Prospettive assistenziali, n. 53, gennaio - marzo 1981

 

 

IL RECUPERO FUNZIONALE DELL'ANZIANO NON AUTOSUFFICIENTE

GIACOMO BRUGNONE

 

 

Le scuole di medicina riabilitativa, oltre a dif­ferenziarsi fra di loro per le tecniche usate, at­tribuiscono spesso un significato diverso al ter­mine di «recupero funzionale», imponendo all'opinione pubblica delle immagini di questo pro­blema che quasi sempre vengono recepite pas­sivamente.

Ci pare quindi indispensabile, prima di affron­tare questo argomento, definire l'esatto signifi­cato che attribuiamo ai concetti di recupero fun­zionale, riabilitazione, autosufficienza, emargina­zione ecc.. In questa sede non vogliamo propor­re una raccolta di indicazioni e tecniche riabili­tative, in quanto su tale argomento esiste già tutta una ricca letteratura a cui far riferimento, bensì affrontare il tema di quale debba essere il ruolo dei tecnici ed i contenuti e le modalità degli interventi riabilitativi.

La riabilitazione è purtroppo spesso considera­ta come la somma di manovre meccaniche (che si differenziano a seconda della scuola), esegui­te esclusivamente dai tecnici della riabilitazio­ne in apposite strutture, quasi sempre residen­ziali e raramente territoriali. Questo intervento è comunemente finalizzato al totale recupero della perduta o ridotta autonomia funzionale dell'invalido e, qualora ciò non sia possibile a ren­dergli accettabile l'emarginazione. Pur essendo convinti assertori dell'esigenza che gli operatori della riabilitazione debbano avere una formazio­ne professionale ineccepibile, continuamente ag­giornata, riteniamo che il loro intervento non debba limitarsi esclusivamente all'esecuzione di manovre meccaniche, ma andare ben oltre.

Un diverso intervento riabilitativo, tecnicamen­te e politicamente corretto, deve mirare al mag­gior recupero possibile delle funzioni perdute ed alla valorizzazione di quelle residue, e contem­poraneamente all'adattamento dell'habitat e dei vari momenti della vita di relazione dell'anziano con il suo entourage a tali possibilità funzionali, tenendo presente che queste sono suscettibili sia di miglioramenti ma più spesso di peggiora­menti.

Questo intervento deve mirare alla risocializ­zazione dell'invalido, resa possibile dalla colla­borazione concreta tra operatori, paziente, suoi parenti ed amici, e realizzata nel territorio, limi­tando al minimo indispensabile l'intervento re­sidenziale.

Ma l'esatto ruolo del recupero funzionale dell'anziano non autosufficiente, intervento tra il sociale ed il sanitario, potrà essere pienamen­te evidenziato solo se lo si collocherà nel più va­sto campo interdisciplinare del trattamento dell'anziano.

 

Le tecniche riabilitative.

Abbiamo accennato all'esistenza di svariate scuole di medicina riabilitativa, che hanno ela­borato loro metodi originali per il recupero fun­zionale dei motulesi o che hanno adattato o mo­dificato alle esigenze particolari delle loro uten­ze quelli esistenti. La nascita di queste scuole e la messa a punto o l'adattamento di queste me­todiche riabilitative, a cui ha fatto seguito il pro­liferare in ogni dove di centri per il recupero funzionale, non è stato un fatto casuale né tan­to meno la conseguenza di una spontanea evo­luzione scientifica, bensì la conseguenza della spinta di un poderoso movimento di opinione.

Enormi masse di cittadini «con potere con­trattuale», cioè che producono e che consuma­no, hanno imposto ad amministratori e politici di prevedere nei loro programmi, prioritariamente e concretamente, la promozione di questi tipi di interventi.

Se è pur vero che spesso questi interventi so­no stati tecnicamente inadeguati ed emarginanti, è anche vero che quelli validi sono in continua espansione e l'opinione pubblica è culturalmen­te orientata in quella direzione.

Anche nel settore del recupero funzionale de­gli anziani non autosufficienti, si trova una con­ferma a quanto abbiamo detto in altri lavori: chi non produce e/o non consuma, viene emargi­nato e ciò avviene in misura tanto maggiore quanto minore è la sua possibilità diretta o in­diretta di imporre delle scelte a chi detiene il potere. I servizi di riabilitazione sono sorti per soddisfare la richiesta di recupero funzionale de­ali invalidi di guerra, degli infortunati civili o da cause di lavoro, dei poliomelitici, dei cerebropa­tici infantili ecc.: tutta gente che poteva conta­re sulla concreta solidarietà dell'opinione pub­blica, dei sindacati e dei parenti in particolare.

Ben diverso è il destino riabilitativo dell'anzia­no non autosufficiente: un individuo che ha per­so ogni ruolo sociale, spesso privato del diritto alla salute e ad una vita economicamente e so­cialmente decorosa, senza potere contrattuale, i cui diritti sono male tutelati dalla «famiglia gio­vane», occupata a difendere i suoi propri diritti e ad uscire dalla crisi esistenziale in cui si dibatte. In questa situazione la non autosufficienza diviene spesso un alibi che la società (conscia­mente) ed i parenti (inconsciamente) adducono per escludere i vecchi. I figli lo accompagnano in cronicari-parcheggio eufemisticamente definiti «reparti di lungadegenza riabilitativa», ripro­mettendosi di farli rimanere il tempo minimo in­dispensabile alla loro riabilitazione, al recupero di una almeno parziale autosufficienza.

Trapiantato in queste realtà, allontanato dall'ambiente familiare, costretto a modificare le sue abitudini e a rinunciare alla sua «pricacy», per adattarsi ad un modello di vita funzionale non alle sue esigenze ma a quelle dell'istituzione to­tale, l'anziano va incontro ad un continuo regres­so psico-fisico, che da solo basterebbe a com­promettere irrimediabilmente ogni possibilità di recupero. Se poi a questi elementi si aggiunge l'assenza completa o la mistificazione dell'inter­vento riabilitativo, allora il quadro è completo e non è difficile immaginare quale sarà il destino del ricoverato. Altrove abbiamo ampiamente e chiaramente trattato del ruolo più corretto che deve svolgere la geriatria e ciò ci consente ora, senza ulteriori preamboli, di parlare della riabi­litazione geriatrica senza tema di essere tacciati di riproporre interventi settoriali o inutili specia­lizzazioni, funzionali esclusivamente agli interes­si dei tecnici.

La riabilitazione geriatrica non deve essere al­tro che una normale riabilitazione motoria, at­tuata nelle sedi obiettivamente più funzionali al­le esigenze dell'utente anziano, eseguita da nor­malissimi tecnici e fisiatri che, nella pratica quo­tidiana e durante i corsi di aggiornamento perio­dici, abbiano approfondito le modalità più ade­guate al trattamento di questo tipo di utenza.

Mentre la medicina geriatrica, nata come «me­dicina di serie B», per sistemare primari, è riu­scita pur con i suoi limiti, in presenza di condi­zioni favorevoli, a creare una sua scuola ed un suo positivo movimento culturale; la riabilitazio­ne funzionale geriatrica, nata anch'essa come «riabilitazione di serie B», o addirittura come mistificazione dell'intervento ed alibi per libe­rarsi degli anziani, è rimasta tale senza riuscire a produrre nulla di originale. Essa viene quasi sempre praticata da fisiatri e tecnici improvvi­sati, la buona volontà dei quali non è sufficiente a sopperire alla carenza di una seria preparazio­ne professionale. Altre volte invece, la praticano operatori che non avevano trovato una loro collo­cazione in «settori più gratificanti». In questo caso le cose non andranno meglio; dimentiche­ranno progressivamente e sempre più ogni no­zione professionale ed in capo ad un tempo più o meno lungo, limiteranno ad un ripetitivo lavo­ro di routine il loro intervento che non sarà per­sonalizzato, uguale per tutti i pazienti indipen­dentemente dalla loro patologia: esercizi di deambulazione tra le parallele, alle pulegge, al­le scale, alla sedia e tutta una serie di stupidi esercizi di ginnastica segmentaria; tutte cose queste che potrebbe fare altrettanto bene chiun­que, anche senza una particolare preparazione professionale.

Questi operatori, o per carenza di una seria preparazione o perché considerano transitorio questo lavoro, in attesa di poterlo cambiare al più presto, non produrranno nulla di originale, a differenza di quanto è avvenuto in altri settori della riabilitazione.

Nel campo della riabilitazione delle cerebro­patie infantili, Bobath è partito dall'analisi del comportamento del «bambino normale» e dall'osservazione delle varie fasi della sua evolu­zione motoria, mettendo a punto tutta una serie di metodiche che tendono ad inibire l'anomalia comparsa o il perdurare oltre il periodo fisiologi­co di riflessi e comportamenti motori anomali, e a stimolare quelli normali che tardano a compa­rire.

Kabath, partendo dall'osservazione di indivi­dui (perfettamente sani) in movimento, si rese conto che una rieducazione motoria che avesse continuato a basarsi esclusivamente sulla gin­nastica segmentaria, così come veniva fatto sino ad allora (e purtroppo continua ad essere fatta tuttora fra i tecnici improvvisati), era doppia­mente restrittiva sia perché si basava su movi­menti semplici che avvenivano esclusivamente intorno ad assi ortogonali fra di loro, sia perché provocavano una risposta motoria ed un coinvol­gimento muscolare limitato. Partendo da queste osservazioni, egli mise a punto un suo metodo originale che si basa su movimenti compositi, diagonali e spirali che interessano contempora­neamente più segmenti corporei e la cui esecu­zione, contro resistenza, mette in funzione rispo­ste motorie quantitativamente e qualitativamen­te migliori: tecniche di facilitazione neuromu­scolari.

Potremmo continuare per moltissime pagine ad elencare tecnici che hanno messo a punto lo­ro metodi: Klapp, Nieder Hoffert ed altri per la ginnastica vertebrale correttiva; Vojta per le ce­rebropatie infantili ed altri che hanno messo a punto metodi di rieducazione muscolare che sfruttano i riflessi posturali, quelli tendinei, quel­li noci-cettivi ecc.

Riabilitatori che hanno orientato la loro atti­vità verso il trattamento delle varie categorie di motulesi, hanno adattato alle loro esigenze queste tecniche, arricchendole con contributi origi­nali.

Fra questi creatori di scuole, senza dubbio il professor Milani Comparetti è uno fra i più ge­niali e fra i più seguiti; l'originalità e validità del suo metodo si basano su presupposti semplicis­simi: «ogni buon riabilitatore deve essere pa­drone e non schiavo delle varie tecniche, che deve saper usare discrezionalmente al momento opportuno; egli deve nel modo più assoluto rifiu­tare la delega a gestire da solo un processo di riabilitazione finalizzato al reinserimento sociale del paziente e che deve veder coinvolti i parenti del paziente e tutto il suo entourage. In questa operazione il tecnico deve progressivamente de­legare a questi ultimi la riabilitazione di routine, rimanendo sempre a loro disposizione per risol­vere nuovi problemi che potrebbero presentarsi e per modificare, qualora fosse necessario, il pro­gramma di lavoro».

Come si è detto sopra, ogni categoria di uten­ti ha avuto uno o più fondatori di scuole che so­no riusciti a produrre contributi originali e posi­tivi, non solo per la categoria specifica, ma per tutta la riabilitazione in generale; a questa rego­la solo la geriatria ha fatto eccezione.

La messa a punto di un tale metodo di riabili­tazione, che tenga conto particolarmente delle esigenze e delle caratteristiche dei soggetti an­ziani da trattare, è un capitolo della riabilitazione tutto da scrivere, e perché esso sia scientifica­mente valido deve tener conto di tutta una serie di elementi di cui qui di seguito ne elenchiamo soltanto alcuni:

- deve essere praticata da fisiatri e tecnici con una seria preparazione professionale di base, che, per libera scelta, decidano di esercitare nel settore degli anziani;

- la formazione nel settore specifico la si farà ricavando, con assoluta rigidità scientifica, dal lavoro di tutti i giorni gli elementi che differenziano il trattamento dell'anziano da quello tradizionale, elementi ed osservazio­ni che dovranno essere verificati durante i momenti di dibattito e di confronto all'inter­no dell'équipe interdisciplinare e durante gli stages di aggiornamento;

- nel mettere a punto i programmi di lavoro non si deve partire dall'osservazione del com­portamento motorio del bambino o dell'uomo giovane ma prendere come modello di riferi­mento l'anziano «sano», magari indebolito dall'età; di conseguenza l'obiettivo da perse­guire sarà quello del recupero più o meno completo della funzionalità tipica di questi soggetti;

- per le stesse ragioni si dovrà mirare a sop­perire all'eventuale mancato raggiungimento dell'autosufficienza completa, adattando l'ha­bitat ed i vari momenti della vita di relazione dell'anziano alle sue capacità funzionali resi­due, tenendo presente che esse sono, sì su­scettibili di migliorare, ma più spesso sono inesorabilmente destinate a peggiorare; particolare cura deve essere dedicata alla predisposizione di strumenti didattici acces­sibili ai non tecnici, in quanto i buoni risulta­ti della riabilitazione dipendono in gran parte dal fatto che l'intervento possa protrarsi nel tempo con una puntuale periodicità, il che sa­rà possibile solo se l'intervento di questi po­trà integrare il lavoro dei riabilitatori;

- primo elemento per tale realizzazione è l'im­pegno dei riabilitatori ad adattare il loro com­portamento (nel rapportarsi a questi pazien­ti) alle caratteristiche particolari delle loro patologie. Per fare alcuni esempi: l'arto frat­turato dell'anziano andrà trattato con lo stes­so scrupolo con il quale si rieducherebbe quello di un giovane, indipendentemente dal fatto che questi dovrà servirgli solo per reg­gere l'ombrello o il bastone o riprendere una attività produttiva. In luogo di escludere que­sti utenti dalla ginnastica vertebrale, si stu­dieranno esercizi compatibili con le loro pos­sibilità motorie residue.

Generalmente non si fanno eseguire a questi anziani tecniche di facilitazione neuromuscolari, adducendo la scusa che la loro esecuzione ri­chiede un notevole grado di partecipazione. La realtà è un'altra, esse richiedono una notevole preparazione professionale che non tutti i riabili­tatori posseggono. Non é infatti sufficiente sa­perla eseguire meccanicamente, è indispensabi­le esser capaci di provocare nel paziente una ri­sposta. Si tratterà quindi di sforzarsi di ricercare questa collaborazione. Altrettanto dicasi per nu­merosissime altre affermazioni. È indispensabi­le predisporre per ognuna di esse un program­ma personalizzato che tenga conto delle condi­zioni del paziente e delle sue capacità di colla­boratore.

- Infine va ricordato che la meticolosa classi­ficazione dei vari gradi di non autosufficien­za non reca alcun vantaggio pratico al recu­pero funzionale di questa categoria di pazien­ti e spesso viene usata come alibi da ammi­nistratori e burocrati per palleggiarsi il vec­chietto di cui nessuno vuol farsi carico; sa­rebbe quindi più opportuno parlare non di classificazioni ma di rilevazione delle condi­zioni funzionali, tenendo presente che esse sono suscettibili di continue evoluzioni. Quindi non etichettatura di una condizione de­finitiva di invalidità irreversibile bensì docu­mento tecnico per rilevare l'evoluzione del recupero e meglio programmare l'intervento riabilitativo stesso.

Da questa schematica introduzione dell'argo­mento, appare chiaro come l'intervento riabilita­tivo sia stato sinora sottoutilizzato e circoscrit­to quasi esclusivamente a quello ospedaliero, trascurando quasi completamente i trattamenti ambulatoriali e domiciliari.

 

Una riabilitazione diversa.

Si ha la sensazione che in molte realtà geria­triche, dove operano medici e tecnici democrati­ci, qualcosa stia mutando e si stiano creando i presupposti per poter lavorare in maniera di­versa. Molti operatori cominciano a rendersi conto che la mancata realizzazione di proposte da loro avanzate esclusivamente in sede di con­vegni, é stata conseguente non solo alla man­canza di spazi operativi e legislativi ed allo stra­potere di amministratori, burocrati e medici con­servatori, ma anche alla loro incapacità a con­cretizzare queste proposte, partendo magari da progetti minimali ed aggregando intorno ad es­si tutta una serie di forze sia interne che ester­ne al settore sanitario.

Credo sia stata l'incapacità degli operatori de­mocratici di concretizzare queste proposte più che lo strapotere delle forze conservatrici, a far sì che le cose non cambiassero.

Qui di seguito riportiamo, correndo il rischio di essere banali, tutta una serie di indicazioni in parte realizzabili da subito ed in parte a tem­pi più o meno brevi, a condizione comunque che vi sia da parte degli operatori la concreta volon­tà di lavorare per questo cambiamento e la di­sponibilità, come si è detto sopra, ad uscire dal loro ruolo di « tecnici neutrali », per confrontarsi con le forze sociali disponibili ed assieme a que­ste elaborare e portare avanti il processo di cambiamento.

Questa diversa riabilitazione, per essere consi­derata tale, deve garantire l'interdisciplinarietà e la continuità del suo intervento. Non solo i ria­bilitatori ma anche gli altri operatori sanitari che seguono il paziente, dovranno contribuire alla formulazione ed alla buona riuscita del pro­gramma riabilitativo, con osservazioni ed indi­cazioni inerenti le loro discipline specifiche, co­sì che questo programma sia finalizzato ad una risposta globale delle esigenze di recupero fun­zionale del paziente, viste da angolature diverse.

L'ideale sarebbe che la stessa équipe potes­se seguire il paziente durante le varie fasi della sua malattia e riabilitazione: in ospedale, in strutture semiresidenziali o ambulatoriali e a domicilio. Ciò non è possibile da subito; però in attesa che una diversa organizzazione dei servi­zi sanitari consenta meccanismi di rotazione o di contemporaneo lavoro degli stessi operatori in più strutture, si deve assolutamente iniziare a far qualcosa che vada in quella direzione.

Una volta conclusa una fase di trattamento, l'équipe che l'ha eseguita, non dovrà scaricare il paziente come un pacco, dovrà seguirlo ade­guatamente nelle fasi successive che possono essere: la dimissione per avviarlo ad un trat­tamento territoriale, o l'accettazione per avviar­lo ad un trattamento residenziale ospedaliero. In questa prima fase, sarebbe già una bella cosa se l'équipe, nel trasferire il paziente ad altro ser­vizio, lo seguisse nella fase iniziale mettendo a disposizione dei nuovi riabilitatori tutte le in­formazioni e le indicazioni inerenti il caso, di cui sono in possesso e possibilmente almeno un terapista collaborasse con loro nella messa a punto del nuovo programma di lavoro.

Per la messa a punto e l'attuazione di un buon programma riabilitativo, debbono essere curati in modo particolare alcuni suoi momenti:

- il primo contatto: l'approccio col paziente e col suo entourage;

- l'obiettiva valutazione delle condizioni fun­zionali residue e delle possibilità di recupero; - la messa a punto di un primo programma di lavoro, tenendo presente che comunque es­so deve essere considerato dinamico, quin­di suscettibile di continue modifiche;

- la disponibilità a collaborare in maniera con­creta con quanti dovranno modificare l'habi­tat e le varie fasi della vita di relazione del paziente col mondo che lo circonda, adattan­dolo al suo residuo funzionale e tenendo pre­sente che questo può essere suscettibile sia di miglioramento, ma più spesso di peggio­ramento;

- il lavoro didattico e di consulenza, per con­sentire (una volta impostato il programma riabilitativo e svolto un primo ciclo di trat­tamento intensivo) a tecnici generici e pa­renti di eseguire la riabilitazione di routine;

- in attesa che venga generalizzato l'utilizzo dell'operatore sanitario unico, che oltre a prendersi cura delle esigenze di tutti i giorni del paziente e ad eseguire la riabilitazione di routine e fungere da notaio dei suoi bisogni, sarà il fisioterapista a segnalare all'équipe ogni osservazione che consenta di adeguare il programma terapeutico e riabilitativo alle evoluzioni del quadro clinico del paziente. Nei trattamenti ambulatoriali e domiciliari questo ruolo verrà assunto dal «curatore», cioè dal componente della famiglia che più degli altri si prenderà cura del paziente;

- la gravità del fenomeno patologico e la sua data di insorgenza;

- la precocità o meno dell'inizio della riabili­tazione;

- le condizioni fisiche generali del paziente e la prognosi;

- il livello culturale ed il grado di collaborazio­ne del paziente e dei suoi parenti.

Queste considerazioni valgono non per privi­legiare i meno colpiti o con prognosi più favore­vole, ma per perseverare nel trattamento degli al­tri che sono più svantaggiati.

La fase di approccio dell'équipe (e del terapista in particolare) col paziente e con i suoi pa­renti ed amici, dovrà essere curata attentamen­te perché spesso dipende da essa la qualità dei risultati. In questa delicata fase i riabilitatori debbono tener ben presenti alcune regole: il loro rapporto con gli utenti (e loro parenti) deve es­sere molto equilibrato; non debbono schiaccia­re i loro interlocutori, imponendo il loro ruolo di tecnici, né farsi sopraffare dalle loro ansie; deve essere stabilito un rapporto di reciproca fiducia e rispetto che non sfoci in eccessiva fa­miliarità, cosa questa che potrebbe compromet­tere i rapporti interpersonali ed i risultati stes­si della riabilitazione; non dovranno essere la­sciati intravedere irrealizzabili risultati.

Ma soprattutto i riabilitatori non dovranno ac­cettare la delega a gestire da soli questo pro­cesso; come abbiamo detto sopra, essi dovran­no mettere a disposizione di tutti coloro che circondano l'anziano ogni loro conoscenza facil­mente trasmissibile e sforzarsi di far sì che que­sti riescano ad eseguire correttamente le mano­vre apprese, assicurando la loro consulenza ogni qualvolta questa venga richiesta e vigilando af­finché questo diverso modo di lavorare non va­da a discapito dei risultati, riprendendo diret­tamente in cura il paziente ogni qualvolta ciò dovesse essere necessario.

 

Un trattamento integrato

Per giustificare la discriminazione che viene fatta a danno degli anziani cronici e degli acuti con prognosi sfavorevole, si dice che la carenza di personale specializzato non consente di gene­ralizzare l'intervento riabilitativo che deve per­tanto essere limitato esclusivamente a coloro che presentano maggiori possibilità di recupero.

Molto vi sarebbe da dire su questo tipo di va­lutazione morale, ma ciò ci porterebbe a divaga­re; ogni paziente ha eguale diritto ad essere trat­tato: l'acuto perché ha maggiori possibilità di re­cupero, il cronico perché è stato sinora ingiusta­mente trascurato ma soprattutto perché è falsa l'affermazione secondo la quale non vi è in que­sti pazienti più nessuna possibilità di recupero. Non si può attendere che vengano adeguati gli organici dei riabilitatori (quasi ovunque inade­guati) per avviare questi processi di trasforma­zione; già da subito si può iniziare a fare qual­cosa. I terapisti potrebbero iniziare a delegare agli operatori sanitari generici parte del loro la­voro di routine: far camminare i pazienti, esegui­re semplici esercizi di ginnastica segmentaria, di terapia occupazionale ecc.; ed utilizzare il tempo così risparmiato nell'esecuzione di cicli di trattamento intensivo limitati nel tempo e nella programmazione e consulenza dei piani di lavoro che dovranno poi essere eseguiti dai tec­nici generici o dai parenti, a seconda che il pa­ziente sia ricoverato o rimanga a casa.

In sintesi: i terapisti dovranno continuare a vi­gilare sull'evoluzione del caso, modificando di volta in volta il programma e riprendendo il trat­tamento intensivo tutte le volte che ciò sia ri­chiesto da obiettive esigenze terapeutiche. L'an­ziano reagisce in maniera spesso diversa dal giovane all'insorgere di fatti morbosi, cadendo spesso in stati di confusione mentale e debilita­zione per fenomeni che nel giovane passerebbe­ro inosservati o regredirebbero rapidamente. Questa osservazione ci deve indurre a dedicare la maggior cura possibile all'approccio col pa­ziente ed alla messa a punto del programma ria­bilitativo che deve essere la sintesi delle osser­vazioni sul paziente fatte da tutti i componenti dell'équipe.

Si è detto che la perdita di autosufficienza nell'anziano è conseguente spesso ad un interven­to riabilitativo tardivo o inadeguato o ad un in­tervento precoce che non si è però protratto nel tempo; ciò si verifica soprattutto nelle sequele di disturbi vascolari del sistema nervoso cen­trale, che sono fra le cause più frequenti di in­validità nell'età senile e presenile.

E' stato statisticamente dimostrato che qua­lora venga iniziata entro le quarantotto ore dall'insorgenza dell'ictus sia la terapia intensiva che il recupero funzionale, si ha una notevole riduzione sia della mortalità che dell'invalidità.

A sostegno di questa esigenza di intervento precocissimo da realizzarsi in una sezione di te­rapia intensiva multidisciplinare del dipartimen­to di emergenza ed accettazione, riportiamo qui di seguito tutta una serie di dati ricavati dalla rivista inglese «The Stock». Dal 1959, anno di avvio della riorganizzazione dei reparti per acu­ti con l'avvio del servizio di terapia riabilitativa precoce, al 1974, la mortalità dei ricoverati scende dal 57 al 22 per cento. Prima di tale da­ta, solo il 28 per cento dei ricoverati ritornava a casa; in 15 anni questa percentuale è quasi tri­plicata, passando al 73 per cento dei ricoverati, mentre i trasferiti in cronicari sono stati il 5 per cento del totale: dati questi suscettibili di ulteriori miglioramenti.

Altro dato incoraggiante è rappresentato dal fatto che circa il 50 per cento dei pazienti trat­tati precocemente riesce a conseguire un'auto­sufficienza più o meno totale.

Il grado di autosufficienza di questo paziente deospedalizzato è però suscettibile, sia di mi­gliorare, in presenza di condizioni favorevoli (ha­bitat confortevole e strutture territoriali socio­sanitarie), sia di peggioramenti qualora queste non sussistano.

Secondo la stessa fonte sono stati controllati, dopo 6-10 settimane dal loro ritorno a casa, cir­ca 900 pazienti, e le osservazioni emerse sono le seguenti:

- rimangono a casa circa l'80 per cento delle persone che vivono in famiglia;

- la concreta presenza del medico, che si oc­cupa dell'anziano invalido, consente la per­manenza a casa dei dimessi, anche se la fa­miglia non può svolgere un effettivo ruolo assistenziale;

- le buone condizioni abitative consentono la permanenza a casa del 90 per cento dei di­messi;

- la presenza di strutture territoriali socio-sa­nitarie di sostegno, la collaborazione di fami­liari e la disponibilità del medico a seguire concretamente l'anziano, riducono di un ul­teriore 10-20 per cento l'esigenza di protrar­re la degenza ospedaliera;

- l'estrema povertà è causa di ritorno in ospe­dale nel 95 per cento dei casi; tale percen­tuale diminuisce del 5 per cento se vi è un servizio di assistenza domiciliare e di un'ul­teriore 3 per cento ove esista un ospedale diurno.

Questi ed altri dati facilmente reperibili do­vrebbero costituire per amministratori e politici elementi di riflessione; ciò è particolarmente at­tuale, in previsione del concreto avvio delle Uni­tà locali e della formulazione dei piani regionali socio-sanitari. Fra le altre cose sarebbe indispen­sabile che essi tenessero presente che va ri­vista l'attuale organizzazione dell'intervento ria­bilitativo residenziale ospedaliero, finalizzando­lo prioritariamente al trattamento precocissimo al letto del paziente o comunque nel reparto di degenza: Tutto ciò comporterà necessariamente una radicale trasformazione dell'organizzazione del reparto di degenza, così da consentire l'at­tuazione di questi ed altri interventi terapeutici e riabilitativi che attualmente vengono svolti al­trove.

In presenza di condizioni politiche favorevoli e della disponibilità degli operatori, un tale pro­getto minimale, che includa inizialmente solo alcune salette di degenza, potrebbe partire da subito utilizzando le possibilità di mobilità vo­lontaria degli operatori all'interno dell'ospedale e predisponendo assieme agli amministratori un concreto progetto operativo che contenga indi­cazioni su come si vogliono utilizzare questi ope­ratori (alcuni necessariamente a tempo pieno, altri a tempo parziale, prendendoli in prestito dagli altri servizi, per il tempo minimo indispen­sabile a svolgere questo lavoro).

Un tale progetto non richiede grossi investi­menti né particolari attrezzature né modifiche delle strutture; il tutto è facilmente reperibile utilizzando i mezzi economici e tecnici ordina­ri a disposizione dell'ospedale. Le attrezzature per un tale progetto sono semplici e poco co­stose; spesso la richiesta di sofisticate macchi­ne, risponde più ad una distorta concezione di prestigio del reparto che a reali esigenze tec­niche.

Il soddisfacimento dell'esigenza degli opera­tori di veder realizzata la loro corretta profes­sionalità e quindi di svolgere un lavoro più qua­lificato, è un notevole incentivo e siamo convinti che, dopo l'avvio, l'ampliamento e la generaliz­zazione dell'esperimento diverranno automatici.

Grande importanza va attribuita al trattamen­to precocissimo di questo tipo di pazienti, per­ché da ciò dipende il loro destino riabilitativo: la possibilità di recuperare una più o meno com­pleta autosufficienza e quindi di rientrare nel loro ambito familiare e sociale o al contrario di di­venire cronico ed essere confinato in strutture emarginanti. L'attuale confusione ideologica (o malafede) in materia di riabilitazione, fa sì che, in alternativa ad un intervento inadeguato, si proponga una riorganizzazione tecnicistica dei re­parti per acuti e cronici: suddividendoli in set­tori attraverso i quali far ruotare i pazienti, a seconda della evoluzione delle loro condizioni e del tipo di richiesta dell'intervento, quasi una catena di montaggio della riabilitazione.

Tutto ciò sarebbe psicologicamente e material­mente nocivo per l'anziano che vedrebbe accre­sciuta la sua confusione mentale, dovendosi am­bientare continuamente a nuove situazioni, e di nessuna utilità ai fini del recupero funzionale. Molto meglio sarebbe anche in questi casi l'uti­lizzo di un'unica struttura muraria e l'adozione della prassi del «progressive patient cure».

Non si comprende in che potrebbero consiste­re le contraddizioni nell'ospitare in una stessa struttura pazienti acuti e pazienti da decroniciz­zare. Infatti, se è pur vero che esiste una netta differenziazione di trattamento fra queste due categorie di pazienti, è altrettanto vero che ogni intervento riabilitativo, personalizzato, cioè stu­diato su misura per quel paziente e non per al­tri, non potrà non essere diverso da caso a caso. Per gli anziani la negazione del diritto alla salu­te che si concretizza col rifiuto di accoglierli in normali strutture ospedaliere o di trattarli nei servizi territoriali, non riguarda i «cronici recu­perabili» bensì i «non autosufficienti irrecupe­rabili», che sono spesso il frutto di un interven­to riabilitativo inadeguato o addirittura mistifi­cante e che vengono classificati come tali secon­do una logica che spesso tiene esclusivamente conto delle loro possibilità di recupero spon­taneo.

Questa logica va respinta senza mezzi termi­ni, sia perché non esiste in assoluto nessun pa­ziente bisognoso di intervento sanitario (nel no­stro caso riabilitativo) che non possa trarre gio­vamento da un trattamento adeguato: beneficio che potrà concretizzarsi con un più o meno grande recupero di autosufficienza o come pre­venzione del peggioramento delle sue condizioni.

Non si tratta quindi di negare loro questo di­ritto, ma di programmare un diverso intervento che meglio risponda allo scopo che ci prefig­giamo.

Attualmente una vasta area del settore assi­stenziale e dei servizi sanitari territoriali è co­perta esclusivamente dagli ospedali o è addirit­tura sguarnita; pur condividendo il parere di quanti negano all'ospedale una tale funzione, non possiamo accettare il dato di fatto secondo il quale, ad un anziano indigente bisognoso di in­tervento sanitario (o riabilitativo), comodamen­te erogabile in servizi territoriali che non esisto­no, venga rifiutato il ricovero. Provveda il servizio sanitario nazionale ad erogare nella sede più idonea gli interventi richiesti e qualora questa non esista, vi provveda comunque utilizzando quelle esistenti, anche se non sono le più ade­guate, e non si continui a trasformare il proble­ma degli anziani non autosufficienti da fatto so­ciale a fatto individuale, lasciando che questi siano costretti a trovare privatamente una risposta ai loro bisogni.

In questa logica si inserisce il problema dell'intervento sanitario e riabilitativo erogato dal­le case di riposo e di conseguenza del loro co­sto, che nonostante i recenti provvedimenti na­zionali e regionali, è ancora a parziale carico de­gli utenti o comunque del settore assistenza.

Questa impostazione del problema va respin­ta, anche perché favorisce il sorgere di un ser­vizio sanitario di «serie B», direttamente gesti­to dalle case di riposo, con suoi organici ed at­trezzature, in contrapposizione a quello sanitario nazionale che eroga gratuitamente nelle sedi più appropriate (o almeno dovrebbe essere così) ogni intervento sanitario agli anziani come a tut­ti gli altri cittadini.

In attesa di poter concretamente superare le case di riposo, si deve provvedere allo scorpo­ro delle loro rette, perché non è ammissibile che questi cittadini, oltre a dover continuare a subi­re l'emarginazione, debbano anche pagarsela.

Lo scorporo delle rette dovrebbe far sì che si arrivi alla retta unica, che copra le sole spese al­berghiere; i maggiori costi dovuti alla condizio­ne di non autosufficienza dovranno essere rim­borsati dal servizio sanitario nazionale, mentre ogni intervento terapeutico, preventivo o riabi­litativo deve essere direttamente gestito da que­st'ultimo e non lasciato in appalto alle case di riposo.

Riprendendo ora il discorso sull'organizzazio­ne del servizio di riabilitazione ospedaliera ed ambulatoriale, prima di verificare la validità di quelli attuati o definire i nuovi criteri a cui essi dovrebbero ispirarsi, sarà opportuno chiedersi come abbiamo fatto noi all'inizio: a che cosa de­ve essere finalizzato un diverso servizio di recu­pero funzionale. Se questo deve essere finaliz­zato al recupero di quei pazienti che hanno co­munque una prognosi favorevole e all'etichetta­tura di «irrecuperabile» per gli altri, in questo caso basterà potenziare gli organici degli attua­li servizi, acquistare nuove e sofisticate attrez­zature e generalizzarli in tutte le realtà ospeda­liere e territoriali, continuando l'attuale lavoro di routine.

Se invece concordiamo nel fatto che l'invalido debba mirare ad un recupero funzionale che gli consenta, magari con un adeguato adattamento del suo habitat, di raggiungere un'autosufficienza tale da consentirgli di curare il suo corpo, abita­re la sua camera e la sua casa (possibilmente il suo quartiere e la sua città), e ad accedere a tutte le occasioni di socializzazione; in questo caso bisognerà rivedere tutto: il concetto di ria­bilitazione, la formazione e l'aggiornamento de­gli operatori, il loro ruolo, la definizione delle sedi e delle modalità di intervento più idonee; quasi una rifondazione del concetto di riabilita­zione geriatrica.

Ma per avviare un tale processo non possia­mo attendere che si creino le condizioni ideali è indispensabile partire da subito, con progetti minimali, prefigurando «sul campo» i modelli che domani dovranno essere generalizzati.

L'intervento riabilitativo residenziale ha ragio­ne di essere esclusivamente finché lo imporran­no ragioni di obiettività terapeutica, e dovrà di­venire semiresidenziale, ambulatoriale o domi­ciliare non appena queste lo consentiranno. Parallelamente alla revisione degli obiettivi da raggiungere, bisognerà riorganizzare il lavoro dei servizi di riabilitazione: non è ulteriormente ac­cettabile che ogni paziente venga trattato per non più di mezz'ora giornaliera cinque volte la settimana e spesso anche meno a causa di una indisposizione sua o del terapista o del portanti­no o per incompatibilità fra i tempi di lavoro di questo servizio con quelli del reparto di degenza.

Se riusciremo a coinvolgere in questo lavoro anche operatori generici e parenti dei pazienti, lasceremo più spazio ai terapisti per occuparsi di un lavoro di messa a punto e verifica di più vasti programmi riabilitativi.

Dopo di ciò, dovrebbero essere progressiva­mente sostituiti gli attuali esercizi in palestra, spesso non finalizzati e poco gratificanti, con un programma più rispondente a questa logica e che prepari veramente il paziente alla fase riabi­litativa successiva, quella dell'inserimento so­ciale.

In questa diversa ottica il terapista potrebbe curarsi di un ristrettissimo numero di pazienti. Partendo dalle loro condizioni generali e dal lo­ro residuo funzionale, egli predisporrà un piano di lavoro che occupi i pazienti per l'intera gior­nata, durante la quale si alterneranno momenti di sperimentazione di nuovi esercizi e di nuovi sussidi riabilitativi a momenti di esecuzione del programma vero e proprio (esercizi chinesitera­pici e terapia occupazionale).

Un buon riabilitatore dovrà saper attingere a piene mani dalle tecniche già sperimentate, adat­tandole alle particolari esigenze dei suoi pazien­ti. Bobath potrà ispirare esercizi in posizione qua­drupedica, intermedia, in ginocchio, il teeping, la stimolazione dei riflessi di equilibrio, e tutta una serie di altre metodiche generalmente uti­lizzate per il trattamento delle cerebropatie in­fantili.

Anche l'anziano più confuso potrà trarre mag­gior giovamento da schemi motori diagonali-spi­roidali (che molto si avvicinano alle tecniche di Kabath) in luogo della banale ginnastica segmen­taria. Ma forse uno degli aspetti sinora più tra­scurati del problema consiste nella ricerca di sussidi riabilitativi ed accorgimenti capaci di compensare i deficit funzionali e renderli compa­tibili con le esigenze di autosufficienza del pa­ziente. Questo obiettivo verrà raggiunto solo se riusciremo ad educare o inventare (stimolando­ne adeguatamente la comparsa) funzioni colla­terali a quelle distrutte e/o adattando l'habitat alle sue condizioni funzionali.

Per raggiungere questi obiettivi sarebbe op­portuno limitare al minimo indispensabile il la­voro in palestra, privilegiando invece il reparto di degenza e le strutture ospedaliere destinate al tempo libero (soggiorno, corridoi, scale, giardi­no, ecc.).

A questo aspetto della riabilitazione, sinora trascurato, va dedicato ogni nostro impegno, per­ché da esso dipende il destino riabilitativo dell'anziano e la possibilità che egli possa continua­re a rimanere fra di noi.

Se è vero che spesso la «famiglia giovane» rifiuta il vecchio, è anche vero che molte volte chiede pochissimo per continuare a tenerselo in casa: la sicurezza di poter contare sull'assisten­za saltuaria e sui consigli di un terapista, di me­dici e paramedici, sull'insegnamento per usare semplici attrezzature sanitarie quali l'aspirato­re per- il catarro, l'apparecchio per l'aerosol, per la misurazione della pressione ecc., sull'in­segnamento per poter eseguire semplici inter­venti infermieristici e rieducativi, tutte cose fa­cilmente realizzabili dopo brevi corsi di educa­zione sanitaria e pratiche infermieristiche, che possono essere facilmente realizzate ovunque. Ricevere consigli pratici sul come adattare la casa al residuo funzionale del paziente: corri­mano, maniglioni, adattamento della vasca da bacino o della doccia ecc.

Altre volte basterebbe l'installazione di un ci­tofono e la disponibilità di un vicino a venirgli in aiuto nei periodi di assenza dei parenti.

E si potrebbe continuare a lungo senza esau­rire l'elenco delle piccole difficoltà a cui posso­no andare incontro un invalido e la sua famiglia, tutti problemi che esaminati caso per caso, con un po' di buona volontà, potrebbero essere facil­mente risolti.

 

Conclusioni.

Nonostante i limiti di un'analisi così somma­ria, riteniamo sin d'ora di poter anticipare delle considerazioni, rimandando l'approfondimento dei vari aspetti della riabilitazione in geriatria al dibattito che ci auguriamo di aver contribuito a provocare:

- la riabilitazione dell'anziano non deve esse­re l'ottusa applicazione di tecniche generiche a questo tipo di paziente; partendo dall'an­ziano, dai suoi limiti e dalle sue possibilità deve essere messo a punto un programma riabilitativo più originale;

- sarebbe limitativo circoscrivere questo in­tervento alle sole manovre chinesiterapiche; essa deve comprendere anche l'adeguamen­to dell'habitat alle possibilità funzionali dell'anziano e la rimozione delle barriere psico­logiche e culturali che lo circondano;

- il recupero funzionale è un intervento interdi­sciplinare che non deve essere eseguito esclusivamente da riabilitatori, ma deve ve­der coinvolti anche tecnici generici, parenti ed amici del paziente, opportunamente adde­strati e seguiti;

- l'intervento residenziale ospedaliero e l'uti­lizzo dei tradizionali servizi di recupero fun­zionale debbono essere circoscritti ad esi­genze di obiettività riabilitativa; in tutti gli altri casi, va privilegiato l'intervento territo­riale adeguatamente organizzato;

- la programmazione di strutture residenziali per non autosufficienti, così come è stata pro­pasta da alcune Regioni, va respinta in quan­to è funzionale alla vecchia logica, secondo la quale vengono riabilitati esclusivamente pa­zienti in fase acuta o comunque tutti coloro per cui si prevede una prognosi favorevole o un regresso spontaneo del fenomeno inva­lidante, abbandonando tutti gli altri al desti­no di «cronici»;

- una diversa riabilitazione ridurrebbe notevol­mente la percentuale di non autosufficienti prevista da molte Regioni, circoscrivendola a pazienti obiettivamente bisognosi di ricove­ro ospedaliero o da dislocarsi in numero di uno o due per gruppo in comunità alloggio per autosufficienti, purché adeguatamente as­sistiti dal medico di base e dalle strutture specialistiche dei servizi territoriali.

 

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