Prospettive assistenziali, n. 67, luglio - settembre 1984

 

 

ANCORA SENTENZE DI CONDANNA DI OPERATORI ASSISTENZIALI

 

 

Nel numero 64 abbiamo riportato la sentenza di condanna di alcuni operatori della casa di riposo di Mestre.

Nel pubblicare altre due sentenze, ribadiamo l'urgenza di iniziative di vigilanza sulle istituzioni e sugli istituti pubblici e privati di assistenza (1) e la necessità di concrete prese di posizione del­le Confederazioni sindacali e dei sindacati di ca­tegoria e di azienda per una effettiva tutela degli assistiti e in particolare di quelli che non sono in grado di difendersi in modo da togliere ogni pos­sibile spazio operativo al personale che non ri­spetta il diritto degli utenti.

 

 

SENTENZA I

 

Il Tribunale civile e penale di Torino composto da: Walter Maccario, Presidente; Giuseppe De Carolis, Giudice; Arianna Maffiodo, Giudice; ha pronunciato la seguente sentenza nella causa pe­nale contro Cerantola Norma Carolina, nata a Lo­ria il 27.3.1929, residente Torino; Giannetti Luigi, nato a Massa l'1.1.1947, residente Torino; Ceretti Bianca Margherita, nata a Borgo d'Ale il 31.10. 1925, residente Torino, imputati del reato di cui agli artt. 110 e 589 C.P. perché, in concorso tra loro, cagionavano, per colpa, cioè per negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline, la morte di Tu­ninetti Francesco, ricoverato presso l'istituto di Riposo per la Vecchiaia di Torino, dopo che Tuni­netti cadde, nottetempo, entro una fossa esterna all'edificio e corrispondente all'intercapedine esi­stente tra l'edificio medesimo ed il giardino dell'Istituto.

In particolare, Cerantola, quale infermiera di turno, omise la sorveglianza necessaria ad evi­tare che il ricoverato, già in stato d'eccitazione da lei accertato, uscisse all'esterno dell'Istituto durante la notte e potesse, così, precipitare nella fossa, in cui fu poi da essa ritrovato, e perché non prestò subito, dopo il ritrovamento, la neces­saria assistenza, neppur tentando di ripararlo dal freddo con qualche coperta, attesa la momenta­nea impossibilità di tirarlo fuori dal fossato da sola; Giannetti, quale infermiere delegato, chia­mato in aiuto da Cerantola, omise l'assistenza necessaria per riparare dal freddo Tuninetti, dopo aver invano tentato di farlo risalire dal fossato; Cerantola e Giannetti, essendo terminato il loro turno, lasciarono senza indugi il servizio, senza collaborare ulteriormente all'urgente opera di soccorso con l'infermiera del turno successivo Ceretti, ponendola, pertanto, nella necessità di dover chiedere da sola aiuto ad altri colleghi; Ceretti, quale infermiera di turno subentrante a Cerantola, omise le cure e l'assistenza neces­saria a Tuninetti, dopo che il medesimo fu ripor­tato all'interno dell'Istituto, in particolare lascian­dolo per più di un'ora seduto su di una sedia, a fianco di un radiatore dell'impianto di riscalda­mento, avvolto in una coperta, con i vestiti com­pletamente bagnati, fino all'occasionale interven­to di altra infermiera.

In Torino, il 13.1.1978, seguita la morte il 26.1.1978.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

In esito al dibattimento, sulle conclusioni del P.M. e dei difensori, come in atti, il Tribunale os­serva:

Dall'inchiesta amministrativa e dall'istruttoria compiuta dal G.I. é emerso che, la notte del 13.1.78, nell'Istituto di Riposo per la Vecchiaia di C.so Unione Sovietica 220 di Torino, l'infermie­ra Cerantola, con turno di servizio dalle 22 alle 6, si accorse, verso le ore 4,45, che Tuninetti Fran­cesco, ospite nel reparto 2/A dei cronici autosuf­ficienti (che quella notte si era dimostrato molto irrequieto, tanto che la Cerantola aveva più volte dovuto rimetterlo nel letto), non era più nel suo letto.

Alle ore 5,20 circa, avendo inteso delle invo­cazioni di aiuto provenienti dal giardino, la Ce­rantola trovò il Tuninetti in una fossa dell'inter­capedine separante l'edificio dell'Istituto dal giar­dino. È stato accertato che la porta che dalla ca­mera di Tuninetti consentiva il passaggio all'e­sterno non era chiusa a chiave e non lo era mai stata; che la Cerantola cercò la suora Garbin Eli­de al numero interno 52, senza trovarla e, subito dopo, richiese l'aiuto di Giannetti, infermiere ad­detto al reparto 5/A, il quale cercò inutilmente di trarre su dalla fossa Tuninetti; che, subentrate alle 6 l'infermiera Ceretti e conclusosi, quindi, il loro turno di servizio sia della Cerantola che di Giannetti, entrambi questi ultimi andarono via, la­sciando Tuninetti nella fossa ed affidando la situa­zione alla Ceretti. Quest'ultima chiese l'aiuto de­gli infermieri Satta e Lavalle, addetti ad altri re­parti, e costoro riuscirono a tirar fuori dalla fossa ed a riportare dentro Tuninetti tra le ore 6,20 e le 6,40, ora in cui Tuninetti fu messo seduto ac­canto al radiatore dell'impianto di riscaldamento così com'era quale fu trovato nella fossa, cioè con i vestiti bagnati, perché quella notte pioveva e nevicava.

La perizia medico legale ha accertato che la morte del Tuninetti, intervenuta il 26.1.1978, fu dovuta a broncopolmonite, che ebbe discendenza causale univoca e diretta dalla perfrigerazione patita la notte sul 13.1.78, notte che era partico­larmente fredda, con precipitazioni piovose e ne­vose. Non possono esservi dubbi in ordine alla responsabilità di tutti e tre gli imputati per il rea­to loro ascritto. Invero, il comportamento da essi tenuto la notte sul 13.1.78 fu sicuramente impron­tato a negligenza e pressapochismo e denota una notevole mancanza di sensibilità umana.

La Cerantola, pur essendosi accorta già alle 4,45 che il Tuninetti, che quella sera si era dimo­strato particolarmente irrequieto, non era nel suo letto, anziché dare l'allarme per ricercarlo, lasciò passare ben 40 minuti, durante i quali non è dato sapere che cosa ella abbia fatto, prima di accor­gersi, per aver inteso delle grida di aiuto prove­nienti dal giardino, che il vecchio era finito nel­l'intercapedine. A questo punto ella si limitò a chiamare telefonicamente la suora Garbin pres­so il reparto, ma, non avendola trovata, non si preoccupò di cercarla anche presso la casa con­ventuale, dove questa era reperibile dalle 5,30 in poi. Successivamente la Cerantola chiamò il por­tinaio, che era impegnato, e, infine, il Giannetti, il quale ultimo, dopo aver tentato inutilmente da solo di tirare fuori il Tuninetti dalla fossa, anziché darsi da fare, insieme con la Cerantola, per re­perire qualcun altro che potesse aiutarli, pensò bene di andarsene via, insieme con la Cerantola, perché il loro turno finiva alle 6, lasciando tutta la situazione nelle mani dell'infermiera Ceretti, sopraggiunta nel frattempo, in ciò dimostrando un disinteresse totale per le condizioni del vec­chio ricoverato, esposto alla pioggia ed al gelo della notte. appaiono accettabili le giustifica­zioni addotte dagli imputati di aver «perso la testa», posto che il loro comportamento eviden­zia che la loro unica preoccupazione era quella di non trattenersi neanche un minuto oltre l'ora­rio in cui finiva il loro turno e di andarsene via di corsa scaricando sulle spalle di altri la respon­sabilità della situazione.

Quanto alla Ceretti, quando, finalmente, alle 6,40, grazie all'intervento degli infermieri Satta e Lavalle, in servizio presso altri reparti e chia­mati dalla stessa Ceretti, il Tuninetti fu estratto dalla fossa e portato al coperto, zuppo per la pioggia, costei, anziché prendersi immediatamen­te cura del povero vecchio, togliendogli, quanto meno, gli abiti bagnati di dosso e mettendolo a letto al caldo, lo lasciò per almeno venti minuti seduto su di una sedia accanto al radiatore, ba­gnato com'era, senza nemmeno preoccuparsi di chiamare un medico per accertarsi delle sue con­dizioni, e soltanto alle 7 il Tuninetti fu pulito, medicato ad una gamba, dove aveva riportato una escoriazione nella caduta, cambiato integralmen­te di abiti e messo a letto dall'infermiera Ferrero, sopraggiunta nel frattempo.

Appare, pertanto, evidente la responsabilità di tutti e tre gli imputati in ordine al reato loro ascritto. Possono essere concesse a tutti le atte­nuanti generiche, in considerazione dell'incensu­ratezza. Appare, quindi, equo, considerati i crite­ri di cui all'art. 133 C.P., condannare ciascuno de­gli imputati alla pena di mesi otto di reclusione e tutti, in solido, al pagamento delle spese pro­cessuali.

L'assenza di precedenti penali induce a conce­dere a tutti gli imputati i benefici della sospen­sione condizionale della pena e della non menzio­ne della condanna.

P.Q.M.

Visti gli artt. 403, 488 CPP.,

dichiara Cerantola Norma Carolina, Giannetti Luigi e Ceretti Bianca Margherita colpevoli del reato loro ascritto e, concesse a tutti le atte­nuanti generiche, li condanna alla pena di mesi otto di reclusione ciascuno e tutti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

Visti gli artt. 163, 175 CP,

concede alla Cerantola, al Giannetti ed alla Ce­retti i doppi benefici di legge.

Torino, 24.3.1983

 

 

SENTENZA II

 

Il Pretore di Torino ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro Robert An­gela, nata a Torino il 9.5.1953 e Loccisano Giu­seppe, nato a Gioiosa Ionica il 18.9.1954, impu­tati, del reato p. e p. dall'art. 328, 1° co. C.P. perché nella loro qualità di educatori dipendenti della Provincia di Torino e come tali incaricati di pubblico servizio, indebitamente rifiutavano di as­sistere il minore handicappato Zimmardi Roberto nonostante l'ordine di servizio disposto dal supe­riore gerarchico in data 26.8.1982.

Fatto avvenuto in Torino, il 27.8.1982.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con rapporto dell'1.9.1982, presentato alla Pro­cura della Repubblica presso il Tribunale di To­rino, l'Assessore al Personale della Provincia di Torino, Ardito Giorgio, esponeva che, presso l'O­spedale Pediatrico Regina Margherita di Torino, era ricoverato il minore handicappato Zimmardi Roberto, il quale necessitava di assistenza con­tinua sia infermieristica sia generica. Poiché que­st'ultima, ai sensi del mansionario individuato dalla deliberazione della Giunta Provinciale 30.11. 1979 n. 117/8205, rientrava nelle competenze del personale dei servizi assistenziali della Provincia, precisava il rapportante che, con ordine di servi­zio 26.8.1982, a firma dell'Assessore stesso, era stata disposta la temporanea utilizzazione presso l'ospedale, con compiti di assistenza al minore citato, dell'educatore Robert Angela dalle ore 3.00 alle ore 15.15 e dell'educatore Loccisano Giuseppe dalle ore 12.45 alle ore 20.00. Tali edu­catori, ai quali l'ordine di servizio era stato noti­ficato in data 27.8.1982 alle ore 8.35, si rifiutava­no di ottemperarvi.

La Procura della Repubblica trasmetteva gli atti relativi al rapporto sopra indicato alla Pretura di Torino per competenza, riscontrando nei fatti esposti il delitto p. e p. dall'art. 328 C.P.

Questo Pretore, dopo aver svolto un'ampia istruttoria, interrogando entrambi gli imputati ed escutendo numerosi testi, disponeva il rinvio a giudizio di entrambi gli imputati per rispondere del reato di cui in epigrafe.

AI dibattimento tutti i testi sentiti in istruttoria venivano riesaminati e si provvedeva, da parte dell'Ufficio, ad escutere alcune altre persone, compresi i testi indicati dalla difesa. Al termine della discussione odierna il difensore della Pro­vincia di Torino, costituitasi parte civile, conclu­deva chiedendo la condanna di entrambi gli im­putati alle pene di legge ed al risarcimento dei danni morali indicati nella somma di lire 200.000. Il P.M. chiedeva, a sua volta, la condanna di en­trambi gli imputati alla pena di lire 300.000 di multa ciascuno. La difesa dei due imputati, infine, con ampia argomentazione, concludeva in linea di principalità per l'assoluzione di entrambi gli imputati perché il fatto non costituisce reato e, in subordine, per la condanna alla pena pecunia­ria nonché, in estremo subordine, ad una pena de­tentiva sostituita con pena pecuniaria.

 

MOTIVI IN FATTO E DIRITTO

 

All'odierno dibattimento, l'imputata Robert An­gela confermava quanto già dichiarato in istrut­toria, e cioè di essere attualmente, e al momento del fatto, impiegata di ruolo presso l'Amministra­zione Provinciale di Torino dall'anno 1980, di aver ripreso il servizio dopo il periodo feriale il giorno 23.8.1982, di essere venuta a conoscenza, senten­do i discorsi dei colleghi avventizi, ed in partico­lare di Forte Letizia e Taverna Alessandra, della situazione in cui versava il minore Zimmardi. Ag­giungeva di aver così appreso che la prestazione assistenziale richiesta agli operatori di appoggio e agli educatori non poteva essere svolta senza la presenza costante, all'interno del locale dove era ricoverato il minore, di personale infermieri­stico qualificato. Precisava che tale personale in­fermieristico, volontario (A.I.D.A.I.), era stato ef­fettivamente presente fin verso la metà di agosto, quando venne ritirato per ragioni da lei non cono­sciute. Aggiungeva di aver partecipato ad una riunione di operatori e di educatori tenutasi il giorno 24.2.1982, su convocazione del caposervi­zio Caposciutti Giustino, nella quale venne esa­minato il caso alla luce dell'esperienza fino allo­ra svolta. Precisava che la riunione si era conclu­sa senza nulla di fatto in quanto alla richiesta che fosse assicurata la presenza di un infermiere, il dottor Vanara Secondino, funzionario dell'Ammi­nistrazione Provinciale, rispose che tale figura non era necessaria e che la spesa relativa era eccessiva. La Robert dichiarava inoltre di aver ri­cevuto, il giorno 26 agosto, comunicazione telefo­nica relativa alla volontà dell'Amministrazione di predisporre gli ordini di servizio previo sorteggio delle persone; aggiungeva che lo stesso giorno 26 agosto aveva saputo da Calavita Emanuela, de­legata sindacale del C.S.T. (Centro Socio Tera­peutico) di piazza Massaua, che per il giorno 27 era previsto un turno di assistenza a cura della stessa comunità. Lo stesso giorno 26 vi fu una riunione degli operatori ed educatori nel corso della quale i presenti decisero di non aderire all'ordine di servizio. A cura degli stessi venne data comunicazione telefonica all'Amministrazio­ne della decisione sopra riferita. Aggiungeva an­cora la Robert che il giorno 27, dopo la notifica dell'ordine di servizio, aveva inviato una comuni­cazione scritta all'Amministrazione, di cui è co­pia in atti. In tale documento dichiarava «di ri­fiutare il suddetto incarico non essendo questo di mia competenza e non avendo io la preparazione medico-sanitaria necessaria al caso in questione. Infatti, i lavoratori distaccati in questi giorni al Regina Margherita non si sono trovati ad effet­tuare un intervento educativo come era stato loro prospettato, ma in realtà a dover sopperire (senza adeguata preparazione) alle carenze dell'assistenza ospedaliera». Ammetteva infine l'im­putata di non essersi recata presso il minore se non nel pomeriggio del giorno 27, quando vide per la prima volta il minore stesso. Ammetteva anco­ra, su domanda, che nessuno degli educatori inte­ressati al caso, lei compresa, aveva preso atto della documentazione medica relativa alle condi­zioni del soggetto e che conosceva soltanto ge­nericamente l'esistenza di un programma di as­sistenza per tutta la durata di degenza dell'han­dicappato, senza essere informata del suo conte­nuto.

L'imputato Loccisano Giuseppe confermava quanto dichiarato in istruttoria e cioè, in sostanza, quanto già riferito dalla Robert. Precisava che, prendendo parte alla riunione del 24 agosto, ave­va saputo dal dottor Vanara che, secondo l'Am­ministrazione, non era necessaria l'assistenza in­fermieristica volontaria. Essendo tutti i presenti di opposto parere, si decise «di subordinare la prestazione della cura all'handicappato alla con­dizione che l'Amministrazione fornisse l'assisten­za infermieristica». Precisava che le conclusioni raggiunte in seguito al dibattito assembleare ven­nero formalizzate nella lettera con data 26.8.1982 a firma Angela Robert, inviata all'Amministrazio­ne. Precisava che nella riunione del 25 agosto promossa dal caposervizio Caposciutti venne ac­cettato da tutti gli educatori il sistema dell'estra­zione a sorte per individuare i nomi delle due persone che il giorno 27 agosto avrebbero dovu­to prestare servizio. Affermava l'imputato che buona parte dei presenti scrissero essi stessi i loro nomi sui biglietti che dovevano essere estrat­ti a sorte. L'estrazione a sorte venne accettata da tutti perché, in alternativa, il Caposciutti aveva precisato che avrebbe provveduto egli stesso a scegliere le persone necessarie. Aggiungeva l'im­putato che i due nominativi estratti a sorte ven­nero comunicati all'Amministrazione Provinciale, che preparò gli ordini di servizio e che, al momen­to di tale comunicazione, egli aveva la riserva mentale di non adempiere alla prestazione richie­sta. Confermava, infine, di aver inviato all'Ammi­nistrazione una lettera di rifiuto dello stesso te­nore di quella inviata dall'imputata Robert, di cui è copia in atti.

Sentito come teste, il rapportante Ardito Gior­gio, Assessore al Personale e Vicepresidente alla Provincia di Torino, confermava che i due impu­tati erano impiegati di ruolo alle dipendenze della Provincia con la qualifica di educatori e precisava che tale qualifica importa, tra le varie attribuzio­ni, anche quella di provvedere alle mansioni atti­nenti all'igiene personale degli utenti, in quanto non scindibili da un corretto rapporto educativo. Precisava che tali mansioni sono attribuite a tutto il personale che opera nel centro sulla base delle precise disposizioni contenute nella delibera ap­provata dalla Giunta Provinciale di Torino in data 18.1.1980 e tuttora in vigore. Aggiungeva che il nome delle due persone, nei confronti delle quali vennero emessi gli ordini di servizio, gli erano stati trasmessi dai funzionari Vanara Secondino e Gaveglio Elio, essendo risultati da un'estrazione a sorte effettuata dagli stessi educatori fra di loro. Confermava di essersi recato all'ospedale, in seguito alla contestazione del servizio da parte degli operatori, nella mattinata del giorno 25 ago­sto insieme a due funzionari della Provincia, per accertare le effettive necessità di servizio richie­ste dal caso. Ricordava che il giorno stesso il minore era stato sottoposto ad un intervento chi­rurgico di lieve entità. Dichiarava di aver parlato con la caposala Carità Patrizia, la quale gli disse, nel modo più netto, che «le prestazioni sanitarie offerte dall'ospedale erano più che sufficienti e che non era necessario altro personale specia­lizzato». Aggiungeva che il cosiddetto «program­ma», relativo agli impegni del personale della Provincia per il caso Zimmardi, non era mai stato assunto a contenuto formale di un atto di delibera dell'Amministrazione, ma aveva natura di mera proposta avanzata da alcuni funzionari, libera­mente valutabile e derogabile da parte dell'Ammi­nistrazione. Precisava che, in base ai risultati di conoscenza raggiunti in seguito alla sua visita all'ospedale, era emersa la necessità di scegliere come personale di assistenza non più semplici operatori di appoggio bensì educatori di ruolo, due dei quali tra l'altro erano già stati indicati dall'Amministrazione stessa tramite sorteggio.

Assunto come teste, Vanara Secondino, educa­tore con mansioni di capufficio, confermava quan­to dichiarato in istruttoria e cioè, tra l'altro, che è ancora attualmente in vigore la delibera della Giunta Provinciale di Torino in data 18.1.1980 re­lativa a «Caratteristiche operative e metodolo­giche di lavoro dei Centri Socio Terapeutici per handicappati ultra-quattordicenni», la quale pre­vede, in un apposito paragrafo a pagina 5, quanto segue: «Si precisa che le mansioni attinenti all'igiene personale degli utenti, in quanto non scin­dibili da un corretto rapporto educativo, sono at­tribuite a tutto il personale che opera nel cen­tro». Precisava il teste che nella pratica tale di­sposizione risultava essere normalmente appli­cata, dal momento che numerosi utenti handicap­pati sono incontinenti e tocca agli educatori prov­vedere al riguardo. Precisava ancora che l'inter­vento sugli handicappati ultra-quattordicenni pre­senta normalmente difficoltà particolari ed esige una notevole prestazione assistenziale, in parti­colare per i soggetti gravemente colpiti da han­dicap. Aggiungeva che, quando seppe dal coordi­natore del servizio Caposciutti Giustino che gli educatori ed operatori rifiutavano, pur essendo in soprannumero rispetto all'utenza (sei utenti e nove tra educatori e personale di appoggio), di prestare la propria assistenza allo Zimmardi, che si trovava in fase post-operatoria, e presentava problemi di comportamento particolari (aggressi­vità, autolesionismo), si recò a parlare con gli educatori e, avendone ricevuto un rifiuto, fece presente la questione all'Assessore Ardito. Con­fermava il teste che, con l'Assessore stesso e il dottor Gaveglio, si era recato all'ospedale dove, per bocca della caposala Carità, venne accertato che da parte dell'ospedale stesso veniva assicu­rato il servizio infermieristico specializzato e per­tanto agli educatori rimaneva soltanto il residuo compito di carattere educativo-assistenziale volto a garantire una costante presenza fisica presso il malato e a controllarne le forme di comportamen­to al fine di calmarlo ed evitare l'autolesionismo. Precisava il teste di aver partecipato all'assem­blea del 24 agosto nella quale aveva sostenuto che non erano richieste prestazioni infermieri­stiche ma soltanto assistenziali. Confermava che il clima dell'assemblea era unitario nel senso di non accettare eventuali ordini di servizio che non fornissero «certe garanzie». Riferita la situazio­ne all'Assessore, quest'ultimo diede incarico al caposervizio Caposciutti di reperire due persone tra gli educatori da inviare presso il minore il giorno 27 agosto. Aggiungeva di aver partecipato ad una assemblea di operatori tenutasi il 5 ago­sto, nella quale si affrontò anche il caso Zimmar­di. Ricordava che durante tale assemblea si pro­spettò il caso, nel senso che gli operatori sareb­bero intervenuti congiuntamente con gli infermie­ri volontari. Precisava che, quando cessò l'inter­vento degli infermieri stessi, non venne convoca­ta alcuna assemblea degli operatori.

Il teste Gaveglio Elio confermava completa­mente, sia in istruttoria che in dibattimento, le dichiarazioni del Venara.

Emina Lucia, Olivieri Piera, Gonella Rina Maria e Truffo Daniela, le prime tre operatrici di appog­gio, l'ultima educatrice semestrale, sentite come testi, dichiaravano di aver assistito personalmen­te il minore Zimmardi. Il loro compito consisteva nel garantire l'incolumità fisica del minore stes­so, il quale aveva la tendenza a battere la testa contro il muro e la vetrata, era incontinente, ur­lava, era molto agitato, si alzava dal letto, si but­tava per terra. Precisavano tutte le testi che du­rante il servizio qualche volta l'infermiera si af­facciava alla porta del locale dove si trovava lo Zimmardi («due o tre volte nel pomeriggio» dep. istrut. Olivieri) e che, se chiamati, gli infermieri «venivano» (dep. istrut. Emina); «il giorno 26 almeno due infermiere si affacciarono ogni tanto chiedendo se avevamo bisogno di qualcosa e in­vitandoci a chiamarle in caso di necessità» (dep. istrut. Truffo); «il giorno 27, poiché il minore era particolarmente agitato, chiamammo un'infermie­ra che prestò la sua assistenza facendo al ragazzo un'iniezione calmante» (dep. istrut. Gonella); «nella mattinata (del 27 agosto) sono intervenu­te altre due infermiere, una delle quali conosceva il ragazzo e gli parlava, l'altra ci aiutò a rinnovare la fasciatura» (dep. istrut. Gonella).

Le testi Forte Letizia, Boscolo Teresa e Simo­nitto Patrizia, sentite al dibattimento, conferma­vano le difficoltà, già descritte dalle testi assunte in precedenza, relative alla situazione fisico-psi­chica dello Zimmardi. Sia la teste Boscolo che la teste Simonitto dichiaravano di aver prestato as­sistenza al minore congiuntamente all'infermiera volontaria dell'A.I.D.A.I. e, esaminate sul tipo di prestazioni effettuate concretamente da quest'ul­tima, concordemente affermavano che si trattava delle stesse prestazioni richieste agli operatori di appoggio. «Le iniezioni venivano effettuate dall'infermiera dell'ospedale mentre l'infermiera del­l'A.I.D.A.I. faceva ciò che facevo io» (dep. Bo­scolo); «con me vi era sempre un infermiere dell'A.I.D.A.I. che faceva le stesse cose che facevo io» (dep. Simonitto).

La teste Truffo Daniela dichiarava che il giorno 27 agosto, in compagnia della collega Gonella, si era recata presso il minore, secondo l'incarico ricevuto in tal senso nel pomeriggio del giorno 26 dall'educatore Mondo Francesco, che teneva i rapporti tra i funzionari Vanara e Gaveglio e i coordinatori dei vari C.S.T. incaricati dell'assi­stenza del minore. Aggiungeva la Truffo, confer­mando quanto già dichiarato in istruttoria, che, giunte sul posto, trovarono affisso al letto dello Zimmardi un biglietto a firma Olivieri Piera, nel quale si diceva che entrambe dovevano tornare ai rispettivi centri. «Ciononostante non ci allon­tanammo dal malato, perché quest'ultimo non poteva stare da solo nel modo più assoluto. Per­tanto, ci fermammo ancora fino alle 15.00 pre­stando assistenza in modo simile al giorno pri­ma» (dep. istrut. Truffo). La Gonella e la Olivieri confermavano sul punto le dichiarazioni della Truffo. La teste Olivieri precisava che nel pome­riggio del giorno 26, in assenza della Truffo e del­la Gonella, aveva ricevuto una telefonata dal Mon­do Francesco, il quale le disse di avvisare le col­leghe di non presentarsi il giorno dopo. A do­manda dell'Ufficio, la teste Truffo dichiarava a di­battimento che sul biglietto non era scritto che prima di tornare al centro dovessero aspettare l'arrivo dei sostituti, «tanto è vero che ci fermam­mo dopo esserci consultate io e la Gonella, per­ché secondo noi il ragazzo non poteva stare da solo, essendo molto grave». Tutte le testi esa­minate confermavano poi le relazioni scritte, di cui è copia in atti, che sono state lette al dibat­timento e che le testi stesse dichiaravano essere state da loro compilate ed inviate all'Amministra­zione su richiesta di quest'ultima dopo l'episodio del 27 agosto per il quale è processo.

Mondo Francesco, sentito come teste, dichia­rava di avere già in precedenza assistito handicap­pati gravissimi e di non aver trovato alcuna diffe­renza rispetto al caso Zimmardi; aggiungeva che, durante l'assistenza a lui spettante per il caso Zimmardi, non gli era stata mai chiesta alcuna prestazione infermieristica. Precisava ancora che le prestazioni di carattere igienico da lui esplicate nei confronti del minore erano simili a quelle attuate nei confronti degli handicappati as­sistiti nei centri sociali. Dichiarava poi che per il giorno 27 aveva predisposto la presenza delle educatrici Truffo e Gonella ma, dopo aver saputo che erano state incaricate altre due persone, lo stesso giorno aveva dato l'incarico che le prime fossero avvisate di ritornare ai rispettivi centri mediante avviso scritto.

Il teste Barioglio Giuseppe, educatore della Pro­vincia e delegato sindacale, dichiarava di aver preso parte ad una riunione tenutasi il 5.8.1982 avente ad oggetto i casi dei minori Ziglioli e Zim­mardi. Affermava che l'Amministrazione, in tale occasione, presentò il caso Zimmardi come tale da richiedere un semplice intervento degli ope­ratori ed educatori in appoggio agli infermieri del­l'A.I.D.A.I. Seppe in seguito dagli operatori dei C.S.T. di Corso Toscana (Olivieri, Emina e Gonel­la) che il servizio loro richiesto «era più gravo­so» e pertanto prese contatto con il dottor Va­nara per affrontare la questione da un punto di vista sindacale. A domanda specifica il teste di­chiarava che, prima del 27.8.1982, nella trattativa con l'Amministrazione in ordine al caso Zimmar­di, non si fece mai cenno ad un eventuale scio­pero.

Il teste Ponzetto Sergio, rappresentante sinda­cale aziendale dell'Ente Provincia e membro dell'esecutivo dei delegati, dichiarava di essere ve­nuto a conoscenza dei problemi relativi al minore tramite la delegata sindacale Robert soltanto il 24.8.1982. Aggiungeva di avere incontrato casual­mente l'Assessore Ardito e di aver saputo da lui che la situazione del minore presso l'ospedale non costituiva più un problema. Lo stesso giorno 27 agosto, dopo che nella mattinata erano stati rifiutati gli ordini di servizio, si richiese un incon­tro con l'Amministrazione, che avvenne verso le ore 13.30 dello stesso giorno 27. Nel corso della riunione il Sindacato richiese all'Amministrazio­ne «un intervento congiunto o con personale infermieristico o con una compresenza di opera­tori». Dichiarava il teste che l'Amministrazione non accettò tale proposta, avendo l'Assessore ac­certato personalmente, attraverso un colloquio con la caposala Carità, che era sufficiente un solo operatore. Precisava il teste che l'Assessore, du­rante la riunione, aveva dato un giudizio negativo sull'attività svolta fino a quel momento dal perso­nale impegnato nel caso Zimmardi, nel senso che sarebbe stato un errore l'utilizzo di personale di appoggio e precario, mentre il caso avrebbe ri­chiesto un intervento di maggior professionalità.

Il teste Caposciutti Giustino, coordinatore del C.S.T. di via Ormea, dichiarava di aver partecipato all'assemblea tenutasi il 24 agosto a proposito del caso Zimmardi alla presenza del dottor Va­nara. Precisava che, secondo tutti gli intervenuti all'assemblea, il supporto infermieristico offerto dall'ospedale non era sufficiente date le condizio­ni del minore e che pertanto tutti erano d'accordo sulla necessità di un supplemento infermieristi­co. Il giorno 25 agosto, essendo stati richiesti dall'Assessore, tramite il dottor Vanara, i nomi di due educatori, il teste decise di adottare il siste­ma del sorteggio fra gli educatori che non aveva­no ancora prestato servizio. Precisava che tutti i presenti avevano accettato tale metodo di scelta. Essendo stati sorteggiati i nomi dei due imputati, il teste li comunicò al dottor Vanara. Il teste non ricordava se i due imputati, dopo che il loro nome era stato estratto a sorte, avessero o meno det­to che non avrebbero effettuato il servizio richie­sto. Aggiungeva che nel pomeriggio del 26 agosto egli venne convocato dall'Assessore Ardito, il quale si informò da lui sul modo con il quale si erano scelti i due nomi. Subito dopo predispose la formulazione degli ordini di servizio. Il teste continuava dicendo di avere allora avvisato i due imputati dell'ora in cui dovevano prendere servi­zio. La Robert gli disse telefonicamente che non avrebbe intenzione di eseguire l'ordine ed il teste la avvisò che avrebbe ricevuto un ordine di servi­zio scritto. Ed infatti, verso le ore 8.30 del 27 ago­sto, il dottor Vanara consegnava gli ordini di servizio ad entrambi gli imputati. Precisava anco­ra il teste di aver reso noto al dottor Vanara e al dottor Massera, capo del personale, il contenuto della telefonata della Robert.

Sentita a verbale, Carità Patrizia, caposala dell'Ospedale Regina Margherita, confermava di aver avuto un colloquio con due rappresentanti della Provincia, uno dei quali era l'Assessore Ardito, nel corso del quale le venne chiesto se il minore necessitasse o meno di cure infermieristiche al di là di quelle fornite dall'ospedale. La risposta della teste fu che era sufficiente l'assistenza non infermieristica giacché in base ad una valutazio­ne del professor Bardini, richiesta dalla stessa Carità, l'operazione chirurgica era ormai del tut­to esaurita, anche per quanto riguardava gli aspetti infermieristici. Precisava la teste che, sebbene il minore avesse ancora sul corpo la cannula ga­strostomica, che in precedenza era servita a fini alimentari, ormai egli era nutrito per via orale e la cannula era chiusa con un morsetto. Aggiun­geva che, nel caso in cui la cannula fosse stata estratta anche involontariamente dal suo luogo di inserimento, ciò avrebbe comportato un interven­to infermieristico per la ricollocazione, ma non avrebbe dato origine né ad una urgenza partico­lare di tale ricollocazione né a problemi igienico­-sanitari sul soggetto. Infatti, l'apertura della pa­rete addominale attraverso la quale passava la cannula, non necessitava di pulizia particolare non essendovi secrezione alcuna, salvo il cambio giornaliero della garza che circondava l'apertura stessa. Precisava, inoltre, che tale cambio della garza, finché il paziente era in ospedale, avveniva a cura dell'infermiere; una volta rinviato il pazien­te al domicilio, poteva essere addirittura effettua­to dai genitori. Dichiarava ancora la teste che nel mese di agosto erano in servizio, nel reparto dove era ricoverato il minore, una infermiera professio­nale, una infermiera generica e una o due ausilia­rie, per quanto riguarda il turno dalle ore 7 alle ore 15. Nel secondo turno (dalle ore 15 alle ore 23) erano presenti una infermiera professionale, una infermiera generica e una ausiliaria, infine, nel terzo turno (dalle ore 23 alle ore 7), erano presenti due infermiere generiche. La caposala era presente tutti i giorni dalle ore 8 alle ore 16. I degenti del reparto, nel mese di agosto, erano in numero dai 15 ai 25. Non tutti i degenti erano sta­ti operati, essendo in genere il numero di questi ultimi un terzo del totale dei ricoverati. Aggiunge­va la teste che lo Zimmardi era il paziente più grave di tutti gli operati.

Il teste Bardini Tomaso, direttore del reparto, dichiarava di aver effettuato personalmente l'in­tervento di «ernia iettale» il giorno 4.8.1982. Pre­cisava che dopo l'operazione e per tutto il periodo successivo fino al giorno 17 (circa) il minore era assistito, oltre che dal personale sanitario dell'ospedale, anche dal personale infermieristico volontario, a ciò incaricato dalla Provincia, le cui funzioni avevano per contenuto soltanto compor­tamenti di natura, per così dire, «parentale», ri­chiesti dalle caratteristiche cerebropatiche del paziente, con esclusione assoluta di ogni manua­lità infermieristica (ad esempio: medicazione fe­rite, cambio fleboclisi, terapia iniettoria, ecc.). Precisava il teste che la parte di cura riservata al personale infermieristico volontario consisteva nell'occuparsi dell'igiene del minore e nell'espli­care opera di contenimento dei prevedibili com­portamenti autolesionistici di un soggetto forte­mente handicappato. Con il progredire della con­valescenza, diminuivano via via le esigenze infer­mieristico-sanitarie (espletate dal personale dell'ospedale), mentre permanevano quelle curati­vo-parentali. Aggiungeva il teste che l'assistenza infermieristico-volontaria era giustificata soltan­to dalla difficile situazione cerebropatica del mi­nore e non dall'episodio chirurgico. Dichiarava che la cannula gastrostomica, pur essendo man­tenuta in loco, non venne più usata dal 22 agosto. Confermava che l'accudimento imposto dalla can­nula stessa non poneva problemi tecnico-infer­mieristici, mentre le attività di pulizia e applica­zione di alcalinizzanti erano effettuate dal perso­nale dell'ospedale. Precisava ancora che la came­ra dove era ricoverato il minore era adiacente alla sala di medicazione del reparto chirurgico.

Infine, il teste Tiotto Renato, medico assisten­te al reparto chirurgico dell'Ospedale Regina Mar­gherita, dichiarava che il minore Zimmardi, il 25 agosto 1982, venne sottoposto ad una operazione di semplice sostituzione della cannula gastrosto­mica. Ciò avvenne in stato di anestesia totale del paziente, a causa delle sue condizioni cerebropa­tiche e non per ragioni chirurgiche, in quanto il «cambio» della cannula stessa non richiede alcu­na operazione cruenta, trattandosi di un fatto me­ramente meccanico, e cioè la sostituzione della cannula stessa con altra. Confermava infine che il cambio della garza intorno all'apertura ove era collocata la cannula avveniva a cura degli infer­mieri dell'ospedale.

Dalle risultanze probatorie sopra indicate, emerge con sufficiente attendibilità l'intera dina­mica della vicenda oggetto di questo procedi­mento. Tale vicenda inizia con la riunione del 5.8.1982, quando alcuni funzionari dell'Ammini­strazione Provinciale di Torino presentano agli educatori ed operatori di appoggio della Provin­cia il caso Zimmardi, precisando che l'intervento richiesto dovrà essere soprattutto di appoggio alla prestazione degli infermieri volontari del­l'A.I.D.A.I., la cui presenza viene assicurata a cu­ra della Provincia per tutto il periodo di degenza.

L'attuazione concreta dell'intervento da parte degli operatori permette, tuttavia, di accertare che il caso è più difficile e di trattamento più gra­voso di quello descritto nella riunione del 5 ago­sto. Tutte le testimonianze sono infatti concordi nel descrivere il minore Zimmardi come soggetto gravemente handicappato e necessitante di una continua opera di assistenza igienica e di conte­nimento per evitare episodi di autolesionismo. La situazione degli operatori si aggrava quando, per disposizione della Provincia, cessa l'intervento degli infermieri dell'A.I.D.A.I. L'indagine istrutto­ria, soprattutto dibattimentale, ha permesso tut­tavia di mettere in luce una circostanza di fatto di estrema rilevanza per la soluzione del quesito relativo alla responsabilità dei due imputati. In­fatti, dalla deposizione testimoniale del professor Bardini, responsabile sanitario del reparto dove era ricoverato il minore e medico curante del me­desimo, si ricava che la prestazione professiona­le richiesta agli infermieri dell'A.I.D.A.I. non ave­va alcun contenuto tecnico-infermieristico, ma consisteva in una attività di assistenza igienico-­personale e di contenimento del tutto coincidente con quella richiesta agli operatori di appoggio. In altre parole, l'intervento curativo, ivi compreso ogni atto di manualità infermieristica, veniva at­tuato esclusivamente dal personale ospedaliero, medico ed infermieristico, a ciò adibito. Tali di­chiarazioni del professor Bardini venivano piena­mente e puntualmente confermate dalle deposi­zioni testimoniali rese al dibattimento da Boscolo Teresa e Simonitto Patrizia, le quali concordemen­te affermavano che gli infermieri dell'A.I.D.A.I. non espletavano attività diverse da quelle effet­tuate da esse stesse (igiene personale del mino­re e contenimento del medesimo). Del resto, l'as­sistenza infermieristica in senso proprio, assi­curata dal reparto di degenza, appare del tutto sufficiente, e ciò sulla base sia delle dichiarazio­ni dello stesso professor Bardini, sia del rappor­to, indicato dalla caposala Carità Patrizia, tra personale infermieristico dell'ospedale e minori in fase di convalescenza post-operatoria, sia del­le deposizioni testimoniali degli operatori stessi, secondo le quali il personale sanitario era sem­pre reperibile, data anche l'adiacenza del locale in cui si trovava il minore rispetto alla sala di me­dicazione. Se ciò è vero, come indubitabilmente appare dall'ampia indagine svolta sul punto, il peggioramento del carico di lavoro degli opera­tori della Provincia, conseguente al ritiro degli in­fermieri dell'A.I.D.A.I., presenta caratteristiche meramente quantitative e non qualitative nel sen­so che, da quel momento in avanti e come già in precedenza, non furono in alcun modo richieste agli stessi prestazioni tecnico-infermieristiche, evidentemente non di loro competenza. Alla luce di tale situazione di fatto, se da un lato possono essere comprensibili le ragioni psicologiche e sindacali della protesta avanzata prima dagli ope­ratori e poi dagli educatori all'Amministrazione Provinciale in ordine al carico di lavoro, d'altro lato va detto con chiarezza che la motivazione del­la protesta stessa, con riferimento a prestazioni specialistiche e precisamente tecnico-infermieri­stiche richieste in modo indebito, è destituita di ogni fondamento in fatto e si appalesa come un mero ed improprio espediente di contestazione del carico di lavoro. Tale dato di fatto non può al­lora non essere tenuto presente nella valutazione sia dell'assemblea del personale tenutasi il 24 agosto, nel corso della quale il funzionario Vana­ra sostenne la non necessità della presenza di personale infermieristico volontario, sia della mo­tivazione dei due atti di rifiuto notificati all'Am­ministrazione da entrambi gli imputati. Quanto all'assemblea del 24 agosto emerge ora chiara­mente che la sostanza del contrasto non era tan­to quella relativa alla necessità o meno di un intervento specialistico (mai in realtà realizzato in precedenza dagli infermieri A.I.D.A.I.), ma piut­tosto se fosse o meno sufficiente l'intervento «pa­rentale» di un operatore od educatore, dato il carico di lavoro presentato dalle condizioni in cui versava il minore. L'Amministrazione Provinciale riteneva sufficiente la presenza di un solo opera­tore od educatore, mentre il personale interessa­to riteneva ciò insufficiente. Non sta a questo giudice decidere tale questione, ma sta a questo giudice affermare che, in realtà, non era in gioco né da una parte né dall'altra la necessità o meno di un intervento specialistico degli infermieri A.I.D.A.I. Per quanto riguarda la valutazione dell'atto di rifiuto, diventa chiaro che i due imputati non potevano non sapere, dopo aver partecipato all'assemblea del 24 agosto e aver sentito la de­scrizione dell'intervento richiesto agli operatori, che nulla di tecnicamente specialistico era im­posto dall'ordine di servizio.

Alla luce delle considerazioni precedenti, ritie­ne questo giudice che entrambi gli imputati vada­no dichiarati responsabili del reato loro ascritto, in quanto, con il loro comportamento di esplicito rifiuto di un ordine di servizio che imponeva loro una condotta del tutto conforme al mansionario vigente, hanno realizzato certamente gli estremi oggettivi e soggettivi della fattispecie criminosa prevista dall'art. 328 C.P., adducendo, per di più, una motivazione contraria alla situazione di fatto da loro ben conosciuta.

La difesa dei prevenuti ha invece concluso con una richiesta di assoluzione di entrambi perché il fatto non costituisce reato, e ciò in base a diverse linee argomentative, nessuna delle quali può es­sere accolta.

In primo luogo, la tesi difensiva, secondo la quale il delitto contestato costituisce reato di danno e non di semplice pericolo e perciò, non essendosi verificato per il minore alcun danno grazie allo spontaneo attivarsi di due altri dipen­denti, non vi sarebbe stata lesione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice, non merita accoglimento. Se è vero infatti che il reato conte­stato richiede il danno e non il semplice pericolo, è per altro di tutta evidenza che esso costituisce un delitto contro la P.A., sicché il danno da valu­tare é quello relativo al regolare funzionamento del servizio pubblico e non già il danno ulteriore subito dall'utente del servizio stesso. L'eventua­le danno dell'utente potrà aggiungersi al danno dell'Amministrazione, ma quest'ultimo è comun­que sempre presente ogni qualvolta si realizzi la condotta omissiva o commissiva prevista dall'art. 328 C.P., dal momento che non si può avere rego­lare funzionamento del servizio se gli incaricati del medesimo non adempiono gli obblighi relativi. Data la natura dell'interesse tutelato, si può dire cioè che il danno sia «in re ipsa», consistendo esso in nient'altro che nella omissione del ser­vizio dovuto. In secondo luogo, la difesa ha pro­spettato un'argomentazione basata sulla sindaca­bilità dell'ordine sia da parte dei destinatari sia da parte del giudice. Per quanto riguarda il pri­mo aspetto, ha sostenuto la difesa che gli impu­tati ritenevano l'ordine illegittimo in quanto pre­vedeva l'obbligo dell'intervento assistenziale a favore di un handicappato gravissimo, mentre il cosiddetto mansionario non prevede tali tipi di intervento. Risulta però dagli atti di causa che tale qualifica è stata richiamata dall'imputata Ro­bert soltanto al dibattimento, mentre la motiva­zione del rifiuto, quale si ricava dal documento in­viato dagli imputati all'Amministrazione, non fa riferimento alcuno a detta qualifica, richiamando­si unicamente alla necessità di una prestazione infermieristica, il che è indipendente dal grado di gravità dell'handicap e relativo invece all'opera­zione chirurgica subita. Il motivo del rifiuto è cioè storicamente diverso da quello prospettato dalla difesa, pur attenendo in astratto alla legittimità dell'ordine, dal momento che, se fosse vero quan­to sostenevano gli imputati al momento del rifiu­to (e non sostiene più la difesa all'esito dell'istrut­toria dibattimentale), l'atto sarebbe senz'altro da considerare illegittimo. Ma il motivo addotto da­gli imputati al momento del rifiuto è totalmente infondato, come ha dimostrato il dibattimento, e gli imputati non potevano non saperlo, ben co­noscendo essi dalle relazioni dei colleghi che gli infermieri dell'A.I.D.A.I. non fornivano interventi diversi da quelli richiesti agli educatori od ope­ratori di appoggio. Pertanto, in realtà, essi non contestavano la legittimità della prestazione loro richiesta, ma, in buona sostanza, volevano la pre­senza dell'infermiera non per utilizzarne le speci­fiche capacità ma per diminuire il carico di lavoro loro richiesto, dividendolo con l'infermiere stes­so. Il che può essere sindacalmente rilevante ma nulla ha a che fare con la legittimità dell'ordine di servizio. Per quanto riguarda poi la sindacabi­lità dell'ordine da parte del giudice penale, la difesa ha sostenuto che esso sarebbe viziato da eccesso di potere, avendo disposto l'Amministra­zione il servizio a carico dei due imputati non già perché mancasse un precedente «program­ma», ma per giungere ad una prova di forza con il gruppo di educatori ed operatori che conte­stavano il servizio stesso. Tale tesi risulta infon­data in relazione al materiale probatorio presente in atti. Infatti, non si deve dimenticare che l'As­sessore preparò gli ordini di servizio con riferi­mento ai due nomi di educatori estratti a sorte sulla base dell'accettazione dell'estrazione stes­sa da parte di tutti gli interessati. Del resto, l'As­sessore Ardito ha dichiarato, sotto giuramento, che il piano di massima che prevedeva per il gior­no 27 agosto la presenza di due operatori diversi dagli imputati non aveva alcun carattere di uffi­cialità. A ciò si aggiunga che rientra certamente nel potere discrezionale del superiore gerarchi­co non solo mutare il programma di servizio, ma anche decidere, come nel caso di specie, se sia opportuna la presenza di personale maggiormen­te qualificato (educatori di ruolo), proprio in rela­zione alle difficoltà, a lui rappresentate dai pre­cedenti operatori meno esperti, sorte nella trat­tazione del caso Zimmardi. Non si vede quindi quale possa essere lo sviamento di potere denun­ciato dalla difesa. Né si può d'altra parte soste­nere che, sapendo in anticipo che i due educato­ri avevano manifestato l'intenzione di non osser­vare l'ordine di servizio eventualmente disposto, l'insistere nel porre in essere tale ordine costi­tuisca una prova di forza da parte dell'Ammini­strazione. Ciò potrà essere vero, ancora una vol­ta, dal punto di vista sindacale, ma sotto il pro­filo giuridico ciò che conta è solo la correttezza dell'esercizio del potere gerarchico, che non sa­rebbe più tale se trovasse ostacolo nella volon­tà giuridicamente irrilevante dei soggetti dipen­denti.

Infine, la difesa ha sostenuto che il fatto deve ritenersi scriminato, perché realizzato nell'eser­cizio del diritto di sciopero. Osservava infatti la difesa, che l'unanime dichiarazione espressa da parte dei vari educatori interessati al caso Zim­mardi, nel corso dell'assemblea tenutasi il 24 ago­sto, di non osservare l'eventuale ordine di servi­zio, costituisce una decisione collettiva di asten­sione dal lavoro e quindi il comportamento tenuto il giorno 27 agosto dai due imputati andrebbe visto come esercizio del diritto previsto dall'art. 40 Cost. Nemmeno tale tesi sembra meritevole di accoglimento per più di un motivo. Innanzitutto tale dichiarazione è intrinsecamente contraddit­toria perché accompagnata dall'esplicita accetta­zione del metodo di sorteggio per individuare due persone fisiche da indicare alla stessa Ammini­strazione come destinatarie dell'eventuale ordine di servizio. Correttezza e buona fede avrebbero richiesto invece, se l'intenzione era quella di in­dire lo sciopero, di rifiutare lo stesso sorteggio. In secondo luogo, e soprattutto, tale eventuale sciopero non potrebbe avere nessun rilievo in causa perché del tutto illegittimo, essendo i due imputati incaricati di assicurare un servizio es­senziale di assistenza ad un minore gravemente handicappato e nelle condizioni così drammati­che quali quelle diffusamente illustrate al dibat­timento da tutti i testi escussi. Ed infatti in que­sta caso è di tutta evidenza che l'astensione dal lavoro poteva compromettere o porre in pericolo l'incolumità fisica del minore stesso, ledendo in tal modo un preminente diritto individuale (art. 2 Cost.) (cfr. Corte Cost. sent. n. 4/1977; Cass., sez. VI, 19.4.1972).

Va infine osservato che non può neanche trova­re applicazione a favore degli imputati l'ultimo comma dell'art. 59 C.P., come ha ancora prospet­tato la difesa con riferimento sia all'art. 40 Cost., sia alla natura educativa e non meramente «cu­stodiale» della prestazione richiedibile agli im­putati da parte dell'Amministrazione Provinciale. Per quanto riguarda il primo errore, dalle dichia­razioni di entrambi gli imputati, rese sia in istrut­toria sia al dibattimento, mai si ricava che essi abbiano agito nella convinzione erronea di eser­citare il diritto di sciopero, attenendo le dichia­razioni stesse al solo supposto carattere infer­mieristico (in senso tecnico) della prestazione richiesta come giusta causa del loro rifiuto, senza cenno alcuno ad una contestuale azione di scio­pero. Per quanto riguarda il secondo errore, dalle dichiarazioni stesse mai si ricava che gli impu­tati abbiano negato che ad essi si richiedeva an­che una assistenza educativa, ed abbiano quindi considerato l'intervento come meramente «custo­diale» o, all'opposto, esclusivamente infermieri­stico in senso tecnico. Ciò che essi rifiutavano erano i supposti profili infermieristici dell'inter­vento nella sua globalità, perché totalmente estra­neo alle loro competenze. Ma si è visto prima che proprio in relazione agli affermati profili infer­mieristici essi non potevano versare in errore, ben conoscendo il tipo di prestazioni svolte in precedenza dagli infermieri volontari, sostanzial­mente identiche a quelle loro legittimamente ri­chieste. Ancora una volta appare evidente che la ragione del rifiuto era l'eccessivo carico di lavoro, la sua difficoltà, del resto indubitabile, e non la natura della prestazione. Nella vicenda non man­cavano insomma ragioni psicologiche e forse an­che sindacali per la protesta, ma questa avrebbe dovuto imboccare l'unica strada giuridicamente corretta, e cioè la proclamazione netta e non am­bigua dello sciopero con contestuale assicurazio­ne di cautele volte a salvaguardare i diritti invio­labili di sicurezza e integrità fisica del minore handicappato. Invece la vicenda, è finita in un'aula di giustizia, dove il conflitto va risolto alla stre­gua del diritto penale vigente. Rispetto al quale, a parere di questo Pretore, non vi è dubbio che entrambi gli imputati abbiano tenuto un compor­tamento doloso che integra gli estremi del reato loro ascritto e richiede pertanto una dichiarazione di responsabilità.

Pena equa, visto l'art. 133 C.P., sembra essere quella di lire 900.000 di multa, diminuita a lire 600.000 per la concessione delle attenuanti ge­neriche, data l'incensuratezza dei prevenuti. Ri­correndone i presupposti, si concede il beneficio della non menzione della condanna. Gli imputati vanno poi condannati al risarcimento dei danni morali subiti dall'Amministrazione Provinciale, che si liquidano equitativamente nella somma di lire 200.000. La p.c. ha rinunciato alle spese di parte. Gli imputati vanno infine condannati al pa­gamento delle spese processuali. Consegue di diritto l'interdizione temporanea dai pubblici uf­fici.

P.Q.M.

Visti gli artt. 483, 488, c.p.p.,

dichiara entrambi gli imputati responsabili del reato loro ascritto e, concesse le attenuanti ge­neriche ad entrambi, li condanna alla pena di lire 600.000 di multa ciascuno, nonché al pagamento delle spese processuali;

Visti gli artt. 31 e segg. C.P.,

dispone per entrambi l'interdizione temporanea dai pubblici uffici per un periodo di giorni 24;

Visti gli artt. 175 e segg. C.P.,

ordina la non menzione della condanna per en­trambi gli imputati;

condanna entrambi gli imputati al risarcimento dei danni a favore della p.c. costituita che liquida nella somma di lire 200.000.

 

Torino, 7 aprile 1983

IL PRETORE (Dr. Amos Pignatelli)

 

 

 

 

 

 

(1) Cfr. F. SANTANERA, «La vigilanza sulle strutture assistenziali: una funzione essenziale», in Prospettive as­sistenziali, n. 64, ottobre-dicembre 1983.

 

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