

 

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