Prospettive assistenziali, n. 61, gennaio - marzo 1983

 

 

CINQUE ANNI DOPO IL DPR 616 (1)

 

 

1) Nodi e resistenze nell'attuazione del DPR 616

 

Com'è noto il DPR 24 luglio 1977 n. 616 ha pre­visto un massiccio trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ed agli Enti locali e, contempo­raneamente, ha sciolto una miriade di organismi nazionali e locali.

In definitiva il DPR 616 consentiva di modifica­re in misura sostanziale l'assetto del potere pub­blico, valorizzando le Autonomie locali e permet­tendo quindi ai cittadini di influire maggiormen­te sulle scelte e di poter controllare le realizza­zioni in materia. In particolare, per quanto riguar­da i servizi sociali (comprendenti, in base al DPR 616, la sanità, l'assistenza, la formazione profes­sionale, i musei e le biblioteche di interesse lo­cale, le attività relative al diritto allo studio ed i servizi culturali), il DPR 616 dava mandato alle Regioni di aggregare i Comuni secondo ambiti territoriali idonei alla gestione dei servizi sopra elencati.

Infatti la polverizzazione dei Comuni non con­sentiva che le nuove funzioni potessero essere assunte da tutti i Comuni singoli.

Di qui la norma relativa all'associazione, an­che obbligatoria, dei Comuni.

Va sottolineato anche che alla Regione era at­tribuita la possibilità di emanare, con il solo li­mite dei principi generali stabiliti da leggi dello Stato, leggi di riordino nelle materie oggetto di trasferimento.

L'attribuzione ai Comuni singoli o associati di nuovi rilevanti compiti, l'evolversi del ruolo del Comune stesso insieme alla necessità di riorga­nizzare la gestione delle competenze tradiziona­li, hanno posto alle forze politiche l'esigenza di proporre specifici provvedimenti legislativi diret­ti a dare un assetto istituzionale coerente alle nuove esigenze.

In sintesi, con l'emanazione del DPR 616/77 sono stati introdotti grossi potenziali elementi di rinnovamento sul piano politico, istituzionale e culturale.

I contenuti di tale rinnovamento tuttavia non stavano interamente all'interno di un quadro poli­tico-amministrativo locale, ma andavano ricercati in un più vasto movimento che in quegli anni si era determinato nel Paese.

Gli scarsi risultati ottenuti nella fase di avvia­mento di tale processo inducono ad analizzare i maggiori ostacoli e resistenze che dal 1977 ad og­gi hanno limitato l'attuazione del DPR 616/77.

Gli ostacoli, le difficoltà e le resistenze all'at­tuazione del processo riformatore sono eviden­ziabili nei seguenti punti:

1) Una strozzatura all'attuazione del DPR 616/77, e quindi la continuazione del sistema binario, è rappresentata dal non collegamento della legi­slazione statale alle esigenze delle amministra­zioni regionali.

, d'altra parte, le Regioni, nel loro comples­so, si sono sempre orientate verso l'utilizzazione razionale degli spazi e delle vie che, sia pure in modo limitato, l'attuale sistema giuridico-istitu­zionale offre.

è stato utilizzato in modo corretto il me­todo di governo attraverso la programmazione. Quando ci sono stati tentativi di programmazione, il più delle volte settoriale, non si è pensato alla ricerca ed alla predisposizione di strumenti volti alla salvaguardia delle autonomie, cosicché la programmazione si è venuta atteggiando a forma integrativa di governo.

Così la Regione che doveva essere il punto di rottura delle contraddizioni istituzionali ed il pun­to di raccordo fra Stato ed Enti locali minori, ri­schia di diventare non un centro di propulsione politico, ma un luogo di puro decentramento am­ministrativo.

Accanto alla rigidità della legislazione che pre­senta grossi problemi di adeguamento alle di­verse realtà locali, è da porre l'assenza di quelle riforme che costituiscono il presupposto per la completa attuazione di quelle già varate.

Per quanto riguarda l'attuazione delle riforme, incide grandemente, in modo negativo, la logica finanziaria che genera ingovernabilità del sistema basandosi, con tagli e riduzioni, non sulle reali esigenze, ma su soluzioni tecnico-contabili pre­scindendo dalla praticabilità stessa delle solu­zioni.

2) Sono poi da segnalare ostacoli rappresentati dalla presenza di operatori formati e inseriti in modelli verticistici, burocratici e settoriali che già dagli anni '50 determinavano un aumento in­controllato della spesa oltre che fornire un mo­dello di assistenza sempre più inadeguato.

Essi infatti, non affrontavano il bisogno global­mente adeguando successivamente gli interventi, ma condizionavano le letture del bisogno in base alle logiche del servizio di appartenenza.

In questa prima fase di attuazione delle rifor­me, specialmente per quella sanitaria, si è veri­ficata una prevalenza del momento decisionale politico su quello tecnico mentre in precedenza, seppur in modo distorto e contraddittorio, era spesso il contrario.

Questo ha comportato un rovesciamento della contraddizione e non una sua soluzione, almeno propositiva, perpetuando una separazione fra la amministrazione e la gestione dei servizi da un lato e la programmazione e la gestione politica dall'altro.

3) Dopo il DPR 616 si è fermato quel processo di ricerca e di espansione di nuovi valori e di nuo­vi modelli, sottovalutando il potere degli interessi precostituiti (industrie farmaceutiche, case medi­che, tradizioni degli operatori, ecc.) come fattore di un'eventuale controriforma e sopravvalutando il radicamento nella popolazione e nelle forze vi­ve del Paese dei valori di prevenzione, lotta all'e­marginazione sociale, riabilitazione sociale e sa­nitaria, partecipazione e decentramento.

Questo ha permesso la ripresa di una tenden­za che, sotto la voce del buon senso (la necessità di correggere alcuni errori), di fatto ha innescato una tendenza antiriformatrice, favorita fra l'altro da una mancanza di verifica critica, di una socia­lizzazione e di una valutazione delle esperienze più significative e qualificanti.

4) Il gruppo dirigente amministrativo delle au­tonomie locali, che per anni aveva rivendicato potere reale di amministrazione e di gestione, ha rivelato grosse difficoltà nella gestione ed attua­zione delle riforme:

a) talvolta si è sbagliato nella composizione degli organi delle USSL;

b) non si sono dati giusti supporti per la pro­grammazione e la gestione, sia sul piano ideale che metodologico;

c) si è sottovalutato, spesso ignorandone l'esi­genza, un programma di formazione e di confron­to fra i nuovi dirigenti politici e tecnici, gli ope­ratori e la popolazione con tutte le sue espres­sioni significative;

d) c'è stato un uso delle risorse totalmente orientato al passato (non è più sufficiente la giu­stificazione della sola restrizione della spesa).

5) Quanto sopra esposto ha accelerato il degra­do del modo di fare politica e gestire la cosa pub­blica fra i partiti ed ha favorito la logica della spartizione del potere rispetto a quella dell'otte­nimento delle finalità del DRP 616.

6) Nelle forze sindacali e sociali, che pur erano state fra le protagoniste del movimento riforma­tore, ha prevalso la logica dell'attuazione burocra­tica delle riforme.

Infatti spesso le organizzazioni sindacali si so­no opposte alla mobilità del personale fra ruoli e fra territori, opposizione a volte giustificata dalla mancanza di obiettivi e di programmi, ma spesso sostenuta per pura difesa di interessi corpora­tivi e personali, conseguenza anche dell'apparte­nenza ad enti diversi.

D'altro lato talune associazioni di fronte ad un rischio di perdita o di peggioramento nella qua­lità dei servizi hanno preferito il mantenimento dello status quo.

7) L'esistenza negli stessi servizi ed uffici di personale con quattro contratti diversi, con rela­tive retribuzioni, orari, inquadramenti ha provoca­to situazioni di conflittualità fra dipendenti e di­pendenti e conseguenti problemi nella loro ge­stione ed utilizzo.

8) Il nodo della frammentazione dei Comuni in piccolissime entità, come del resto quello delle metropoli, è stato un ostacolo affrontato in modo insufficiente, con occhio più attento a non perde­re consensi anche irrazionali o potere contrattua­le più che pensare a creare ambiti e strutture de­centrate ottimali alla gestione dei servizi e alla partecipazione popolare.

 

2) Il progetto di riforma delle autonomie locali

 

In sostanza il DPR 616 poneva l'accento su due aspetti:

- la valorizzazione delle Regioni con l'espleta­mento delle funzioni di indirizzo, programmazio­ne e coordinamento;

- il rilancio dei Comuni singoli o associati qua­li organi destinati a dare le risposte concrete alla popolazione.

Nell'attuazione del DPR 616 questi due obiettivi sono stati troppo occasionalmente tenuti nella debita considerazione.

Questa situazione ha consentito, in larga misu­ra, il rilancio della questione «Provincia», que­stione che - ad avviso del gruppo - non deve essere posta ed affrontata in modo avulso dagli obiettivi del DPR 616 e dalle dimensioni ridotte di molte Regioni italiane.

Tuttavia, anche in questo campo, si sono mani­festate pericolose tendenze antiriformatrici, pre­senti anche nel disegno di legge «Ordinamento delle autonomie locali» approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta dell'8 luglio 1982.

A questo riguardo, mentre il DPR 616, tenendo conto delle esigenze di gestione dei servizi so­ciali, stabiliva associazioni intercomunali anche obbligatorie (principio confermato dalla legge 833/1978), l'art. 36 del disegno di legge sopra citato:

- prevede da un lato associazioni facoltative e provvisorie e d'altro lato non considera i Co­muni con popolazione superiore ai 3 mila abi­tanti;

- non consente l'Associazione fra Comuni ap­partenenti a Province diverse, in contrasto con quanto già realizzato in applicazione del DPR 616;

- non definisce i rapporti che devono esserci fra i singoli Comuni e l'Associazione di cui gli stessi fanno parte, ad esclusione dei criteri di nomina dei componenti dell'Assemblea dell'Asso­ciazione;

- non sono chiariti i rapporti fra Associazione dei Comuni e Comunità montana nel caso di non coincidenza assoluta. Dovrebbe invece essere fa­vorita la coincidenza degli ambiti territoriali delle Comunità montane con le Associazioni interco­munali al fine di ottenere la massima semplifi­cazione possibile degli organi di governo;

- nulla dice in merito alle Associazioni inter­comunali istituite per la gestione dei servizi sani­tari e spesso anche di quelli assistenziali.

Da respingere è l'ipotesi generalizzata delle «aziende speciali» dipendenti dalle Province, pre­viste dagli articoli 11 e 42 del citato disegno di legge governativo. Potrebbe essere ammessa la creazione di aziende speciali solo per la gestione di servizi ad alto contenuto tecnologico - da pre­cisare nella legge - che, per le loro caratteri­stiche, debbano avere una dimensione ultrazonale oppure provinciale o ultraprovinciale.

Inoltre suscita perplessità l'ampiezza delle fun­zioni attribuite alle Province. AI riguardo si pre­cisa che le competenze delle Province in materia di programmazione non devono assolutamente li­mitare l'autonomia dei Comuni singoli o associati nella programmazione e svolgimento delle funzio­ni proprie.

Inoltre il gruppo ritiene che sia necessaria un'attenta valutazione per quanto riguarda la pos­sibilità delle Province di esercitare direttamente compiti di gestione.

Per quanto concerne invece la Provincia me­tropolitana, il gruppo avanza riserve in quanto questo nuovo ente, a causa del potere che verreb­be ad assumere a livello politico, economico e sociale, potrebbe condizionare o comunque ridur­re il ruolo proprio della Regione. Inoltre la crea­zione della Provincia metropolitana potrebbe au­mentare il disequilibrio, già preoccupante, fra le aree deboli e le aree forti delle singole Regioni.

Il problema delle aree metropolitane va affron­tato invece in modo da consentire la risoluzione delle esigenze specifiche, impedendo però la creazione di organismi aventi poteri tanto estesi al punto di poter esercitare condizionamenti an­che a livello nazionale.

Stante la presenza di una miriade di Comuni di ridotte dimensioni (questi enti locali sono pas­sati dagli 8.056 del 1971 agli 8.086 del 1981), il gruppo ritiene indilazionabile l'avvio di un franco dibattito sull'opportunità della graduale trasfor­mazione dei Comuni piccoli in organi di decentra­mento di entità comunali più consistenti.

A questo riguardo si valuta negativamente quanto previsto dal 2° comma dell'art. 46 del ci­tato disegno di legge governativo così formulato: «Non può farsi luogo all'istituzione di un nuovo Comune quando la popolazione residua del Comu­ne o dei Comuni di origine o quella del nuovo Co­mune sia inferiore ai 5.000 abitanti».

Il gruppo segnala i pericoli derivanti, per moti­vi che nulla hanno a che fare con esigenze politi­che-amministrative, dalla creazione di nuove Pro­vince e dal conseguente aumento di spesa.

Il gruppo osserva altresì che il disegno com­plessivo del DPR 616 prefigurava un rapporto di reciproca collaborazione fra i vari livelli istitu­zionali ed in particolare fra Stato e Regioni e fra quest'ultime ed i Comuni e loro Associazioni, con ampia autonomia di questi ultimi alla gestione negli ambiti di piani programmatici di coordina­mento territoriale.

In tale spirito, i controlli sugli Enti locali ve­nivano ridotti a controlli di legittimità attraverso i CO.RE.CO. con, in particolare nel periodo ini­ziale ed in molti casi, l'ingresso in tali organi di ex amministratori che introducevano competenze specifiche gestionali a fianco delle normali com­petenze dei membri della vecchia Giunta provin­ciale amministrativa.

Il progetto di legge di riforma delle Autonomie impone invece una rigida composizione fatta di soli alti burocrati o avvocati con la totale esclu­sione di ex-amministratori e reintroduce un pe­sante controllo di merito su innumerevoli atti (art. 63).

Inoltre viene previsto un rafforzamento dei po­teri del Ministero dell'interno attraverso le figure dei Prefetti per «assicurare la coerenza dell'atti­vità amministrativa dello Stato rispetto alle esi­genze delle autonomie locali e del decentramen­to» (art. 75), enunciazione, ben diversa, quindi, dalle prime elaborazioni degli anni '70 che pre­vedevano tali funzioni di competenza del Parla­mento, proposta questa ben più garantista verso il movimento delle autonomie

Tale potere del Ministero dell'interno appare notevolmente accresciuto rispetto alle precedenti elaborazioni, al punto che si prevede che sia co­stituito a livello centrale, anziché regionale, un servizio nazionale per l'informatica con la costru­zione di una banca dei dati ed un collegamento informativo diretto dei Comuni al livello centrale (saltando le Regioni), il tutto affidato allo stesso Ministero.

 

3) Le leggi finanziarie

La manovra economica, così come congegnata dal Governo, tendente alla riduzione della spesa pubblica, è un ulteriore grave ostacolo all'appli­cazione concreta del DPR 616 ed al dispiegarsi delle riforme che esso anticipava.

Ciò perché si è ulteriormente accentuata ne­gli ultimi anni e si evidenzia con forza nel pro­getto di legge finanziaria 1983 la negazione evi­dente del dettato dell'art. 11, ultimo comma, del DPR 616 che recita «la programmazione costitui­sce riferimento per il coordinamento della finan­za pubblica».

Invece è ormai chiaro che si intende sostituire annualmente un piano nazionale di sviluppo con il sistema delle leggi finanziarie.

È comunque bene riaffermare che non è nem­meno accettabile, da parte di singoli amministra­tori, strumentalizzare la situazione di carenza pro­grammatica e di riduzione di risorse per frenare ogni iniziativa riformatrice.

A tal proposito abbiamo già accennato in pre­cedenti documenti, ed è opportuno ricordarlo, che esistono tuttora sprechi ed inefficienze nel sistema di spesa degli Enti locali che vanno for­temente contrastati.

Non sempre gli amministratori locali si sono posti con concretezza nell'impegno di modificare il tipo di spesa: in molti casi anziché una rinno­vazione sostanziale si è delineata una sommato­ria di interventi scarsamente integrati.

Ad esempio, sul versante sanitario, anche in quel 20-30% della spesa determinabile diretta­mente da decisioni della singola USL (al di là quindi della dinamica dei costi relativi a farmaci, personale, convenzione unica medici generici, pe­diatrici, specialisti ambulatoriali e tasso di infla­zione corrente) non si è visto uno spostamento reale e sensibile di risorse dal livello integrativo a quello di base, bensì, in molti casi, un ulteriore rafforzamento delle strutture istituzionalizzate (ospedali, poli-ambulatori, strutture residenziali tutelari) a scapito dell'attuazione nei servizi di distretto.

Non è accettabile però, anche se sprechi, inef­ficienze, distorsioni permangono, cogliere tali ele­menti negativi (che vanno corretti non certo con imposizioni ma con un cambio radicale di cultura che coinvolga forze politiche, amministratori, ver­tici direzionali delle USL, apparato burocratico degli Enti locali, singoli operatori) per scaricare sugli Enti locali costi davanti all'incapacità altrui a contenere i meccanismi di espansione della spesa.

Fin dalla legge finanziaria 1981 sono stati in­trodotti meccanismi di rigido controllo che hanno impedito ogni ulteriore espansione quantitativa delle spese, non proteggendo nemmeno la spesa locale dal puro tasso di inflazione corrente.

Con la legge finanziaria 1982 tali meccanismi si sono estesi anche al controllo delle entrate portando alla totale eliminazione delle gratuità in ogni tipo di servizio (costa al cittadino anche l'ac­cesso in biblioteca) e recuperando ingenti quan­titativi di entrate proprie che quest'anno hanno raggiunto i 6 mila miliardi contro i 17 mila di tra­sferimenti statali (quindi ben il 25% delle entra­te dei Comuni derivano da prelievi che gli Enti lo­cali raccolgono direttamente dai loro ammini­strati).

Ma se pur con perplessità non indifferenti il movimento delle autonomie ha accolto la mano­vra finanziaria 1982 contenendo le spese nei limiti fissati e recuperando risorse in modo diretto, la situazione appare insostenibile per il 1983 quando gli Enti locali saranno chiamati (se permane così il progetto governativo) a reperire direttamente 4 mila miliardi in più perché lo Stato intende tra­sferire semplicemente le somme 1982, sempre ammesso che l'obiettivo del 13% come tetto per l'inflazione sia realistico.

Gli Enti locali si troveranno quindi di fronte all'esigenza di una forte contrazione della spesa con il rischio che essa incida fortemente proprio sui servizi sociali; saranno impossibilitati a com­piere investimenti e quindi non avranno alcuna possibilità di modificare l'assetto delle strutture e della rete dei servizi stessi; saranno posti di fronte all'esigenza di aumentare ancora il prelie­vo attraverso le tariffe; si prevede di inserire una addizionale IRPF e IRPG sui beni immobili, com­presa la prima casa.

A questo proposito appare tanto illogica quan­to inaccettabile la proposta contenuta nel testo di riforma dell'assistenza di privatizzare i patri­moni di molte IPAB (Istituzioni pubbliche di assi­stenza e beneficenza), privatizzazione che secon­do alcuni ammonta a 20 mila miliardi di beni, in larga misura immobili.

Inoltre la ripartizione tra finanze proprie e fi­nanze trasferite tenderà al pareggio (10 mila mi­lardi contro 17 mila) provocando un ulteriore squi­librio fra aree economicamente forti ed aree de­boli (e quindi fra nord e sud) essendo queste ul­time percentualmente meno protette dai trasferi­menti dello Stato che in questo caso assumono una funzione di perequazione fra gli Enti locali.

Di fronte a questa situazione appare evidente il soffocamento del sistema delle autonomie loca­li costringendo gli enti ad una lotta per la soprav­vivenza che non consente certo momenti di elaborazione e di espansione del rinnovamento, ma che ovviamente spinge verso un ripiegamento su posizioni statiche se non involutive.

Inaccettabile poi, prima che sul piano dei con­tenuti, la manovra finanziaria lo è su quello del metodo: ad esempio con il taglio del fondo tra­sporti e con la costrizione di portare i biglietti urbani ad almeno 400 lire, con il raddoppio del costo degli abbonamenti, non solo si colpisce un servizio sociale determinante come quello del trasporto pubblico, ma si istituzionalizza la logica già evidente nei provvedimenti degli scorsi anni di arrogare al livello centrale la predeterminazio­ne su come gli Enti locali debbono gestire le proprie risorse.

Un recupero di centralismo, quindi, che rinnega di fatto il disegno di ampio decentramento intro­dotto dal DPR 616: ulteriore atto di una strategia per la sconfitta del movimento riformatore.

Il «che fare» appare in tutta la sua evidenza: impedire per intanto lo stritolamento della finan­za locale garantendo le risorse necessarie non per espandere la spesa, ma per proteggerne al­meno parzialmente i livelli dall'inflazione corren­te; quindi consentire l'effettuazione degli investi­menti già previsti finalizzandoli ad interventi pri­mari degli Enti locali (casa, riconversione dei ser­vizi); affrontare con rapidità la riforma della finan­za locale recuperando a livello comunale il siste­ma di autonomia impositiva non fittizia, come quella attuale in cui ciò che si recupera in più vie­ne detratto dal trasferimento statale, ma reale e cioè intesa, partendo da una base minima garan­tita dai trasferimenti, come livello perequativo che consenta poi l'esplicitarsi di un'azione auto­noma dell'Ente locale sul piano dell'adeguamento dei servizi all'esigenza espressa dalla rispettiva realtà sociale.

Ciò ovviamente non basta perché costituirebbe poco più di una difesa dell'esistente. Occorre un disegno più vasto che consenta un recupero di va­ste fasce di spesa improduttiva. L'impiego per interventi socialmente utili dei cassaintegrati, ad esempio, un accordo reale sulla mobilità del per­sonale negli enti pubblici, da servizio a servizio ma anche da ente a ente (sia locale che naziona­le), sono solo due degli interventi a nostro giudi­zio indispensabili per ridurre nei limiti situazioni che sennò diverrebbero, in questo contesto di gravissima crisi economica, inaccettabili.

Riqualificazione del personale, mobilità, livello di professionalità, caduta della barriera dell'età nell'assunzione negli enti pubblici con la contem­poranea revisione del sistema previdenziale (uni­tarietà dei contributi e del trattamento pensioni­stico fra pubblico e privato con l'eliminazione de­gli attuali privilegi di alcuni settori e categorie e con la revisione delle pensioni di invalidità), re­visione dei mansionari, sono impegni prioritari su cui il movimento delle autonomie nel suo com­plesso ed i sindacati debbono impegnarsi da su­bito al confronto serrato.

Per la spesa sanitaria rimane tuttora di grande validità quanto indicato dal gruppo nel documen­to «Controriforma da battere» che integralmen­te richiama anche in questo documento.

L'impegno non può quindi essere solo un im­pegno difensivo. Per troppo tempo lo è stato e, anno dopo anno, la manovra finanziaria neocentra­listica dello Stato ha chiuso nell'angolo le auto­nomie locali.

Da tale pericolosa posizione si può solo uscire con un'azione vigorosa di grande cambiamento: un'azione che però impone un grande sforzo cul­turale di rielaborazione chiamando tutti, ammi­nistratori, operatori, sindacato, ad uscire dagli schemi troppo rigidi che molte volte hanno scon­finato e sconfinano nel corporativismo e nella di­fesa dei privilegi acquisiti.

 

4) La legislazione regionale 5 anni dopo il 616 (con riferimento al titolo III nella sua totalità), le deleghe, la riorganizzazione delle strutture regionali

 

Mentre il fronte delle Regioni è risultato uni­tario e molto attivo nella fase precedente all'ap­provazione del DPR 616, sia con proposte e con­tributi che con contestazioni e stimoli verso chi non voleva un rilevante impegno istituzionale di decentramento e di globalità, è purtroppo da rile­vare che dopo il DPR 616 l'impegno di attuazione non è stato altrettanto generalizzato, tempestivo e coerente.

Ciò nonostante, è parso al gruppo di evidenzia­re che - in tale quadro generale che tuttora ap­pare insufficiente - alcune realizzazioni più o meno diffuse costituiscono già una nuova base di riferimento per le riprese di un impegno combat­tivo del movimento riformatore.

a) La scelta di fondo del DPR 616 a favore di una gestione comunale di tutte le funzioni del comparto «servizi sociali» - inteso in ampia ac­cezione come risulta dal titolo III del DPR 616 - ha posto le Regioni in questo campo come enti di esclusiva competenza legislativa e programma­toria.

Il primo e fondamentale impegno, cui le Regio­ni erano chiamate, consisteva nel definire le for­me istituzionali ed organizzative attraverso le quali i Comuni avrebbero dovuto gestire le fun­zioni di cui erano divenuti titolari.

Ciò chiudeva praticamente il dibattito sui com­prensori di programmazione, introducendo quello sulle Associazioni dei Comuni, quali momenti po­lifunzionali di gestione dell'intervento sociale (le realtà regionali in cui si erano avviati i Consorzi socio-sanitari si trovarono avvantaggiate nell'ac­celerare questo processo associativo).

La quasi contemporanea approvazione della ri­forma sanitaria, mentre rese urgente la soluzione delle zonizzazioni e delle aggregazioni intercomu­nali, condizionò quasi sempre in senso settoriale una ipotesi che invece era nata come polifunzio­nale.

b) Nell'assenza delle varie leggi previste dal DPR 616, con l'enfatizzazione data al momento sa­nitario, con il permanere del nodo irrisolto della Provincia, il processo attuativo è andato avanti su tutto il territorio nazionale anche se con apprez­zabili differenze e con lentezze.

In alcune realtà regionali - chiusa la fase costituente delle Associazioni intercomunali e di impianto della riforma sanitaria, che più ha pola­rizzato l'attenzione dell'opinione pubblica e delle forze politiche - si cominciano a cogliere negli ultimi due anni i segni operativi di una diversa programmazione e gestione dell'intervento so­ciale.

Mentre la coniugazione unitaria del momento sanitario ed assistenziale - sia in alcune leggi regionali di attuazione dell'833, sia con apposite leggi regionali di riordino delle funzioni assisten­ziali -appare un obiettivo più chiaro, il coordina­mento e l'integrazione con gli interventi cultura­li (diritto allo studio, formazione professionale ecc.), risultano ancor oggi in genere assai sfoca­ti, quando non del tutto assenti, tanto che la revi­sione delle zonizzazioni dei distretti scolastici - richiesta a questo scopo dalla legge 833 - è rimasta generalmente inosservata.

c) Le Regioni erano chiamate - sia dal DPR 616 che dalla legge 833 - all'emanazione di numero­se leggi di riordino, implicanti deleghe e decen­tramento da un lato e riorganizzazione dell'ammi­nistrazione regionale dall'altro.

Tale impegno è risultato di fatto particolarmen­te oneroso dal momento che gravava ormai sulle Regioni il peso della gestione di numerose com­petenze provenienti dallo Stato e dagli enti di­sciolti, unitamente ad un fatto contingente di per­sonale con formazione ed esperienza spesso in conflitto con gli obiettivi che le Regioni intende­vano darsi. Personale inoltre che, per stato giu­ridico ed economico, risultava difficilmente orga­nizzabile negli organici regionali, ingenerandosi così un ulteriore appesantimento derivante dalla difficoltà di mobilità e di conveniente utilizzazione di tali risorse.

A ciò si aggiunge la complessiva situazione nel­la quale versa l'organizzazione regionale in conseguenza dell'attuazione dell'accordo collettivo di lavoro e delle relative «code» contrattuali (ri­strutturazioni), le quali sono state spesso gestite dalle stesse amministrazioni regionali dando prevalente rilievo all'aspetto economico e comun­que senza una peculiare attenzione alla riorganiz­zazione necessitata da una politica di delega del­le funzioni operative e di sviluppo invece delle capacità legislative e programmatorie.

Rispetto a tali gravosi impegni, le Regioni non hanno generalmente dimostrato di essere all'al­tezza, per la parte di loro esclusiva competenza, sia per le ulteriori difficoltà frapposte dalla ina­dempienza centrale, sia per l'afflosciamento del complessivo movimento riformatore.

d) Nell'impiego di riordino è da ricordare, in particolare, la legislazione emanata da alcune Re­gioni sulle funzioni assistenziali, sulle IPAB e sul « fondo sociale », che assume particolare e ulte­riore rilievo in assenza di una legge quadro dell'assistenza. Diritto allo studio e formazione pro­fessionale sono due altri settori in cui si è eser­citato l'impegno legislativo di riordino.

Frequentemente, in questi cinque anni, anche là dove si è voluto dare risposte di riordino, ci si è esposti al rischio del mantenimento di scelte settorialistiche.

e) Nel campo della programmazione dello svi­luppo (cfr. art. 11 del DPR 616) alcune Regioni hanno già predisposto - pur in assenza di quadri di riferimento nazionale - piani globali, cui si è potuto far riferimento anche in sede di elaborazio­ne dei piani di intervento socio-sanitario.

Rompendo con una tradizione, generalmente prevalsa di consultazione formale, in alcune si­tuazioni il confronto con gli Enti locali territoriali e con le forze sociali ha assunto un rilievo sostan­ziale ed ha condotto alla revisione di indirizzi e di metodologie previste dalle bozze di piano re­gionale. Ciò nonostante, è da evidenziare il per­manere, anche a livello regionale, di logiche ac­centratrici poco disponibili a diffusi e sostanziali coinvolgimenti nel momento di elaborazione le­gislativa e di programmazione.

 

5) L'organizzazione dell'intervento sociale

 

L'emanazione del DPR 616, come già in prece­denza accennato, ha permesso l'introduzione, nel nostro sistema d'intervento sociale, di po­tenziali rilevantissimi elementi di rinnovamento sul piano politico, istituzionale e culturale.

Occorre precisare che le spinte alla realizza­zione di tale rinnovamento non sono da ricercare tanto all'interno del quadro politico-amministrati­vo locale - pur presente in modo rilevante - ma piuttosto in un più vasto movimento che si era determinato in quegli anni nel Paese e che ha visto coinvolte le forze politiche nazionali, i grup­pi e le associazioni di base, i sindacati. ecc.

A ciò si aggiunga che gli Enti locali assieme ai nuovi compiti non hanno ricevuto tutte le risorse necessarie per farvi fronte (legislative, finanzia­rie, di mezzi e di personale) e che su di essi è sempre continuata la pressione delle situazioni contingenti da affrontare immediatamente: non è facile cambiare cioè la «quota in corsa» e non meraviglia perciò che le forze politiche locali non siano ancora riuscite, in linea generale, a rece­pire le reali istanze di rinnovamento espresse dal DPR 616, che si potrebbero riassumere nelle ca­pacità di riappropriarsi completamente della po­litica sociale territoriale, programmandola e ge­stendola in modo globale, con qualità e attenzioni nuove, in particolare con riguardo alle possibilità offerte dalla partecipazione dei cittadini. Per al­tro, anche nei Comuni, ove si è avuta disponibilità di risorse, sovente non si è riusciti a realizzare le potenzialità insite nel DPR 616 per limiti di carat­tere politico e culturale. Parallelamente (e conse­guentemente) non vi è stato il rinnovamento del principale strumento per realizzare tale nuova po­litica: l'organizzazione burocratico-amministrati­va dei Comuni è rimasta ferma al testo unico del 1935, confezionato su misura per la gestione di limitate attività parcellizzate e delegate dall'am­ministrazione statale. Il DPR 616 impone invece una ristrutturazione completa basata sulla flessi­bilità, sul coordinamento, sull'integrazione delle varie attività e, soprattutto, sull'innesto del mo­mento partecipativo, sin da dare un volto nuovo alle amministrazioni locali.

Restano ancora i vuoti in organici in personale e in mezzi per i servizi sociali (in alcune sedi compiti qualificati come ad esempio, le indagini per l'adozione di bambini abbandonati sono anco­ra affidate ai vigili urbani e alle guardie campe­stri) e per i servizi culturali, resta soprattutto la mancanza di iniziativa e di consapevolezza sulle nuove possibilità e responsabilità.

Per altro i tentativi compiuti dalle forze poli­tiche locali più impegnate per una ristrutturazione degli uffici comunali, per la creazione, ad esem­pio, di «dipartimenti» sono stati bocciati dagli organi di controllo, così come non sono riusciti, per lo più invece per motivi politici, i tentativi di coordinamento tra i vari assessorati.

La creazione delle USL ha vieppiù complicato la situazione, sì che oggi si pone come inderoga­bile necessità la riconduzione della programma­zione e gestione dei servizi sanitari nell'ambito della politica dell'Ente locale, riconduzione del tutto possibile con i mezzi legislativi disponibili o con adeguati interventi legislativi regionali.

In questo momento particolare è necessario frenare le spinte che vedrebbero le USL configu­rarsi come un ente autonomo di gestione: in altri termini si tratta di impedire che passino, attra­verso atti apparentemente amministrativi, scelte di natura politica (vedi per esempio l'approvazio­ne delle piante organiche). La spinta all'autono­mia delle USL viene non solo dal loro interno ma anche da provvedimenti a livello nazionale, quali quelli concernenti il controllo sugli atti ammini­strativi dell'USL stessa.

Dall'insieme di queste situazioni emerge chia­ramente quanto le forze politiche locali siano sta­te condizionate nel loro ruolo e come, di conse­guenza, l'azione sociale si sia sovente appiattita a livelli di carattere frammentario e puramente quantitativo, talvolta anche con sprechi economi­ci, trascurando gli aspetti qualitativi pur determi­nanti per le attuali esigenze della collettività.

Si è già richiamato come non sia possibile af­frontare le problematiche connesse alla condizio­ne degli operatori senza prima chiarire gli aspet­ti relativi ad una auspicata definizione dello stato dei servizi e della conseguente organizzazione del lavoro.

La situazione di tradizionale estraneità delle problematiche sanitarie dal Comune ha fatto sì che sul piano sindacale e contrattuale si rilevino spaccature, le quali impediscono la riconduzione di tutto il personale che opera su competenze di cui sempre il Comune è titolare ad un unico mo­mento politico-amministrativo.

La forbice rilevata sul piano istituzionale tra movimento politico culturale da un lato, ed asset­to politico amministrativo dall'altro, ha riflessi as­sai concreti quando, ad esempio, si va ad esami­nare ciò che sottende, ancor oggi, ad una ripro­porzione contrattuale separata che, pur definendo attraverso il contratto unico della sanità l'accor­pamento di ben cinque contratti di provenienza (problema questo tutt'altro che risolto) scava un fossato profondo tra il comparto della sanità e quello più propriamente degli Enti locali, consoli­dando anche per questa via una concezione estre­mamente pericolosa, dissociante, di fatto contro­riformatrice sia per il sistema delle autonomie che per il sindacato.

Se questo è vero, vi é in questa fase, un co­mune obiettivo che il sistema delle autonomie, le organizzazioni sindacali, più in generale il movi­mento riformatore devono portare avanti: nell'am­bito del fondo sanitario nazionale per la sanità (mai precisato) e delle scelte di un piano sanita­rio nazionale (inesistente), definire i livelli con­trattuali in un rapporto effettivamente alla pari, da conquistare, tra Stato centrale e sistema delle autonomie da una parte e organizzazioni sindacali dall'altra. Tutto ciò appare di difficile attuazione rispetto, ad esempio, a quanto previsto dal DPR 761 sullo stato giuridico del personale, che, su­perata la fase transitoria (comprensibile e legitti­ma a quel momento), diviene oggi un vero e pro­prio steccato (che deve essere abbattuto) che mortifica i livelli periferici dello Stato e prima an­cora il Parlamento e che tende a relegare il sinda­cato in un ruolo di mera registrazione dei fatti.

Di fronte ai rischi di realizzare normative con­trattuali divaricanti è imprescindibile l'esigenza che, pur conducendo trattative separate per il comparto sanità e per quello degli Enti locali af­frontando le singole specificità, non si realizzino conclusioni divaricanti negli aspetti fondamen­tali quali: inquadramento, orario, valore di livelli.

Un'altra difficoltà per una efficace utilizzazione del personale, funzionale al disegno riformatore, è stata posta dalla mancata riconversione degli operatori provenienti dagli enti soppressi, arriva­ti agli Enti locali attraverso operazioni di trasfe­rimenti meccanici, talora con forti cariche cor­porative, tese prevalentemente a tutelare inte­ressi personali, e che, per esempio, hanno favo­rito la concentrazione urbana con evidente deca­dimento della già scarsa presenza di servizi nelle zone periferiche.

Tutto ciò, senza sottacere le difficoltà, talora l'indisponibilità, opposta dallo stesso personale degli Enti locali.

Abbiamo già ricordato come la portata innova­tiva del DPR 616 abbia avuto ripercussioni anche sul piano dell'organizzazione del lavoro: nel ver­sante socio-sanitario tale rinnovamento si ritrova particolarmente concentrato sul distretto, con tutte le valenze positive che una simile scelta organizzativa comporta.

C'è innanzitutto da cogliere a questo proposito, l'esigenza di una diversa professionalità da richie­dere agli operatori, ribaltando il tradizionale con­cetto in base al quale più la domanda è più sele­zionata e più c'è bisogno di professionalità.

Certamente l'aspetto più importante consiste nella necessità di definire una professionalità di­versa, la quale debba esprimersi non semplice­mente attraverso specifiche ed approfondite co­noscenze di natura tecnica bensì in termini di una vera e propria professionalità, individuabile in una capacità di analisi approfondita e critica dei bisogni e una ricerca intelligente e partecipata di soluzioni non frammentarie alle diverse compo­nenti dello stato di bisogno, fondata prioritaria­mente sull'insieme delle risorse locali.

Ciò vale in particolare a proposito della forma­zione e dell'aggiornamento del personale per una sua riconversione nella direzione delle nuove for­me organizzative dei servizi, tenendo presente la

necessità di rapportarsi costantemente all'utenza ed agli amministratori.

Oltre a quanto già detto, c'è da tenere conto di un processo formativo permanente più largo, capace cioè di coinvolgere certamente l'opera­tore in senso stretto, ma anche uno spettro più vasto di soggetti che partecipano in vario modo alla elaborazione, gestione e verifica dell'attività sociale.

In tal senso si rende necessario un progetto formativo integrato che valorizzi appieno le risor­se politiche, culturali, scientifiche esistenti ai vari livelli, dall'interno delle quali troppo spesso l'Ente locale non svolge quel ruolo che pure isti­tuzionalmente gli compete (è il caso delle uni­versità con la quale il più delle volte viene ricer­cato un rapporto con i «buoni» a scapito dei «cattivi» evitando di misurarsi con i problemi istituzionali esistenti).

Per quanto riguarda la presenza del sindacato, occorre recuperare un ruolo di vertenzialità, sia sul piano strettamente categoriale valorizzando appieno le questioni delle professionalità in stret­to collegamento all'organizzazione del lavoro e dei servizi, sia su quello politico complessivo (confederale) attraverso l'elaborazione di piatta­forme territoriali capaci di coinvolgere l'insieme del mondo del lavoro.

È altresì necessaria la ricerca di un più fattivo rapporto-confronto tra le organizzazioni sindacali ai vari livelli e le diverse forme di partecipazione non sempre necessariamente rappresentate dal mondo del lavoro organizzato; ciò è giusto non solo come principio generale ma a maggior ra­gione oggi in presenza di una polverizzazione di interessi rispetto ai quali occorre uno sforzo di sintesi unificante.

Vanno invece ripensate e riviste forme di coin­volgimento del sindacato ai vari livelli di gestione che in molti casi hanno creato ostacoli ad un con­fronto e ad una dialettica tra le parti.

Altre forme di organizzazioni sociali, quali pos­sono essere ad esempio quella del volontariato o associazioni di categoria, vanno certamente inco­raggiate a svolgere il proprio ruolo, evitando tut­tavia un loro intervento sovrapposto o avulso ad una logica di programmazione e controllo la cui titolarità, formale e sostanziale, compete esclu­sivamente alla parte pubblica.

 

6) Modalità per la verifica delle esperienze innovative

 

Il dibattito ultra decennale sfociato nell'appro­vazione del decreto 616 e delle leggi di riforma che in esso si inquadrano (prima fra tutte la legge di riforma sanitaria), è stato alimentato ed arricchito da una serie di esperienze innovative rea­lizzate a livello locale.

Basti qui ricordare le esperienze dei Consorzi socio-sanitari o quelle di trasformazione di ser­vizi o di interventi tecnici in psichiatria, nelle scuole, in servizi di base.

Questo tessuto di esperienze innovative risul­ta oggi ancor più necessario e vitale per alimen­tare, con soluzioni nuove e diverse da caso a caso, un processo di riforma che ha spesso la­sciato ampi vuoti normativi e che registra i ritar­di e le difficoltà sopra ricordati.

Va detto tuttavia che, per il passato, le espe­rienze innovative, anche quando note e dibattu­te, non hanno spesso sufficientemente inciso sul­la generalizzazione delle trasformazioni che esse proponevano.

Da un lato molte esperienze si sono poste in modo elitario, dall'altro amministrazioni, forze politiche e sindacati non hanno sostenuto né sti­molato la diffusione di simili esperienze, privile­giando il momento appiattente della regolamen­tazione.

Se allora di fronte all'incalzare delle tendenze controriformatrici diviene essenziale moltiplica­re le esigenze attuative della riforma, occorre anche stavolta che esse siano soprattutto con­frontate, verificate e diffuse.

Questo significa indicare con chiarezza che oc­corre passare dalla occasionalità ad una politica delle sperimentazioni innovative sulla linea del DPR 616, sostenuta organicamente non solo dalle amministrazioni pubbliche, ma anche dalle forze sindacali e dagli stessi operatori di base.

Tale politica deve fondarsi su modalità e stru­menti ben identificati di confronto e verifica.

Vanno realizzate sistematicamente verifiche di esperienze che, nella loro globalità, costituiscono tentativi organici, tanto sul piano istituzionale che su quello metodologico-organizzativo, di at­tuazione progressiva del processo di riforma a partire dalla specificità della propria situazione. Vanno studiate le soluzioni apportate ai singoli aspetti dei problemi e valutate in base alla loro diffusibilità.

Una diversa modalità di verifica si fonda sul confronto di più esperienze locali che abbiano ri­calcato soluzioni in uno stesso campo attuativo delle leggi di riforma, come ad esempio la riorga­nizzazione dei servizi psichiatrici dopo la «180» o le esperienze di avvio dei distretti socio-sanitari di base.

Vanno create e moltiplicate occasioni di con­fronto e verifica fondate sull'incontro tra operato­ri e amministratori impegnati in esperienze inno­vative diverse o che intendono ricevere informa­zioni e stimolazioni da realtà che hanno già avvia­to nuove soluzioni.

Tali incontri, da prevedere nell'ambito del pro­gramma di formazione permanente predisposto dalle USSL, possono essere formalizzati in quan­to stages formativi o visite di studio finalizzati alla verifica delle esperienze anche con la produ­zione di una documentazione nella quale siano sintetizzate le difficoltà incontrate, le indicazioni operative emerse, le risorse impegnate.

Tali verifiche, fondate sul principio della par­tecipazione contestuale di amministratori, opera­tori, strutture associative del territorio e utenti, debbono essere esplicitamente finalizzate alla diffusione delle indicazioni costruttive.

È chiaro che il processo di confronto e verifi­ca sistematica sarà facilitato da alcune condizio­ni essenziali:

a) l'adozione di metodologie, da parte delle USL, fondate sulla esplicitazione preventiva di obiettivi e modalità d'azione nella preparazione dei programmi, dei progetti o dei piani.

b) l'identificazione, l'adozione e la diffusione di metodologie di valutazione dell'efficacia dei pro­grammi fondati su nuovi indicatori che pongono in primo piano aspetti qualitativi come ad esem­pio:

1) il livello di partecipazione ai programmi da parte dell'utenza (in termini non solo di fruizione di prestazioni ma anche di contributo attivo all'e­laborazione e attuazione dei programmi);

2) il livello di accessibilità dei programmi ed in particolare il raggiungimento delle fasce di utenza più deboli e che abitualmente non riesco­no neppure a formulare domande di servizio;

3) il livello di riduzione degli sprechi in quanto riqualificazione della spesa e dell'offerta di ser­vizi, come ad esempio la riconversione delle ret­te di ricovero in istituti dequalificati di assi­stenza;

4) il livello di riduzione dei rischi e delle noci­vità tanto ambientale quanto quella generata dal cattivo funzionamento dei servizi (problema dei farmaci, degli esami diagnostici, delle prestazio­ni che creano dipendenza, assistenzialismo);

5) il livello di circolazione delle informazioni e, in particolare, di quelle immediatamente utili nel­la realtà locale.

È evidente che la diffusione di una politica delle sperimentazioni innovative attuata a livello locale esige che Regioni, Stato, Università e Cen­tri di ricerca, non solo non la ostacolino, com'è fin qui per lo più accaduto, ma operino concreta­mente per favorirla.

A questi livelli compete infatti di mettere pro­grammaticamente a disposizione degli Enti locali non solo le risorse finanziarie ma anche le risorse tecniche e formative necessarie.

Ciò renderebbe possibile trasformare le espe­rienze innovative destinate a rimanere isolate e poco efficaci in un tessuto sistematico di ricer­che-interventi finalizzati, che costituiscono uno strumento di attuazione della riforma e un con­creto terreno di formazione.

 

 

(1) Documento elaborato dal Gruppo di studio «Autono­mie locali e servizi sociali» della Lega regionale piemon­tese per i poteri e le autonomie locali riunitosi a Torre Pellice il 20, 21 e 22 ottobre 1982. I precedenti documenti del gruppo di studio sono stati pubblicati da Prospettive assistenziali, n. 50, 53, 55, 57 e 58.

 

 

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