Prospettive assistenziali, n. 63, luglio - settembre 1983

 

 

Notizie

 

 

I VECCHI E IL «VESCOVO»

 

Sul 1° numero dell'83 di «Prospettive assisten­ziali» (1) riportavamo il testo dell'esposto in­viato dall'ULCES alle autorità giudiziarie venete inerente le condizioni di vita degli anziani rico­verati nelle case di riposo di Galzignano (Pado­va), Montaner e Tarzo (Treviso), tenute dai padri ortodossi nestoriani di rito assiro.

Il 1° giugno '83, «Mar» (sua beatitudine) Clau­dio, vescovo ortodosso della Assyrian Church of the East, al secolo Bruno Vitorazzo, 47 anni, vie­ne arrestato dai carabinieri: il mandato di cattura parla di maltrattamenti e mancato soccorso agli anziani da lui assistiti. Nelle stesse ore, sempre per ordine della Procura di Padova, viene posta sotto sequestro l'ottocentesca villa San Giorgio di sua proprietà, a Galzignano. Quattro ambulan­ze trasportano gli ultimi 15 anziani negli ospedali di Monselice, Conselve e Piove di Sacco.

Infine, mercoledì 8 giugno, il pretore di Vittorio Veneto ha emesso una ordinanza di allontanamen­to, per motivi preventivi, dei 98 pensionati della Casa di riposo di Tarzo (2).

 

 

UNIONE CIECHI: UNA CANDIDATURA BOCCIATA

 

La nona legislatura della Repubblica italiana vedrà seduto a Montecitorio, fra i nuovi eletti, un deputato completamente privo della vista, ma non è il primo, come i soliti disinformati hanno scritto e detto. Forse non fu il primo neppure quell'illustre senatore romano che, rispettato ed ascoltato, sedette a lungo sui seggi dell'austero senato dell'antica Roma, perché le persone prive della vista hanno saputo affermarsi in ogni tem­po, in ogni luogo e nei campi più disparati, nono­stante le più varie condizioni ambientali, le più strane tradizioni locali, i pregiudizi più assurdi e i preconcetti più irrazionali. Infatti, non è il deficit della funzione che produce l'handicap, os­sia lo svantaggio, ma la società insensibile ai problemi derivanti dal deficit funzionale, la so­cietà distratta e disinformata, la società che nega i mezzi ed i servizi idonei per superarlo: la so­cietà che le cosiddette «associazioni di catego­ria» non aiutano a cambiare nei confronti delle persone portatrici di deficit funzionali, e favori­scono, invece, la persistenza di un atteggiamento emarginante, discriminante e pietisticamente pa­ternalistico, che impedisce la realizzazione di una «effettiva integrazione sociale». Quel depu­tato, però, non è il presidente nazionale dell'u­nione ciechi, davanti alla cui candidatura si è miseramente frantumata la tanto conclamata «compattezza» dei soci dell'unione ciechi. Evi­dentemente, essi non hanno voluto mandare alla Camera chi promuove una politica ottusa e dele­teria che li relega in un mondo a sé stante e li ghettizza nelle istituzioni create su misura; chi è fautore delle pensioni ai neonati privi della vista, incurante delle gravi conseguenze psico­logiche; chi spinge per le pensioni «al solo ti­tolo della minorazione», indipendentemente dal reddito di qualsiasi natura; chi ha sollecitato l'attribuzione gratuita alle persone prive della vi­sta di orologi e di sveglie tattili, di tessere per la circolazione sui pubblici mezzi di trasporto e di tante altre assurdità che alimentano nell'opinione pubblica il pregiudizio ed il pietismo. Ma il fatto che le preferenze riportate dal presidente nazio­nale dell'unione ciechi siano state pochissime è anche una lezione esemplare per quei partiti po­litici che appoggiano le «associazioni di catego­ria» con la recondita speranza di racimolare i voti degli associati senza curarsi minimamente dei loro reali problemi. L'aspetto più grave, co­munque, è che lui, il presidente nazionale dell'unione ciechi, non sappia che le persone prive della vista sono, prima di tutto e soprattutto, «persone» come tutte le altre, e che non si sia reso conto che esse ragionano con la propria te­sta e che quindi non avrebbero mai sacrificato sul suo «altarino» le proprie idee ed i propri convin­cimenti politici. Altrimenti, non avrebbe commes­so la grave scorrettezza e non avrebbe avuto la dabbenaggine di scrivere ai dirigenti regionali e sezionali dell'unione ciechi, in data 19 maggio 1983, la lettera di cui si riporta il brano seguen­te: «Ho accettato la candidatura del partito so­cialista italiano perché è stata la mia militanza naturale, ma dev'essere chiaro per tutti che il mio impegno futuro non potrà mai essere di parte, ma rivolto soltanto agli interessi dei non vedenti e di tutte le persone handicappate che siano dei veri grandi invalidi. Spero quindi che avrò l'ap­poggio di tutti voi al fine di poter vincere un'altra battaglia sotto il segno dell'unità e della com­pattezza che hanno sempre ispirato le nostre lot­te. Il vostro impegno consisterà nel sollecitare tutti i vostri amici e parenti che vivono nelle Province di Roma, Latina, Frosinone e Viterbo a votare la lista del partito socialista italiano (PSI), esprimendo tra le preferenze il mio nome o il corrispondente numero che vi sarà comunicato in seguito. Sarà necessario spiegare da parte vo­stra ai vostri amici e parenti laziali, Rieti esclu­sa, che votando per me non voteranno il partito socialista italiano che mi presenta, qualora essi fossero d'altra opinione politica, bensì il candi­dato che potrà, come in passato, anche da questa nuova posizione dare tutto il suo contributo per ulteriori successi dell'unione italiana dei ciechi per una migliore condizione dei non vedenti ita­liani».

Forse, però, sulla mancata elezione del presi­dente nazionale dell'unione ciechi ha esercitato il suo peso anche la tempesta che da tempo agita sotterraneamente i vertici dell'unione ciechi. Cir­colano accuse di sprechi e di scialacqui, che è difficile ritenere infondate se è vero, come è vero, che il presidente nazionale viaggia con una mac­china di lusso munita di telefono, e che si rimbor­sa mensilmente, per il suo «impegno disinteres­sato», la non trascurabile cifra di un milione e mezzo.

 

GIOVANNI MARCUCCIO

Segretario nazionale del MOLCES

 

 

MILLE BAMBINI TEDESCHI UCCISI OGNI ANNO DAI LORO GENITORI

 

Riportiamo integralmente l'articolo di Mario Ciriello apparso su «La Stampa» del 2 giugno 1983.

 

Sono cifre tremende, crudeli. Circa mille bam­bini muoiono ogni anno in Germania, vittime di percosse o altre violenze inflitte dai genitori: e almeno 30 mila, ma più probabilmente 80 mila, patiscono gravi maltrattamenti, fisici o psicologi­ci. Non è una piaga nuova né recente, in quanto questi foschi numeri compendiano un decennio di statistiche, raccolte e dalle autorità e dall'As­sociazione Das Sichere Haus, «la Casa sicura». È stato uno choc per la Germania, una nazione giustamente fiera della sua profonda evoluzione sociale, dove anzi l'eccezionale declino demogra­fico sembra aver reso il bambino assai più pre­zioso e amato di un tempo.

Bisogna dunque guardare dietro la radiosa fac­ciata. È questo un Paese di piccoli martiri?, do­manda Das Sichere Haus. Purtroppo la risposta sembra essere affermativa: quei mille morti al­l'anno danno alla Repubblica Federale un tragico primato europeo. Anche l'Inghilterra è avvelenata da questo morbo, la «crudeltà contro i bambini» è un assillo eterno, incurabile. Ma, intervistata per telefono, la National society for the preven­tion of cruelty against children, a Londra, è rima­sta senza parola dinanzi alle statistiche tedesche: «In Gran Bretagna i morti sono tra 65 e 75 l'anno. E ci sembrano una moltitudine».

Il fenomeno non conosce, in Germania, frontie­re sociali. Hans Fuhrmann, segretario generale di Das Sichere Haus, spiega che i «piccoli marti­ri» provengono dalle famiglie più diverse, «an­che dalle migliori», anche da quelle con tutti i privilegi. Ma, ovviamente, la brutalità esplode con maggior frequenza laddove la famiglia è pri­gioniera di mali quali la mancanza di lavoro, la carenza di soldi, l'inadeguatezza dell'alloggio, laddove i genitori si sentono sconfitti e esclusi dalla società, laddove l'esasperazione soffoca ogni speranza. Nella maggioranza dei casi, il bam­bino è maltrattato dal padre: ma sovente, in oltre il 31 per cento degli episodi, è vittima della madre.

Hans Fuhrmann è pessimista sul futuro. «È da dieci anni che si spera in un miglioramento: in­vece la situazione peggiora». Perché? Per due motivi, soprattutto. Perché la disoccupazione (vi sono adesso in Germania 2 milioni e 250 mila sen­za lavoro) acuisce tutti gli stress e tutte le paure. Quindi, e questa è forse la causa principale, per­ché «i bambini picchiati, o comunque privati d'affetto, diventano a loro volta genitori aggressi­vi, impazienti, pronti a avventarsi contro i figli». È un circolo vizioso che bisogna spezzare: e si tenta adesso di farlo esortando i cittadini, in par­ticolare gli insegnanti, a segnalare ogni indizio di crudeltà. L'anonimità, garantita dallo Stato, pro­tegge gli informatori.

È un quadro desolante: e lo è ancor più se vi si aggiungono le statistiche sugli abusi sessuali. Nell'81, furono ben 1741, dei quali 69 stupri. Co­me ogni nazione, anche la Germania ha mille vol­ti: e i più meritano adesso rispetto e ammirazio­ne: ma questo rattrista e sgomenta.

 

(1) Cfr. G. BRUGNONE, L'Italia è ancora il paese dei ce­lestini, in «Prospettive assistenziali», n. 61, gennaio-mar­zo 1983, pp. 27 e segg.

(2) Cfr. Quando il vescovo ci mette la coda, in «Pano­rama», 20 giugno '83.

 

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