Prospettive assistenziali, n. 55, luglio - settembre 1981

 

 

ESPERIENZE DI INSERIMENTO SCOLASTICO DI FANCIULLI HANDICAPPATI

EMILIA DE RIENZO

 

 

Il contributo che vogliamo dare con questo scritto è sicuramente molto limitato in quanto riporta le riflessioni, le proposte di un gruppo di insegnanti di una scuola media della seconda cintura torinese; sono però frutto di un'esperien­za concreta di lavoro.

Non si vogliono offrire soluzioni e formule pre­costituite, sono considerazioni e proposte con cui confrontarsi nel modo più ampio possibile, consci che un problema così grave non è di faci­le soluzione ma richiede al contrario un impegno serio e continuativo, una volontà di ricerca co­stante che investa il più possibile il mondo del­la scuola nel suo complesso e non sia invece frutto di un numero ristretto di persone.

L'esperienza che abbiamo fatto nella nostra scuola ha messo in evidenza problemi, difficoltà, deficienze che c'erano già prima ma che spesso venivano mistificate o nascoste, ha ancora una volta messo in luce che innovazione e inserimen­to devono viaggiare di pari passo, che non c'è in­serimento dove non c'è un cambiamento sostan­ziale nella scuola e nel suo vecchio modo di pro­cedere.

È comunque ormai molto diffuso lo scoraggia­mento, la delusione anche di chi inizialmente ave­va lottato per la legge o si era schierato a favore.

La mancanza di strutture adeguate, di prepa­razione e di un aggiornamento consono al com­pito, l'isolamento in cui molti insegnanti si sono venuti a trovare durante l'esperienza, lo sforzo quotidiano hanno giocato molto a favore di chi non vede l'ora di poter dimostrare che aveva ra­gione e sono ancora molti, troppi per poter pen­sare di potersi adagiare o smettere di lottare e di lavorare per concretizzare una vittoria che a parer nostro è stata sicuramente una delle più significative di questi ultimi anni.

Partendo dai problemi reali che si presentava­no in modo quotidiano abbiamo cercato di dare risposte, forse parziali ma concrete, perché di questo, a nostro avviso, si ha bisogno, di riferi­menti, di momenti di confronto franco e aperto.

Pertanto è nata nella nostra scuola la necessità di mettere in piedi un gruppo di lavoro, una commissione che fungesse da coordinamento, da sti­molo e momento di verifica di quello che stava accadendo nelle varie sezioni.

Si era infatti notato che nelle varie sezioni si attuava l'inserimento in modi totalmente diversi, a seconda delle classi, a seconda degli insegnan­ti; il più delle volte mancavano una vera e pro­pria programmazione e momenti costanti di ve­rifica. La commissione aveva quindi lo scopo prima di tutto di coordinamento, di dibattito, di elaborazione di idee e di proposte.

Abbiamo quindi messo a fuoco i problemi che man mano emergevano cercando di volta in vol­ta soluzioni e risposte, e contatti con altre realtà.

Sono emerse alcune considerazioni di caratte­re generale che sono servite come spunto per l'elaborazione di una programmazione più siste­matica e meno lasciata al caso.

Nella scuola abbiamo visto delinearsi alcune tendenze a parer nostro da battere:

a) tra molti insegnanti si fa sempre più mani­festa la volontà più o meno esplicita di riprodur­re sotto altre forme la logica delle classi diffe­renziali, si cerca cioè di isolare i problemi del «bambino diverso» dal contesto sociale più am­pio in modo da non intaccare il resto della real­tà sociale.

Lo strumento per questa operazione: l'inse­gnante di sostegno che diventa automaticamente l'insegnante del bambino handicappato e diven­ta corpo con lui. A quest'insegnante si delegano i problemi, le difficoltà, spetta a lui risolverli.

Spesso si tende, sotto la forma mistificata del «recupero», di formare delle classette di bimbi che non sanno leggere o scrivere o che comun­que presentano difficoltà. La giustificazione uffi­ciale diventa: «Poveri bambini, il confronto con gli altri è per loro troppo frustrante» e quando il bambino in causa è assente i compagni dicono all'insegnante di sostegno: «Vada pure via, F. non c'è».

La delega a «qualcuno» o all'insegnante di appoggio, o comunque agli insegnanti di «buona volontà», il disinteresse di molti rimane la legge dominante: la scuola nel suo complesso non vuole cambiare, non vuole rapportarsi alle nuove esigenze, ai nuovi bisogni emergenti.

È così che in genere il bambino handicappato viene nel migliore dei casi «affidato» ma diffi­cilmente entra a parità di diritti a far parte della comunità, che si difende con tenacia dai proble­mi che egli pone;

b) sul bambino handicappato si moltiplicano gli interventi, e in ogni programma ufficiale della scuola, dal mondo del lavoro, nel territorio è pre­sente il problema ma non esiste una collaborazio­ne vera per favorire una reale e non fittizia inte­grazione.

Si è lasciato troppo fare, senza un controllo, una verifica e una socializzazione delle esperien­ze; non c'è mai stato un confronto fra le varie scuole, tra la scuola dell'obbligo e le scuole pro­fessionali, tra la scuola e il territorio, settorializ­zando e parcellizzando il lavoro, lasciando in que­sto modo l'iniziativa alla buona o alla cattiva volontà dei singoli operatori.

Ognuno, nel suo campo fa «qualcosa», un qualcosa che però può andare in direzioni estre­mamente diverse quando non opposte.

Il Provveditorato non ha mai avuto una funzio­ne di stimolo, di aiuto, di coordinamento. L'unico collegamento fra scuole e provveditorato è la re­lazione dell'insegnante di appoggio che non può certo essere considerato uno strumento adegua­to per cogliere l'andamento della situazione, per prendere spunti e motivi di riflessione per indi­viduare il tipo di intervento più idoneo.

I corsi di aggiornamento organizzati sono stati il più delle volte astratte dissertazioni teoriche che nulla aggiungevano alle conoscenze degli in­segnanti;

c) altro problema: il rapporto con le équipes psico-medico-pedagogiche.

Le équípes sono oggi alla ricerca di una loro collocazione e difficilmente in questa situazione è possibile parlare di un reale rapporto con la scuola, di un reale contributo di queste alla solu­zione dei problemi (al di là di qualche intervento sporadico). È comunque per gli insegnanti un'al­tra occasione di delega: «Io non sono preparato; sono i tecnici, gli specialisti che ci devono pen­sare». E siccome gli specialisti non ci pensano, la coscienza è a posto ed il ruolo pedagogico­-didattico che alla scuola spetterebbe viene in­globato nella «non presenza» delle équipes.

Oggi un compito solo è chiaro: la possibilità delle équipes di sfornare certificati; di questi si coglie solo un aspetto: la possibilità di avere una classe di 20 alunni e l'insegnante di sostegno.

Oggi molti insegnanti vanno alla caccia di cer­tificati, molte classi sono piene di bambini «handicappati non dichiarati», più handicappati del bambino handicappato.

Queste alcune delle questioni in sintesi che stanno emergendo là dove esiste ancora un di­battito; queste le tendenze che andavano svilup­pandosi nella nostra scuoia come in tante altre (un confronto con le altre scuole del distretto ce lo ha confermato), a questi problemi era necessa­rio dare risposte concrete e chiare; non rifugian­dosi in facili slogan, era necessario sperimenta­re soluzioni e verificarle volta per volta.

Si sono quindi delineate alcune proposte. La direzione, verso cui abbiamo tentato di muover­ci, è stata quella di non delegare il problema agli insegnanti di «buona volontà» ma nello stes­so tempo non operare quello che da più parti viene definito come «l'inserimento selvaggio».

Se da una parte quindi è necessario assicurare a tutti i bambini situazioni il più possibile ben strutturate, dall'altra è indispensabile contempo­raneamente investire la scuola nel suo comples­so e con essa tutti gli organismi competenti.

È, infatti, a nostro avviso giusto proteggere il bambino ma nello stesso tempo è fondamentale aggredire l'istituzione che tende ancora una vol­ta alla ghettizzazione del problema; bisogna ob­bligarla al cambiamento, bisogna innestare pro­cessi innovativi che però sappiano legarsi alle situazioni concrete.

Per quanto riguarda la nostra esperienza sia­mo arrivati alla conclusione che ogni bambino debba trovare nell'ambiente scolastico una pro­pria collocazione che gli permetta di apprendere senza però perdere il contatto con i compagni. Pertanto, secondo noi, salvo casi rarissimi di bambini particolarmente gravi (e qui il discorso è ancora totalmente aperto), i ragazzi handicap­pati devono rimanere il più possibile nella classe e non essere quotidianamente portati fuori nean­che per iniziative di sostegno.

È inoltre importante che non si faccia seguire un programma completamente diverso dal resto della classe sia per quanto riguarda i contenuti che i metodi.

Siamo consapevoli della difficoltà che esiste nel mettere in pratica questo principio, che rima­ne però di importanza fondamentale se si vuole avere un reale inserimento, una reale crescita del bambino all'interno della realtà che lo cir­conda.

Per questo motivo abbiamo parlato di processo di rinnovamento nella scuola, che deve saper creare spazi nuovi sia per quanto riguarda l'a­spetto più strettamente didattico sia per quanto riguarda l'aspetto socializzante, mai abbastanza approfondito.

La nostra esperienza ci ha infatti insegnato nella pratica che portare fuori dalla classe que­sti ragazzi provocava atteggiamenti negativi sia in chi aveva dei problemi sia nei compagni. I primi avevano spesso atteggiamenti di aggressi­vità o di isolamento e chiusura: in genere sape­re di avere un ruolo diverso nella classe lo portava ad adagiarsi nelle sue difficoltà, ostaco­lando quel processo di normalizzazione che do­vrebbe caratterizzare ogni inserimento. Nei com­pagni invece si manifestavano atteggiamenti o di rifiuto o di tipo paternalistico.

Ci siamo di conseguenza posti questo proble­ma: come favorire l'apprendi mento, la crescita conoscitiva all'interno della classe senza provocare frustrazioni, in una situazione di scambio di esperienze che arricchisce sia i bambini han­dicappati sia i bambini cosiddetti «normali».

Era necessario insegnare in modo totalmente diverso, mettere in pratica quei principi da tem­po sbandierati e in particolare il più importante di essi: l'individualizzazione dell'insegnamento. L'insegnante deve pertanto porsi il problema di cogliere ogni bambino nella sua diversità, il bam­bino handicappato di conseguenza non sarà più visto come «il diverso» ma come «un diverso» in mezzo ad altri diversi.

Questo vuol dire in concreto che:

- il problema del bambino handicappato va in­serito nel problema generale del recupero di tutti i ragazzi nella scuola dell'obbligo volto a raggiun­gere tutti i vari livelli di apprendimento e a co­gliere la capacità o meno di socializzare di ogni alunno.

Non é infatti pensabile fare un programma che sia uguale per tutta la classe e uno invece diver­so per il bambino handicappato. Solo individualiz­zando il più possibile l'insegnamento è possibile andare incontro alle difficoltà ma anche alle po­tenzialità di tutti gli allievi.

L'inserimento inteso in questo modo non è una questione puramente tecnica e non può essere risolvibile solo dall'insegnante di appoggio o tut­t'al più dagli insegnanti che hanno più ore, ma è un problema che deve investire, come abbiamo già detto, tutto il consiglio di classe e vederlo impegnato a discutere e concordare gli obiettivi e i metodi e a verificare continuamente con for­te spirito di ricerca.

- Il lavoro prima esposto non vuole eludere il problema reale e concreto del recupero specifico del bambino handicappato che deve essere, al contrario, studiato in modo molto serio e attento, vuole invece collocarlo in una prospettiva a no­stro avviso corretta. Non si può parlare di recu­pero senza avere chiarezza sul come, sul quando realizzarlo e con quali strumenti.

Noi riteniamo che esso vada realizzato in una situazione non rigida (la classe da una parte, il bambino e l'insegnante d'appoggio dall'altra) ma vada invece realizzato e portato avanti in una situazione più fluida in cui tutta la classe sia impegnata in modo diversificato a seconda delle difficoltà, a seconda degli interessi.

L'insegnante di sostegno in questa prospettiva non deve diventare «l'insegnante del bambino handicappato» ma un insegnante che collabora attivamente nella classe con i bambini e nel con­siglio di classe con gli altri insegnanti sia per quanto riguarda l'elaborazione del materiale di­dattico, sia nei momenti di individualizzazione dell'insegnamento.

Teniamo a precisare che, a nostro avviso, buo­ni risultati si hanno quando il bambino più pro­blematico è seguito dall'insegnante del corso, proprio per evitare che il bambino stigmatizzi il ruolo di «diverso».

È chiaro che in questa direzione va del tutto rivista la legge che assegna alle classi l'insegnan­te di sostegno, che deve invece diventare sempre di più di sostegno alle attività che la classe e il consiglio di classe svolgono. Si pone però con forza il problema delle competenze di questi in­segnanti che dovrebbero sempre più corrisponde­re alle esigenze delle singole e concrete situa­zioni, alle programmazioni dei consigli di classe.

- Un altro problema estremamente concreto è l'elaborazione del materiale diversificato che permetta un approccio alle materie secondo i va­ri livelli di partenza e che permetta al bambino handicappato di seguire in qualche modo e nella misura possibile le lezioni dei compagni indivi­duando gli strumenti adatti sia nel caso che l'han­dicap sia fisico (audiolesi, spastici, ecc.) sia nel caso che l'handicap sia mentale.

Una difficoltà che abbiamo incontrato più volte è l'individuazione di testi per bambini ritardati mentali: è stato possibile per alcuni di essi av­viare nelle medie l'apprendimento della lettura e della scrittura ma abbiamo dovuto elaborare o semplificare testi adatti ai loro interessi e alla loro esperienza che non è sicuramente quella di bambini di sei anni.

Pertanto, per rispondere in modo tangibile a questo tipo di difficoltà, abbiamo avviato riunio­ni per materia per studiare e elaborare materiale per tutti i bambini, coinvolgendo in questo lavoro anche gli insegnanti che non erano direttamente coinvolti nell'inserimento dei bambini handicap­pati, ma che comunque avevano nelle loro classi bambini con diverse difficoltà.

La commissione inserimento e integrazione (composta da tutti gli attuali insegnanti di appog­gio e da almeno un rappresentante per consiglio di classe con bambini handicappati) ha invece il compito di studiare ed elaborare materiale spe­cifico per questi bambini, cercando di mettere a fuoco e man mano trovare soluzioni ai problemi che vanno via via emergendo.

- Abbiamo ritenuto importante avviare un la­voro comune fra più sezioni con un duplice sco­po: far discutere e far prendere coscienza dei problemi che non sono risolvibili solo all'inter­no della classe singola.

Vi sono infatti molte difficoltà che emergono dall'ambiente che circonda i ragazzi handicappati e che devono trovare una soluzione anche al di fuori della scuola. È questo un lavoro di sensibilizzazione che dovrà trovare agganci concreti sul territorio.

In questo modo è possibile avviare un lavoro più serio e profondo per quanto riguarda il recu­pero, rendendo più attuabili le 160 ore, i labora­tori e le attività integrative, creando comunque una maggiore fluidità ed elasticità nel lavoro da svolgere.

- Stiamo inoltre lavorando per dare più spazio nella scuola dell'obbligo all'operatività in modo da renderla meno teorica ed astratta e in modo che i bambini possano maggiormente diversifi­care le esperienze.

Vediamo come strumenti sia la creazione di laboratori di tipo creativo-artistico, sia di labora­tori che diano la possibilità di avviare un reale orientamento professionale o che tendano a ren­dere sempre più autonomo il bambino.

In questo senso auspichiamo una maggiore collaborazione con il territorio, con le ammini­strazioni comunali, con le scuole a carattere pro­fessionale.

Siamo infatti convinti che i bambini tutti, ma in particolare quelli handicappati, hanno bisogno di cominciare ad apprendere gradualmente anche abilità tecniche che potranno essere utili in un eventuale inserimento lavorativo. In questo sen­so ci sembra importante avviare incontri con chi opera per l'organizzazione del tempo libero. Si­curamente un lavoro di tipo integrativo al pome­riggio darebbe più possibilità di incontro anche per i bambini con difficoltà, che avrebbero in que­sto modo maggiori occasioni di apprendimento e di socializzazione.

- Per quanto riguarda il rapporto con l'équipe abbiamo pensato che la cosa migliore fosse la­vorare insieme in una reciproca compenetrazio­ne delle diverse competenze; la scuola deve però porsi il problema pedagogico-didattico senza de­legarlo, l'équipe deve definire le proprie compe­tenze in un confronto però con le altre situazioni non chiudendosi nel proprio «territorio ambula­toriale».

Abbiamo per questo motivo chiesto ed ottenu­to di istituire un gruppo di lavoro composto da rappresentanti della scuola elementare, delle due medie, dell'équipe ed abbiamo chiesto e non ancora ottenuto che a questo gruppo partecipas­sero membri della scuola materna, organizzatori del tempo libero per integrare i diversi interven­ti, per trovare soluzioni comuni.

Come primo passo si è riuscito a costituire dei gruppi che si impegnassero a lavorare sul passaggio dei bambini handicappati dalla scuola elementare a quella media, elaborando fin da ora una programmazione, preparando materiale e strutturando la scuola nel modo più possibile con­sono ai bisogni dei bambini che dovrà accogliere. Si sta inoltre discutendo il problema delle cer­tificazioni. Su questo tema sono emerse alcune indicazioni di massima anche se sono ancora in via di discussione.

Si è per prima cosa denunciata l'assoluta man­canza di omogeneità nei criteri adottati da chi deve svolgere questo servizio, per cui compaiono le diagnosi più disparate senza limiti precisi nel­la definizione degli handicap.

Si fa in genere largo uso di schematizzazioni molto rigide che non permettono di arrivare ad una definizione dei reali problemi che il bambi­no vive.

La certificazione segna un distacco netto tra chi opera e chi diagnostica, è cioè un atto pura­mente formale che persegue un unico scopo: giustificare «scientificamente» (o meglio dando una spolverata di scientificità) la richiesta che la scuola deve fare per ottenere aiuti che colmi­no le difficoltà che si incontrano nell'affrontare i problemi più disparati.

I rischi di questa logica sono grossi, primo fra tutti la tendenza a psichiatrizzare o patologizzare tutto per ottenere il più possibile.

Accenniamo ai problemi emersi da un primo incontro su questo tema. È importante definire attraverso quali meccanismi si arriva alla certi­ficazione. Nel nostro caso abbiamo rilevato che la maggioranza delle certificazioni si è attuata attraverso la segnalazione delle maestre elemen­tari. In questo senso risulterebbe un ruolo di puro supporto alle esigenze della scuola delle équipes che non hanno, almeno in questo campo, un ruolo autonomo che dovrebbe essere preventivo; una segnalazione, una individuazione immediata dei rischi potrebbero diminuire notevolmente la gra­vità di molti handicap.

Gli operatori si sono inoltre impegnati a por­tare la questione a livello di Unità locale per ren­dere il più possibile omogenei gli interventi o per lo meno socializzarli e verificarli in modo più collettivo possibile.

Si è pertanto concordato sull'utilità di rendere la certificazione l'atto inaugurale di una serie di altri interventi, rilevando i deficit relativi ad al­cune funzioni ma anche le potenzialità che segna­no le linee di intervento. Ci sembra inoltre ne­cessaria la verifica anno per anno della certifi­cazione, per la rilevazione dei cambiamenti av­venuti nel bambino e la programmazione degli interventi successivi.

- Abbiamo infine chiesto al distretto di ini­ziare un'indagine in tutte le scuole su come av­viene l'inserimento dei bambini handicappati con due scopi: il primo di avere un quadro conosciti­vo anche se sommario della situazione, il secondo di avviare un confronto, un dibattito, una so­cializzazione delle varie esperienze.

Si sono realizzati pertanto incontri con la par­tecipazione di rappresentanti di tutte le scuole, ed in un secondo tempo di tutte le équipes; si è elaborato un questionario in via di compilazione, si prevedono incontri operativi con i comuni, il provveditorato.

Si sono proposti per il prossimo anno corsi di aggiornamento che partano dalla situazione e dai problemi reali, corsi che dovrebbero durare tutto l'anno.

 

 

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