Prospettive assistenziali, n. 60, ottobre - dicembre 1982

 

 

SVILUPPO COGNITIVO DEL BAMBINO CIECO

GIANMARIO DELL'OSBEL

 

 

Parlare di un problema così specifico come quello evidenziato nel titolo potrà apparire a mol­ti certamente riduttivo rispetto alla vastità e alla complessità del problema dell'integrazione.

Tuttavia sono convinto che ogni scoperta an­che in settori limitati della scienza, debba essere messa a disposizione di ogni persona interessa­ta alla fattiva realizzazione dell'integrazione so­ciale.

D'altra parte, se è vero che a monte di una concreta socializzazione vi sta una corretta in­formazione, che avvicini la società in generale ai problemi e alle reali possibilità degli handi­cappati, sfatando così assurdi miti e credenze, è altrettanto necessario che alla persona che è colpita da una minorazione siano dati tutti gli strumenti utili per ridurre le difficoltà di intera­zione ed aumentare le capacità di comunicazione (gli ostacoli all'integrazione non si riducono solo alle barriere architettoniche e sensoriali).

Da qualche anno alcuni ricercatori americani stanno conducendo prove sperimentali relative al problema del ritardo nello sviluppo cogniti­vo, rifacendosi principalmente agli studi della Hatwell riguardanti questo problema.

La Hatwell (Privation sensorielle et intelligen­ce, Presses Universitaires de France, 1966) per verificare alcune sue ipotesi sullo sviluppo co­gnitivo ha posto a confronto due gruppi di sog­getti, uno di bambini vedenti e l'altro di bambini nati ciechi o divenuti tali molto precocemente. I risultati della sua ricerca hanno messo in luce che i bambini ciechi hanno ritardi significativi nel­le operazioni logiche di seriazione, classificazione e conservazione rispetto ai bambini vedenti (1).

Questi ritardi sembrano dovuti alla scarsa pos­sibilità di instaurare un immediato rapporto di controllo sulle azioni compiute, alla minor com­plessità strutturale della realtà percepita e ad una iniziale difficoltà di astrazione dovuta alla obbligata dipendenza di un sistema percettivo poco organizzato ed estremamente frammentario.

Sempre dai risultati della Hatwell, tali lacune operative scomparirebbero però totalmente con il raggiungimento della capacità di condurre ope­razioni logiche con simboli (astraendo quindi dall'oggetto concreto), ossia quando le operazioni stesse diventano strettamente verbali: «sembra dunque che il linguaggio liberi il cieco da una realtà materiale che gli sfugge poiché di un livel­lo di complessità superiore alle sue possibilità di organizzazione percettiva e logica».

Sarebbe certamente utile dedicare maggiore attenzione al ruolo svolto dal linguaggio e dagli elementi che ne determinano il nascere, vista la rilevanza che esso assume per il bambino cieco.

Non è tuttavia del linguaggio che intendo oc­cuparmi in queste brevi considerazioni, ma, come dicevo, di alcuni recenti risultati sperimentali ottenuti da psicologi americani e delle loro im­plicazioni sulla educazione dei bambini non ve­denti.

Una ovvia considerazione derivante dai risul­tati ottenuti dalla Hatwell concerne il reale svan­taggio nelle capacità di conoscenza del bambino cieco rispetto alla capacità del vedente, quando entrambi raggiungono l'età della scolarizzazione.

Il processo di assimilazione e accomodamento, che nella teoria di Piaget controlla l'equilibrio fra l'organismo e la realtà esterna, risulta fre­nato nel bimbo cieco considerando il differente livello di sviluppo mentale e quindi della relati­va diversa complessità delle strutture cognitive.

Qualcuno potrebbe avanzare l'osservazione che quanto affermo in fin dei conti non ha gran peso nella realtà dei fatti, in quanto, come si può no­tare dal diagramma (Figura 1), lo sviluppo cogni­tivo del bambino non vedente, per quanto concer­ne le operazioni logiche menzionate, equivale mediamente verso i 9 anni allo sviluppo del ve­dente.

A mio parere invece il ritardo riscontrato pri­ma degli 8-9 anni nelle operazioni di seriazione, classificazione e conservazione, che sono com­ponenti essenziali del successivo sviluppo delle capacità di apprendimento, potrebbe rappresenta­re una pesante barriera che ostacola l'arricchi­mento intellettuale del non vedente rispetto al vedente: il primo non avrà infatti gli stessi stru­menti del secondo per comprendere i ragionamen­ti e le spiegazioni inerenti ai programmi scola­stici nei primi anni di scolarizzazione rivolti esclu­sivamente ad una popolazione di normali; da qui potrebbero derivare probabili momenti di frustrazione con il rischio di ulteriori negative con­seguenze sul piano dello sviluppo della perso­nalità.

Non voglio con questo affermare che sia con­troproducente il processo in atto da tempo, teso a realizzare l’integrazione sociale dei ciechi an­che attraverso l’inserimento scolastico; al con­trario ritengo che tale processo sia stato e con­tinui ad essere un utilissimo stimolo al miglio­ramento delle capacità intellettive del bambino cieco, essendo quest'ultimo, nell'istituzione chiu­sa, costretto ad un appiattimento generalizzato dovuto alla mancanza di termini di confronto.

L'istituto per ciechi risulta essere pertanto un adattamento forzato alla propria situazione di cie­co «ritardato» rispetto ai vedenti.

Non mi risulta infatti che nell'istituzione chiu­sa si sia mai sviluppata una problematica scien­tifica relativa alle potenzialità cognitive latenti nei bambini ciechi.

Al contrario gli stessi istituti hanno contribui­to a determinare e rafforzare la credenza che il ritardo evolutivo fosse naturale nel bambino cie­co; tale ritardo sarebbe stato colmato solo col tempo e pertanto, per il momento, non c'era al­tra possibilità che accettarlo in quanto intrin­seco.

Ritengo tuttavia utile sottolineare che nemme­no l'inserimento scolastico è taumaturgico in se stesso, ma occorre, per coglierne a pieno i frut­ti, intervenire preventivamente a colmare le di­stanze intellettive fra i ciechi e vedenti con ade­guati interventi di assistenza educativa domi­ciliare.

Unitamente al suddetto sforzo di adeguamento sarà necessaria una continua azione informativa indirizzata a demolire credenze ed atteggiamenti radicati da un passato in cui educazione ed inter­vento sociale sono stati legati al pietismo ed al fideismo.

L'eliminazione delle false credenze e del pie­tismo non è tuttavia sufficiente a far sì che si realizzi una più completa partecipazione del cie­co alla vita sociale: è necessario infatti che si lavori affinché il bimbo non vedente possa acco­starsi alle prime esperienze di vita comunitaria, come la scuola, con le stesse capacità psicologi­che di apprendimento del vedente.

Al fine di favorire quanto espresso sopra, al­cuni studiosi della George Mason University, prendendo spunto dalle ricerche della Hatwell e di altri studiosi come Sigel, Raeper e Hooper (1966), hanno sperimentato un metodo che con­sente di colmare il distacco nello sviluppo co­gnitivo fra bambini ciechi e bambini vedenti.

Siegel e c., usando una speciale procedura di addestramento trovarono che programmi di addestramento (training) centrati sul concetto di «classificazione» influenzavano le successive strutture cognitive.

Altre ricerche hanno rilevato che se si eser­citano bambini ciechi alla soluzione di problemi che si rifanno agli schemi di Piaget, si potevano ottenere utili miglioramenti del loro livello intel­lettivo; essendo il processo di classificazione una operazione mentale fondamentale, appare utile dare maggiore importanza all'apprendimento del­la stessa.

Una delle prime ricerche condotte da Robert Pasnak e da Judith Friedman, rispettivamente del­la George Mason University e della Catholic Uni­versity of America, ha rappresentato di fatto un tentativo di misurare l'efficacia di un set di ap­prendimento (serie di esercizi) nell'insegnare a bambini ciechi il processo di classificazione; il set sarebbe stato tanto più efficace quanto più semplice e breve nell'indurre il concetto di clas­sificazione.

I risultati ottenuti dopo il programma di appren­dimento (training) e riassunti nella tabella n. 1, mostrano chiaramente che il training può facili­tare l'apprendimento della classificazione.

Gli esercizi di classificazione e raggruppamen­to, che venivano eseguiti solo dal gruppo speri­mentale, si conducevano utilizzando oggetti dell'ambiente di vita comune: giocattoli di legno, plastica e metallo, oggetti di casa o di scuola ecc.

Una più estesa ricerca di David J. Lopata e Robert Pasnak, pubblicata nel 1976, centrata sull'apprendimento del processo di conservazione della sostanza e su altri concetti ad esso subordi­nati, ha mostrato come un tirocinio di apprendi­mento impostato su tali concetti possa determi­nare miglioramenti anche nella acquisizione del concetto di conservazione del peso.

È noto che l'apprendimento dei concetti relati­vi alla conservazione delle quantità passa per diverse tappe.

Si osserva infatti il seguente ordine sistema­tico nei bambini vedenti: conservazione della so­stanza acquisita verso i 7-8 anni, conservazione del peso verso gli 8-9 anni, conservazione del vo­lume verso i 10-11 anni.

Per i bambini ciechi, delle prove sperimentali della Hatwell, benché tali prove siano da consi­derarsi criticamente, si è osservato che l'ap­prendimento dei suddetti concetti subisce un ri­tardo medio di 2-3 anni (Figura n. 2).

I programmi di apprendimento sono stati strut­turati in questo esperimento, in modo più com­plesso: infatti le esercitazioni sono state impo­state non solo con problemi che si riferiscono al concetto di conservazione della sostanza, bensì cercando anche di costruire le basi cognitive o meglio i prerequisiti per l'acquisizione del con­cetto stesso di conservazione.

Tali prerequisiti sono stati individuati nelle operazioni di seriazione, classificazione, addizio­ne, sottrazione e misurazione. Anche in questo caso nelle esercitazioni si usavano oggetti comu­ni di diversa grandezza: viti, spugne, bottoni, pezzi di legno.

Durante l'esecuzione del programma ad ogni soggetto del gruppo sperimentale, ossia il grup­po che veniva sottoposto all'esecuzione del pro­gramma di apprendimento, veniva chiesto di ri­solvere una serie di problemi relativi alle opera­zioni da eseguire: per esempio sistemare in or­dine crescente o decrescente oggetti di diversa dimensione, discriminare fra tre oggetti, dei qua­li due appartenenti alla stessa classe.

Un altro gruppo, detto gruppo di controllo, veni­va sottoposto per lo stesso periodo di tempo a normali esercitazioni quali esercizi di modella­mento della creta, o di altro materiale, insegna­mento della scrittura Braille, ecc.

È importante rilevare che questi ultimi non mostrarono un apprendimento allo stesso livello del gruppo sperimentale, che al contrario riuscì, anche se non perfettamente, a raggiungere il li­vello di prestazione dei vedenti.

Nella tabella 2 vengono confrontati i risultati ottenuti dai gruppi sperimentali e di controllo, dove appare evidente il miglioramento ottenuto dal gruppo sottoposto al programma di appren­dimento, sia nell'acquisizione dei concetti di con­servazione, che nei punteggi relativi al quozien­te intellettuale.

Il fatto che il programma abbia apportato sen­sibili miglioramenti anche nel quoziente intellet­tuale può, in via ipotetica, essere spiegato dalla composizione fattoriale del test Q.I. (ossia dai fattori o variabili che compongono la struttura del test); in tal senso si può presumere che i fatto­ri presenti nel Q.I. siano analoghi a quelli pre­senti nelle operazioni di conservazione

Un fatto comunque emerge insistentemente: nel bambino cieco esistono potenzialità di svilup­po che si possono realizzare in pieno solo sti­molandone l'utilizzo.

Nel 1977 Delia Ester Lebron, Rodriguez e Ro­bert Pasnak con la pubblicazione di un articolo intitolato «Induction of Intellectual Gains in Blind Children» mostrarono come, con esercitazioni che implicavano oltre all'acquisizione del con­cetto di classificazione anche quello relativo alla seriazione, si potevano ottenere risultati ancora più soddisfacenti.

Il fatto che l'influenza delle suddette esercita­zioni si estendesse ad un miglioramento anche dei punteggi del Q.I., mostrò l'utilità dei program­mi di apprendimento dei concetti che caratteriz­zano la teoria dello sviluppo cognitivo del Piaget nel superare alcune delle carenze concettuali ri­scontrate nei bambini ciechi.

Le sopra esposte ricerche non rappresentano certamente nulla di nuovo a livello teorico, se non una conferma sperimentale di quanto era già stato sostenuto da alcune scuole psicologiche.

Alcuni teorici della «psicologia della forma» (Gestalt) già sostenevano che in seguito all'ap­prendimento da parte del bambino di una azione specifica, vi può essere l'acquisizione di un prin­cipio strutturale, la cui azione può estendersi al di là delle sole operazioni su cui è basato quell'apprendimento.

Per concludere desidero metter in rilievo che già Vygotskij aveva evidenziato l'opportunità di orientare l'apprendimento in modo che risultasse in anticipo rispetto allo sviluppo; l'apprendimen­to dovrebbe cioè sfruttare le potenzialità, le pos­sibilità ancora non manifeste, le capacità in po­tenza, capacità in potenza da portare in atto, me­diante un adeguata supporto.

Credo sia utile riferire quanto afferma Vygotskij stesso in merito a quanto esposto sopra: «... è questa la teoria dell'area di sviluppo prossimale ossia la distanza tra il livello attuale di sviluppo determinato dal problem-solving autonomo (svol­to senza aiuto) e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem­-solving sotto la guida di un aiuto... la zona di svi­luppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono ancora mature, ma che sono nel pro­cesso di maturazione, funzioni che matureranno domani, ma che sono al momento allo stato em­brionale... la teoria di una zona di sviluppo pros­simale ci permette di proporre una formula nuo­va, cioè che l'unico buon apprendimento è quel­lo in anticipo allo sviluppo» (1980).

A maggior ragione quindi, per quanto concer­ne i bambini ciechi sarà bene non aspettare la maturazione naturale dei processi cognitivi, ma sollecitarla opportunamente.

In tal senso, a mio parere, assume importanza determinante un intervento di informazioni indi­rizzate soprattutto alle famiglie, realizzabile per mezzo di un «Servizio di assistenza educativa domiciliare».

Il compito degli educatori per la prima infan­zia consisterebbe principalmente nel fornire ai genitori tutte le informazioni inerenti i possibili strumenti per stimolare la crescita psicologica del bambino.

L'informazione non si dovrebbe limitare alla pura indicazione dei metodi concreti, ma alla reale partecipazione della conoscenza anche teo­rica, al fine di rendere il genitore il più indipendente possibile nell'educazione del figlio, e per evitare il rischio di una troppo facile delega edu­cativa dei genitori agli operatori.

Interventi di assistenza educativa domiciliare sono stati realizzati con modalità diverse dalla Provincia di Torino e di Milano; il Comune di To­rino sta studiando un progetto teso ad estendere un simile intervento per tutti i tipi di handicaps.

È auspicabile che l'attuale tendenza alla ridu­zione della spesa pubblica non blocchi la possi­bilità che simili esperienze positive di intervento di assistenza educativa domiciliare si estendano anche ad altri Comuni.

 

Bibliografia

 

Hatwell I., Privation sensorielle et intelligence, Presses Universitaires de France, 1966.

Sigel LE., Roeper A., Hooper F.M., A training procedure for acquisition of Piaget's conservation of quantity: a pilot study and its replication, The British Journal of Educational Psychology, 1966, 36, 301-311.

Judith Friedman, Robert Pasnak, Accelerated acquisition of classification skills by blind children, Developmental Psychology, 1973, vol. 9, 333-337.

David j. Lopata, Robert Pasnak, Accelerated conservation acquisition and I.Q. gains by blind children, Genetic Psy­chology Monographs, 1976, 93, 3-25.

Delia Ester Lebren, Rodriguez and Robert Pasnak, In­duction of intellectual gains in blind children, Journal of Experimental Child Psychology, 1977, 24, 505-515.

Lev S. Vygotskij, Il processo cognitivo, Boringhieri, 1980.

 

 

 

Tabella 1

Confronto tra i gruppi sperimentale e di controllo nel ri­spettivo pretest e posttest (Friedman e Pasnak, 1973).

                                             PRETEST             POSTTEST

Gruppo sperimentale              media 28.5            media 40.2

Gruppo di controllo                 media 34.0            media 36.5

 

 

Tabella 2

Punteggi medi dei pretest e posttest per le operazioni conservazione della sostanza, conservazione del peso quoziente intellettuale (Lopata e Pasnak, 1976).

 

COMPITO                                   PRETEST      POSTTEST

Conservazione della sostanza

gruppo sperimentale                        25.63             58.50

gruppo di controllo                          27.93             29.36

Conservazione del peso                                           

gruppo sperimentale                        10.00             28.93

gruppo di controllo                          12.07             12.71

Quoziente intellettuale                                             

gruppo sperimentale                        91.20             99.70

gruppo di controllo                          92.64             94.00

 

 

Figura 1

Classificazione delle prove in funzione dell'età media nella quale si è trovata la soluzione (Atwell, 1966).

 

 

a = seriazione di 7 cubi; b = seriazione di 7 bastoncini; c = classificazione 1° criterio; d = conservazione della so­stanza; e = conservazione del peso; f = seriazione ver­bale; g = seriazione dei pesi; h = inclusione delle classi; i = classificazione 2° criterio.

 

 

Figura 2

Percentuale di soggetti che hanno acquisito la conserva­zione della sostanza e quella del peso (Hatwell, 1966).

 

 

Sostanza               < vedenti                   □ ciechi

Peso                     = vedenti                   o ciechi

 

 

 

 

 (1) La seriazione è una operazione logica che consiste nel costruire una serie ordinata nella quale una stessa re­lazione unisca gli stessi elementi che la compongono: per esempio una serie ordinata di cubi dal più piccolo al più grande; la classificazione è la capacità di raggruppare gli oggetti in funzione di qualità comuni agli stessi oggetti; la conservazione è la capacità di riconoscere la stessa quantità, lo stesso peso o lo stesso volume di un oggetto nonostante le deformazioni che lo stesso oggetto possa subire.

 

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