Prospettive assistenziali, n. 62, aprile - giugno 1983

 

RAPPORTO CENSIS: LA SPESA PER L'ASSISTENZA NON PROVOCA IL DISSESTO DELLA FINANZA PUBBLICA

 

La spesa per l'assistenza - negli ultimi an­ni - non si è gonfiata e non può essere additata, quindi, come causa del dissesto della finanza pub­blica. Lo sostiene il Censis nel suo autorevole rapporto sulla situazione sociale del paese per il 1982 (1) che dedica al problema un intero capi­tolo, con cenni di estremo interesse anche al «nodo» irrisolto della riforma assistenziale.

La spesa sociale, sottolinea anzi il Censis, è insufficiente rispetto alle esigenze del paese e agli standards occidentali ed in ulteriore fase di contenimento negli anni in corso rispetto al Pro­dotto interno lordo (Pil). E ancora: «Se si inizia da dati estremamente aggregati, emerge subito con estrema chiarezza un primo elemento che smentisce un ricorrente luogo comune secondo il quale la spesa sociale ed assistenziale si sa­rebbe dilatata oltre misura, diventando di fatto in­controllabile (...). Si può senz'altro affermare che, in termini reali, in questo ultimo settore si sia verificato addirittura un calo della spesa». Altre considerazioni interessanti - si è det­to - sono quelle relative all'esigenza di riforma del settore assistenziale, alla necessità di una legge quadro che affronti tra l'altro anche il nodo delle IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza): «La trasformazione in Enti morali di buona parte delle IPAB precedentemente desti­nate al trasferimento ai Comuni - osserva il Censis - comporta che circa 6.000 istituti di ri­covero, che gestiscono circa il 40 per cento dei ricoveri in Italia, diventino istituto di diritto pri­vato, e sfuggano alla pubblicizzazione».

Dal rapporto Censis riportiamo integralmente i paragrafi: «Il nodo legislativo della riforma e l'evoluzione organizzativa del settore»; «Il per­sonale dei servizi socio-assistenziali».

 

 

Il nodo legislativo della riforma e l'evoluzione organizzativa del settore

 

Il passaggio agli Enti locali delle funzioni assi­stenziali precedentemente gestite centralmente attraverso il Dpr 616 del 1977, che anticipava al­cuni elementi della riforma del settore, sembrava dover aprire a livello nazionale una fase decisiva di ripensamento e di dibattito sui bisogni sociali e sulle modalità e i contenuti delle risposte da darvi. A cinque anni dall'emanazione del decreto e senza che sia stata ancora approvata la legge quadro nazionale, il dibattito appare arenato su rigide contrapposizioni tra le forze politiche, men­tre la riorganizzazione funzionale del settore avanza a passi troppo lenti.

Anche l'attenzione complessiva nei confronti dei nodi sempre più urgenti dei bisogni sociali sembra in forte calo nell'attuale congiuntura, mentre si fa strada una sfiducia sempre più mar­cata nelle possibilità di ridare efficienza e credi­bilità al sistema assistenziale che permane per­vaso da vecchie e nuove contraddizioni.

Tra le vecchie non va dimenticato che la spesa sociale è insufficiente rispetto alle esigenze del paese e agli standards occidentali ed in ulteriore fase di contenimento negli anni in corso rispetto al Prodotto Interno Lordo. È poi ancora oggi for­temente impegnata dalle spese di tipo previden­ziale, che da sempre prevalgono sull'erogazione dei servizi. Se a ciò si aggiunge l'aumento negli ultimi anni della quota dei trasferimenti alle im­prese, che consistono in buona parte in contributi per la spesa corrente, risulta evidente il carattere prevalentemente assistenziale della spesa socia­le italiana, che funziona sia secondo modelli an­tichi e ormai consolidati, sia con forme nuove, come il garantismo nei confronti della forza la­voro stabilizzata.

Un secondo aspetto è quello della rimozione. Nonostante i processi di presa di coscienza che hanno percorso il paese negli ultimi 15 anni ri­spetto alle esigenze e ai problemi delle categorie più svantaggiate sul piano dei bisogni sociali (handicappati, orfani, anziani, ecc.), permangono nel corpo sociale livelli elevati di rimozione ri­spetto agli aspetti più scomodi e sgradevoli dell'emarginazione vecchia e nuova (si pensi alle nuove categorie dei tossicodipendenti e dei de­vianti).

Gli interventi sono di conseguenza spesso ca­renti o rifuggono, là dove esistono, da soluzioni razionali e in grado di sfruttare le risorse insite nella società civile, muovendosi in un'ottica che oscilla tra la monetizzazione di bisogni anche gravi, e compresi nella fascia delle esigenze mi­nime di base della popolazione, e l'istituzionaliz­zazione dell'utente in strutture che lo enucleano ed isolano completamente dall'ambiente di pro­venienza.

Tra le contraddizioni di vecchia data va infine considerato che il nostro sistema assistenziale è ancora oggi caratterizzato in molte realtà da inef­ficienza e discrezionalità tali da scoraggiare dal servirsene. Si arriva così all'assurdo di forme diffuse di duplicazione di servizi di base e di creazione di un mercato parallelo cui si rivolgono coloro che non riescono ad ottenere dall'assisten­za pubblica le prestazioni richieste, o non sono soddisfatti degli standards offerti.

Per quanto riguarda le contraddizioni di tipo nuovo, lo sviluppo economico e il diffondersi di una cultura di tipo industriale hanno determinato anche in Italia una progressiva crescita e burocra­tizzazione del sistema assistenziale, che ne han­no sempre più accentuato i caratteri di separa­zione tra utenza e apparato, di delega, di setto­rializzazione e standardizzazione esasperate dei bisogni e delle risposte ai bisogni, di spersonaliz­zazione dei rapporti e dei problemi.

Il nodo di fondo della crisi del sistema assi­stenziale italiano sta proprio nell'incapacità di un sistema rigido e poco agile di rispondere ai bisogni di una società post-industriale, che si pre­sentano sempre più articolati, individualizzati, in­trecciati. Di una società che reclama partecipa­zione e coinvolgimento nella gestione dei propri problemi e di quelli del proprio ambiente, perso­nalizzazione delle risposte e possibilità di scel­ta tra offerte di vario tipo, livello e tendenza, fles­sibilità e attenzione alle situazioni di emargina­zione nel loro complesso, qualità della vita più elevata e risposta a bisogni sempre più sofi­sticati.

Di fronte ad una realtà assistenziale che ha bisogno di recuperare rapidamente funzionalità, efficienza e professionalità e di arrivare accanto alla razionalizzazione dell'esistente all'individua­zione di nuove chiavi di flessibilità e di articola­zione, il dibattito parlamentare sulla legge quadro appare bloccato su livelli di conflittualità ideolo­gica, centrati sulla contrapposizione pubblico-pri­vato, e su quelle che logicamente ne derivano: ricovero - servizi alternativi, risposte per le ca­tegorie - approccio globalizzante, mentre a ben vedere la realtà sociale pone problemi che attra­versano trasversalmente i binomi e le contrappo­sizioni e chiedono sia al «pubblico» che al «pri­vato» la capacità di andare al di là dei vecchi schemi e di concepire forme nuove, sia istituzio­nali che alternative, di servizio ai portatori di par­ticolari bisogni sociali.

L'approvazione nel febbraio di questo anno in sede di Commissione Parlamentare di alcuni emendamenti al Testo Unico in discussione, che autorizzano la trasformazione in Enti Morali di buona parte delle IPAB precedentemente desti­nate al trasferimento ai Comuni, è l'ultimo atto dello scontro. Esso comporta che circa 6.000 isti­tuti di ricovero, che gestiscono circa il 40% dei ricoveri in Italia, diventino istituti di diritto pri­vato, e sfuggano alla pubblicizzazione che, con il trasferimento ai Comuni, era stata prefigurata e preparata a seguito del DPR 616.

Mentre dunque ci si scontra per conquistare o mantenere la gestione di fette sempre più grandi di servizi, non ci si rende conto che il rapporto tra pubblico e privato non si pone più in questi termini, ma deve vedere il pubblico capace di definire il quadro complessivo di riferimento e di gestire i servizi di base con efficienza e profes­sionalità, ed il privato volto per la sua agilità e per il suo ruolo non istituzionale a rispondere ai bisogni più nuovi e sofisticati che la società esprime, nel quadro delle linee di intervento pub­blicamente definite e prevedendo forme articola­te di partecipazione dell'utenza alla spesa.

La miopia rispetto ai problemi della partecipa­zione privata alla realizzazione di forme adeguate di assistenza sociale emerge anche dalla formu­lazione data all'articolo relativo al volontariato nel testo in discussione al Parlamento (art. 13), secondo il quale le possibilità di utilizzazione dell'apparato volontario dei cittadini vengono limi­tate alle «associazioni» e alle «altre istituzioni di volontariato» escludendo quindi i singoli in­dividui o le famiglie dal novero dei possibili con­tributi della società al sistema dei servizi locali.

Anche su altre questioni il Testo Unico risulta carente o fuorviante rispetto ai problemi della si­stemazione del settore.

1) Non si fa ad esempio alcuno sforzo di defi­nizione dei servizi sociali e dei settori di inter­vento, lasciando alla programmazione periodica governativa e regionale, e quindi rimandando, l'impegno di chiarire le scelte rispetto alle tipo­logie di servizi.

2) Deferisce tutta l'assistenza al Ministero del­la Sanità, sia per quanto riguarda le funzioni dello Stato, sia per le funzioni di consulenza al gover­no da espletare da parte del Consiglio Nazionale della Sanità e dei servizi Sociali, non consideran­do il problema della salvaguardia di una cultura specifica di settore e della autonomia dei servizi sociali rispetto a quelli sanitari, pur nel necessa­rio coordinamento.

Anche questo importante aspetto viene affi­dato alle Regioni che devono assicurare «l'auto­nomia tecnico-funzionale dei servizi sociali, non­ché la distinzione contabile della gestione dei servizi sociali».

3) Non opera una scelta rispetto agli organi di gestione da proporre ai servizi sociali a livello locale, che possono essere, secondo il dettato della legge, i comuni singoli o associati o «gli organismi di decentramento comunale».

4) Non affronta il nodo del personale, della sua formazione, del suo ruolo giuridico e delle cate­gorie professionali, rimandando a momento suc­cessivo «la determinazione dei profili professio­nali degli operatori sociali» e delegando nuova­mente alle Regioni il finanziamento dei piani per la formazione e l'aggiornamento del personale.

5) Rimanda anche la questione della definizio­ne degli indici e degli standards per la ripartizio­ne dei finanziamenti, affidandone l'elaborazione al Consiglio Nazionale della Sanità e dei Servizi Sociali.

Anche se, superando lo scoglio dello scontro sulle IPAB e sul ruolo delle istituzioni private nel campo dei servizi sociali, si arrivasse all'ap­provazione di questa legge quadro, sarebbero an­cora molte le questioni di fondo lasciate irrisolte.

Va inoltre considerata la mancata attuazione degli altri atti normativi previsti per la definizio­ne del funzionamento della macchina pubblica, in particolare quella relativa alla finanza e alle auto­nomie locali, per capire come la situazione a livel­lo nazionale sia determinata dalla mancanza di orientamenti e indirizzi certi, sia sul versante del­la razionalizzazione ed efficientizzazione dei ser­vizi di base sia ancor più su quello della indivi­duazione di nuove risposte per i nuovi bisogni emergenti.

Sul versante regionale per contro la realtà de­gli interventi è caratterizzata da un ventaglio di situazioni differenti tra loro per stato di avanza­mento dei progetti e per indirizzo, che vanno dal­la gestione dei servizi da parte dei Comuni secon­do le categorie di assistibili e le modalità pre­cedenti al DPR 616, fino alla realizzazione di ogni intervento da parte delle Unità Sanitarie Locali. Queste a loro volta lavorano in alcuni casi in stretta collaborazione con i comuni o le associa­zioni di comuni, mentre in altri stanno mostrando la tendenza a diventare organismi prevalentemen­te autonomi e separati.

(omissis)

 

Il rallentamento della spesa socio-assistenziale

 

L'elemento di maggiore evidenza per chi si occupa di indagare la realtà della spesa socio­assistenziale, è l'estrema difficoltà di poter giun­gere a valori complessivi che diano realmente il polso di come il comparto si vada evolvendo e ciò per due motivi di fondo:

- la mancata definizione di cosa esattamente si intenda per attività socio-assistenziale, con una precisa demarcazione tra questa e altre forme di assistenza (specialmente quella sanitaria);

- l'eterogeneità delle fonti di spesa, spesso non chiaramente identificabili.

Pur con questi limiti si può tuttavia tentare di delineare un primo quadro, necessariamente non esaustivo, di come tale spesa si sia evoluta negli ultimi anni.

Se si inizia da dati estremamente aggregati emerge subito con estrema chiarezza un primo elemento che smentisce un ricorrente luogo co­mune secondo il quale la spesa sociale ed assi­stenziale si sarebbe dilatata oltre misura, diven­tando di fatto incontrollabile.

Se si prende infatti in esame il quinquennio 1976-1980 e l'evoluzione intervenuta in tale pe­riodo nella spesa sociale (comprensiva di previ­denza, sanità ed assistenza) si osserva che:

- la spesa complessiva passa dai 35.389 mi­liardi del 1976 ai 76.867 miliardi del 1980 con un incremento percentuale pari al 117%;

- lo stesso incremento calcolato su valori di spesa depurati dall'incidenza dell'inflazione e quindi reale è però di gran lunga inferiore, e ri­sulta pari a + 4,1%;

- i settori di spesa si evolvono in modo diffe­renziato: il trend più rapido è quello della spesa previdenziale (+ 125%) seguito dall'assisten­za sanitaria (+ 109%) ed infine dall'assistenza (+ 86%); si può senz'altro affermare che, in termini reali, in quest'ultimo settore si sia veri­ficato addirittura un calo della spesa.

Un'analisi più attenta della composizione inter­na della spesa sociale consente di rilevare come, nel medesimo arco di tempo, a fronte di un au­mento di peso della spesa previdenziale (che pas­sa dal 62,5% del totale al 64,8%) vi è una pro­gressiva perdita di peso della spesa sanitaria (dal 28,8% al 27,8%) e di quella assistenziale (dall'8,7% al 7,4%).

Tutto ciò conferma che il settore dell'assisten­za si è evoluto in modo diverso dagli altri com­parti della spesa sociale ed anzi abbia fatto regi­strare una sostanziale stasi con qualche sintomo di involuzione (2).

Il rapporto tra spesa sociale e prodotto interno lordo (P.I.L.) dimostra tra il 1975 ed il 1981 ten­denze simili a quelle fin qui evidenziate (v. tab. 1). Tale rapporto passa infatti dal 20,6% al 22,9%. In questo quadro di riferimento la stessa spesa socio-assistenziale subisce una lieve contrazione e passa dall'1,6% all'1,4%.

Di un certo interesse può risultare un esame dell'andamento della spesa articolato per livelli; più in particolare l'esame va condotto su quattro livelli: Stato, Regioni, Province e Comuni.

Per quanto riguarda l'amministrazione centrale dello Stato si hanno dati solamente fino al 1979. Tra il 1971 ed il 1979 i pagamenti relativi alla spe­sa socio-assistenziale passano da 246,2 a 457,2 miliardi di lire correnti con un incremento per­centuale dell'85,7%. Se si trasformano tali dati in lire 1970 attraverso opportuni indici di deflazione, la spesa è valutabile in 234,5 miliardi nel 1971 ed in 143,2 miliardi nel 1979: è così palese che ci si trova di fronte ad un sensibile decremento dell'impegno statale, misurabile in un - 38,9%. Ta­le dato va però correttamente interpretato: in parte il decremento è certo dovuto a una ridu­zione in senso assoluto della spesa, ma molto più consistente è il decremento dovuto allo sposta­mento dei centri di spesa dovuto ai decreti di trasferimento delle funzioni alle Regioni a segui­to del D.P.R. n. 616/77.

Sempre con riferimento alla spesa statale è interessante evidenziare come essa si suddivide nei vari anni tra i diversi settori di intervento (v. tab. 2). L'esame dei dati evidenzia che se si escludono le «altre categorie», che costante­mente dal 1977 in poi assorbono la maggior parte della spesa:

- una quota costantemente elevata è desti­nata agli interventi aventi come oggetto il diritto allo studio;

- una forte riduzione del peso percentuale (dal 15,2% del 1971 al 3,7% del 1979) si riscontra nel settore handicappati (3);

- oscillante è l'impegno in tema di calamità naturali con una punta massima del 5,5% nel 1977;

- col 1978 cessano i contributi ad enti vari come effetto dei trasferimenti di funzioni alle Regioni;

- mentre una consistente quota della spesa del 1979 viene destinata alla tutela materno-in­fantile (28,7%).

 

 

Tabella 1 - Quanto costa il «Welfare State»

                                               

(Spesa sociale erogata dalla Pubblica Amministrazione)

                                   

Voci di spesa                                     1975       1976       1977       1978       1979       1980       1981

Percentuali rispetto al prodotto lordo interno                                                                      

Sanità                                                5,7          5,6          5,6          5,7          6,0          5,7          5,8

Previdenza                                         13,3        13,3        13,1        14,2        14,1        14,1        15,7

Assistenza                                         1,6          1,6          1,5          1,5          1,4          1,3          1,4

Totale spesa sociale                           20,6        20,5        20,1        21,3        21,5        21,1        22,9

Percentuali rispetto alle entrate correnti della Pubblica Amministrazione                            

Sanità                                                17,8        16,6        15,9        15,5        16,6        15,0        14,8

Previdenza                                         41,7        39,4        37,5        38,7        38,6        37,0        40,0

Assistenza                                         5,0          4,6          4,3          4,0          3,9          3,4          3,5

Totale spesa sociale                           64,5        60,7        57,7        58,2        59,1        55,4        58,3

 

Fonte: elaborazione Censis su dati Istat.                                                                                                         

 

 

Tabella 2 - Amministrazione centrale dello Sta­to: spesa socio-assistenziale per set­tori omogenei di intervento (Valori percentuali)

                                                                      

Settori                                               1971       1977       1978       1979

Tutela materno-infantile                       -             1,1          -             28,7

Contributi Enti vari                               14,5        15,6        13,3        -

Emigrati                                             0,4          0,3          0,4          0,3

Handicappati                                      15,2        6,0          4,3          3,7

Calamità naturali                                 1,2          5,5          0,9          1,1

Diritto allo studio                                 15,4        15,0        10,4        12,9

Altre categorie                                    36,2        56,5        70,7        53,3

 

Fonte: elaborazione Censis su dati del Ministero del Tesoro.

 

 

Il panorama descritto evidenzia un fatto essen­ziale e cioè come gran parte della responsabilità di spesa nel settore socio-assistenziale non sia più di competenza dell'amministrazione centrale ma dipenda da decisioni prese a livello decen­trato.

Per quanto attiene alla spesa sostenuta da Re­gioni, Province e Comuni si dispone di dati ag­giornati al 1981 che si riferiscono però alla spesa aggregata e riferita in modo generico al «campo sociale».

Mancano così elementi specifici di riferimento ai singoli settori di spesa. Va comunque tenuto presente che una parte predominante è dovuta alla spesa sanitaria.

Tra il 1978 ed il 1981 i valori complessivi di spesa di Regioni ed enti locali passano da 10.107 a 27.688 miliardi di lire correnti con un incremen­to percentuale del 173,9%; va tenuto presente che tale percentuale, di per sé elevata, va in realtà considerata con cautela per almeno due motivi: il primo è che si riferisce appunto a va­lori correnti e quindi relativamente «falsati» dal fattore inflazione, il secondo è che l'aumento, consistente anche in termini reali non corrispon­de a un aumento dell'offerta dei servizi, ma più semplicemente all'assunzione da parte di questi enti di responsabilità di spesa prima accentrate a livello di amministrazione statale.

Un'analisi più attenta e più articolata dei dati proposti permette di cogliere significative diffe­renze tra le modalità di spesa dei diversi enti:

- il soggetto di spesa predominante è costan­temente la Regione (56,5% nel 1978 e 69,8% nel 1981), mentre decresce il peso di Province (dall'8,0% al 4,1%) e Comuni (dal 35,5% al 26,1%);

- i trends sono comunque in crescita, seppure in modo differenziato: + 238% per le Regioni, + 42% per le Province e + 101 % per i Comuni; in valori reali si può affermare che solo a livello

regionale si ha un reale incremento di spesa, mentre per gli altri enti il trend o è sostanzial­mente piatto (Comuni) oppure segna una contra­zione della spesa (Province);

- se si esamina la composizione della spesa e dunque la sua articolazione in spesa corrente ed in conto capitale si osserva infine come in tutti gli anni esaminati sono i Comuni gli enti più attivi sul piano degli investimenti, cui desti­nano quote crescenti della propria spesa (dal 15,8% del 1978 al 29,6% del 1981); per quanto si riferisce alle Regioni la loro capacità di investi­mento è ridotta e in netto calo (dal 6,4% del 1978 al 4,8% del 1981); più complessa la situa­zione a livello provinciale: i valori percentuali della spesa in conto capitale sul totale della spe­sa sono estremamente oscillanti (si passa da un massimo dell'8,6% del 1979 all'1% dell'anno suc­cessivo), segno anch'esso della posizione ancora non chiaramente delineata di questo ente nel quadro organizzativo degli enti locali.

Come già più sopra si avvertiva è assai diffi­cile ottenere qualsiasi tipo di disaggregazione dei dati proposti; per il 1979 si può comunque considerare, per un numero non completo di re­gioni, la spesa socio-assistenziale pro-capite (v. tab. 3). È evidente come esistano differenze macroscopiche tra una realtà territoriale e l'al­tra; si va dalle 14.549 lire dell'Emilia Romagna alle 1.318 lire del Veneto. Molti motivi contribui­scono senza dubbio a questo risultato (diversa capacità di spesa, livello di deleghe agli enti lo­cali, ecc.); resta tuttavia l'esigenza di un chiari­mento del quadro degli interventi, dell'articola­zione delle competenze, dei criteri di spesa. Il settore non pone certo problemi di aggravio del­la spesa pubblica; il problema di fondo è la «in­cisività» della spesa che oggi, dispersa in mille rivoli e non governata da criteri uniformi su tut­to il territorio, rischia fenomeni di dispersione e veri e propri sprechi. Un chiaro indicatore della relativa confusione esistente in materia è anche la mancanza della semplice classificazione degli interventi e la conseguente inesistenza di dati che consentano un esame approfondito degli stessi.

 

 

Tabella 3 - Spesa socio-assistenziale per abitante 1979 (in lire correnti)

 

Regione                                                  Spesa/abitante

Piemonte                                                11.244

Lombardia                                               9.335

Veneto                                                   1.318

Liguria                                                    19.116

Emilia Romagna                                      14.549

Toscana                                                 6.439

Umbria                                                   10.384

Marche                                                   5.170

Abruzzo                                                  12.128

Molise                                                    14.424

 

Fonte: elaborazione Censis su dati regionali.

 

 

Il personale dei servizi socio-assistenziali

 

La carenza di dati e spesso la parzialità o ad­dirittura la inattendibilità di quelli disponibili è caratteristica che si sente ben presente anche per quanto si riferisce al personale impiegato nei servizi socio-assistenziali. È così che in questo primo tentativo di render conto della situazione in cui versa il settore socio-assistenziale ci si dovrà accontentare di un quadro frammentario e, per molti versi, incompleto.

Per quanto si riferisce agli istituti di ricovero (v. tab. 4) non si dispone di dati globali posteriori al 1976; a questa data i dipendenti di tali strut­ture erano 92.078 e, rispetto all'anno precedente, avevano subito una contrazione pari al 2,4%. Di questi, il 53,4% operava in istituti pubblici ed il rimanente 46,6% in strutture private. Se si suddi­vide invece tale dato globale per tipologie di isti­tuto si scopre come l'83,7% sia attivo in istituti che si occupano di una sola categoria di assistiti (minori normali, ciechi, sordomuti, ecc.), il 21,1% dipenda da istituti che si occupano di più cate­gorie di assistiti ed il rimanente 4,2% lavori nelle colonie permanenti.

Un'analisi più articolata dei dati evidenzia poi che:

- solo le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza incrementano, se pure di poco, il loro personale (+ 0,4%), mentre in netto calo sono tanto gli istituti dipendenti da enti pubblici quanto gli istituti privati;

- tra le diverse categorie di istituti, solo quel­li che si occupano di più categorie di assistiti registrano un incremento sensibile di occupati (+ 10,0%) mentre decrescono i dipendenti delle colonie permanenti, ad eccezione di quelle mon­tane (+ 18,5%) e degli istituti con una sola ca­tegoria di assistiti anche qui con l'eccezione di quelli che si occupano di adulti inabili e di an­ziani (+ 0,6%) e quelli classificati come «altre categorie» (+ 6,8%).

Il complesso di questi dati non permette certo interpretazioni approfondite, ma, al di là del fat­to macroscopico della diminuzione complessiva del personale che si lega al trend piatto del finan­ziamento del settore, interessante è notare due se pure deboli segni: l'aumento dei dipendenti degli istituti che si occupano di adulti inabili ed anziani che rappresentano il 38,7% del totale se­gnala come il problema degli anziani abbia con­dizionato l'evolversi delle strutture anche in un periodo di contenimento dei finanziamenti; l'au­mento delle altre categorie, anche se misurato su cifre non importanti, è un sintomo che nuovi bisogni stanno sviluppandosi cercando una rispo­sta istituzionale.

Ma il problema del personale socio-sanitario non è solo un problema di numeri, bensì essen­zialmente un problema di qualità. Chi è, in sostan­za, l'operatore socio-sanitario? Il CENSIS ed il CNPDS hanno condotto, tra il 1981 ed il 1982 un'indagine sugli operatori dei servizi socio-assi­stenziali in Lombardia. Tale indagine non è ov­viamente rappresentativa di tutta la realtà italia­na e neppure di tutta l'Italia settentrionale, ma molti elementi che da essa emergono sono, con le debite correzioni, un significativo spaccato dell'attuale situazione. L'indagine ha evidenziato infatti che:

- è elevato e cresce con gli anni il tasso di femminilizzazione degli operatori;

- è in atto una progressiva laicizzazione degli stessi. Il personale religioso tende infatti a dimi­nuire progressivamente;

- tende ad elevarsi il livello, almeno formale, di istruzione;

- i percorsi formativi che portano alla pro­fessione di operatore sociale presentano due fondamentali caratteristiche:

• in primo luogo sono estremamente diver­sificati, nel senso che i tipi di scuola frequentati a livello superiore possono essere, di fatto, i più disparati;

• in secondo luogo presentano articolazioni a volte complesse, nel senso che spesso si ve­rifica un fenomeno che si potrebbe definire «so­vraccarico di titolo» in quanto al titolo di scuola superiore si sommano uno o più titoli di corsi pro­fessionali e ciò avviene anche a livello di laurea;

- se si tocca il problema delle motivazioni si evidenzia come a motivazioni di carattere uma­nitario se ne vanno sostituendo, con il ricambio generazionale, altre di tipo più ideologico-politi­co; la maggior parte degli operatori avverte però che la propria figura professionale è in crisi a causa spesso di una formazione troppo generica e di scarsa esperienza. In questo caso il fattore generazionale ha un peso rilevante: da un lato si trovano operatori maturi che si trovano ad avere dei problemi di riconversione della propria pro­fessionalità in relazione al mutato panorama socio-assistenziale; dall'altro c'è un folto gruppo di operatori giovani con una preparazione chia­ramente falsata rispetto alle esigenze reali, ma con deboli stimoli a crescere professionalmente;

- il grado di insoddisfazione nel lavoro è par­ticolarmente elevato e forte la propensione a cambiare lavoro, specie nei giovani.

 

 

Tabella 4 - Personale degli istituti di ricovero

                                                                                     1975             1976             %

A. Totale istituti                                                              94.390          92.078        - 2,4

di cui:                                                                                                                          

istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza           35.345          35.499        + 0,4

istituti dipendenti da enti pubblici                                 14.217          13.664        - 3,9

istituti privati                                                              44.828          42.915        - 4,3

B. Totale colonie permanenti                                            4.118            3.848          - 6,6

di cui:                                                                                                                          

montane                                                                    676              801            + 18,5

collinari                                                                     1.573            1.262          - 19,8

marine e di altro tipo                                                   1.869            1.785          - 4,5

C. Istituti con una sola categoria di assistiti                       80.141          77.084        - 3,8

di cui:                                                                                                                          

minori normali                                                            32.688          29.976        - 8,3

ciechi                                                                        957              691            - 27,8

sordomuti                                                                  1.957            1.787          - 11,3

minorati fisici                                                             1.899            1.736          - 8,6

minorati psichici                                                         5.935            5.899          - 0,6

adulti inabili ed anziani                                                35.405          35.607        + 0,6

altre categorie                                                            1.300            1.388          + 6,8

D. Istituti con più categorie di assistiti                               10.131           11.146        + 10,0

 

Fonte: elaborazione Censis su dati Istat.                                                                                                                               

 

 

(1) Censis Ricerca, XVI rapporto/7982 sulla situazione sociale del paese, Franco Angeli Editore, Roma, 1982.

(2) Già a metà del 1982, la «Relazione economica del paese» rilevava che la spesa sociale in senso stretto (sa­nità, previdenza e assistenza) non andava ritenuta come la principale responsabile degli squilibri della finanza pubbli­ca. «Tra il 1975 e il 1980 le percentuali rispetto al prodotto lordo interno della spesa sociale (nel suo complesso e per le singole voci) si sono mantenute praticamente staziona­rie: intorno al 21%. Solo nel 1981 si è registrato un au­mento prossimo ai due punti percentuali, per l'azione con­giunta di più decisioni adottate in sede politico-parlamenta­re: aumento degli assegni familiari, quadrimestralizzazione della scala mobile sulle pensioni, rivalutazione delle rendite agli invalidi del lavoro. Ancora: se le percentuali della spe­sa sociale vengono calcolate rispetto al totale delle entrate correnti della pubblica amministrazione, si trova che i rap­porti tendono a diminuire, passando dal 64,5% del 1975 al 58,3% nel 1981. Ciò sta a indicare che l'aumento della spesa sociale per la sanità, l'assistenza e la previdenza (lo stesso discorso vale anche per i consumi collettivi) è stato meno intenso dell'aumento delle entrate fiscali e pa­rafiscali. Se si conviene che le imposte si pagano soprat­tutto per ricevere le prestazioni sociali e i consumi collet­tivi, ne segue che la nostra collettività ha pagato un am­montare di imposte superiore al "valore" delle prestazioni sociali e dei servizi collettivi (istruzione, giustizia, difesa, ecc.), ricevuto come contropartita » (cfr. G. Alvaro, «La spesa sociale non è da buttare», in Il Sole - 24 Ore, 21 luglio 1982, p. 2). La nota è nostra.

(3) Ai problemi delle persone portatrici di handicaps, il Censis '82 dedica un intero paragrafo (cfr. Rapporto..., pp. 438-450). In particolare si sottolinea che «l'accentua­zione assistenzialistica della legislazione ha comportato una generalizzata carenza di servizi di prevenzione e di diagnosi precoce. Nonostante che si riconosca che il 44% degli handicaps sono congeniti (Ministero Sanità) la pre­venzione nel nostro paese, è ancora all'anno zero; gli in­terventi in questo campo, sono frammentari, episodici, Ba­sti pensare, per fare un esempio, che i centri di diagnosi prenatale pubblici dove si fa gratuitamente l'amniocentesi non sono più di 12» (ibidem, p. 441). La nota è nostra.

 

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