Prospettive assistenziali, n. 53, gennaio - marzo 1981

 

 

Editoriale

 

I PROBLEMI DEL PERSONALE DOPO IL DPR 616 E LA LEGGE DI RIFORMA SANITARIA (1)

 

 

Un personale per che fare?

Il problema del personale dei servizi socio-sa­nitari è collocato anch'esso nella strategia ge­nerale del movimento delle autonomie e delle ri­forme.

Realisticamente occorre partire dalla situazio­ne esistente, con i suoi aspetti che così ben si esprimono, ad es., nei decreti n. 761 e n. 633 ambedue del 20.12.79.

Ma se si vuol riformare effettivamente - così che il cittadino si accorga che il sistema di tu­tela della salute, di aiuto sociale, di promozione socio-culturale funziona diversamente e per lui meglio che in passato - occorre con gradualità e fermezza attuare gli obiettivi e le nuove meto­dologie che le riforme affermano. Frammenta­zione, settorialismo, rinvio di responsabilità tra organismi diversi, prevalere delle esigenze delle strutture e degli operatori sono le caratteristiche del sistema attuale che con le riforme si intende modificare. La forza delle abitudini, degli interes­si consolidati dalla cultura sociale e professio­nale dà per scontato che ciò non avverrà per moto spontaneo e che il processo non è né fa­cile né breve.

In particolare l'impegno di unitarietà e di glo­balità trova in concreto molte resistenze e diffi­coltà di vario genere. Occorre ricordare che il DPR 616/77 impone allo Stato, alle Regioni, ai Comuni associati l'avvio di un processo in tal senso.

La legge di riforma sanitaria lascia alle Regio­ni la responsabilità legislativa ed ai Comuni as­sociati quella attuativa di un impegno effettivo di «coordinamento ed integrazione» fra i vari settori attualmente esistenti di servizi. La ten­denza invece a ripetere esperienze note e nefa­ste di settorialismo, tecnicismo e burocraticismo è sotto gli occhi di tutti come rischia di configu­rarsi anche nell'avvio della riforma sanitaria. Oc­corre eliminare tali tendenze negative perché ol­tre all'affossamento delle autonomie locali, esse si ripercuotono negativamente sulla popolazione e sulle sue reali esigenze. Occorre altresì avere ben chiaro che il problema del personale viene affrontato in modo e con sbocchi completamen­te diversi a seconda che lo si ponga nel quadro di una politica sociale fondata sulla globalità ed unitarietà, sull'informazione e programmazione partecipate, sul decentramento dei servizi e delle prestazioni che consideri e valorizzi le specifi­cità delle singole realtà locali, ovvero lo si veda con l'ottica tradizionale di settorialismo, di verti­cismo, di formalismo burocratico e di privatismo professionale.

Da ciò derivano impegni concreti:

- a livello nazionale: a non bloccare l'impe­gno riformatorio delle Regioni che punti alla rea­lizzazione - per quanto riguarda i Comuni non metropolitani - delle Associazioni dei Comuni (o Comunità Montane) come aggregazione progres­siva ed unitaria di funzioni in tutti i campi dello sviluppo locale, ma a facilitarlo anche approvan­do rapidamente a livello parlamentare le riforme necessarie e cioè quella dell'assistenza sociale, delle autonomie locali e della finanza locale.

- da parte delle Regioni: nell'impegno legi­slativo e normativo prioritario di attuazione del DPR 616 e dell'ultimo camma dell'art. 15 della ,legge di riforma sanitaria, attribuendo così un ruolo rilevante alle Associazioni dei Comuni e alle Comunità Montane, nel quadro del processo programmatorio regionale che valorizzi decentra­mento e coinvolgimento delle realtà locali, evi­tando legislazioni e finanziamenti settoriali (per servizi singoli o per categorie di utenza).

- da parte dei Comuni: dando effettivo e non formale apporto alla creazione di una Associazio­ne, che tenda ad essere plurifunzionale (almeno per il titolo III del DPR 616), senza logica accen­tratrice e con un forte impulso ai «distretti di base» (non concepiti rigidamente e burocratica­mente); gli statuti ed i regolamenti delle Asso­ciazioni tra Comuni sono strumenti importanti per tener conto delle volontà politiche e delle specificità delle singole zone.

Il vincolo attuale, conseguente alla L. 833/78, di bilanci e ruoli di operatori specifici per il set­tore sanitario pone certo delle remore, che van­no però svuotate:

- con una effettiva programmazione integra­ta, fondata sul decentramento nei distretti di ba­se e su progetti obiettivo finalizzati ai rischi dif­fusi ed aggredibili (e non per categorie);

- con bilanci, che consentano e favoriscano le iniziative dei distretti di base e lo sviluppo dei progetti obiettivo, nei quali la indicazione delle spese più specificamente sanitarie sia sola una contabilità di previsione e di rendicontazione;

- con una contrattazione di tutto il personale della funzione pubblica che tenda ad omogeneiz­zare i trattamenti economici e normativi, assor­bendo al suo interno senza contrapposizione il settore più specificamente sanitario.

Un altro impegno rilevante che si impone nel breve tempo per chi crede e opera per la rifor­ma è la realizzazione dei distretti di base.

La legge di riforma sanitaria (che li definisce «strutture tecnico-funzionali per l'erogazione dei servizi di primo livello e di pronto intervento») e le conseguenti leggi regionali non specificano molto in proposito.

Ciò può risultare positivo perché lascia uno spazio alla sperimentazione di modelli di distret­ti di base fondati sulla specificità delle singole realtà. Piuttosto è nella realizzazione della piani­ficazione regionale e locale, negli statuti e nei regolamenti, che si dovranno trovare indicazioni flessibili e dinamiche sulla loro attivazione e sul loro ruolo rispetto agli obiettivi ed ai «progetti» per raggiungerli. Ciononostante alcune precisa­zioni appaiono necessarie per evitare equivoci ed il pericolo incombente di usare i vecchi schemi organizzativi e metodologici concependo il di­stretto di base come un «ufficio periferico dell'Unità locale».

Sembra importante sottolineare che il distret­to di base è - su un dato territorio che costitui­sce «parte» quanto più possibile logica dell'Uni­tà locale - una organizzazione della comunità locale e degli operatori ivi impegnati, per la tu­tela della salute, dell'aiuto sociale, della promo­zione socio-culturale. Non si tratta quindi di un livello istituzionale, bensì funzionale e sociale. Esso risponde all'esigenza affermata dalle leggi di riforma e dall'impegno del movimento delle autonomie in questi anni non solo di «unitarietà e globalità» di cui si è detto, ma anche di:

- realizzare interventi integrati che utilizzino pur diverse capacità professionali ma che consi­derino e affrontino i problemi delle persone, del­le famiglie, delle comunità locali nella loro com­plessità;

- privilegiare la risposta ai bisogni ed alle esigenze nello stesso ambiente familiare e so­ciale di appartenenza del cittadino in difficoltà, riducendo alle situazioni che effettivamente lo richiedono il ricovero ospedaliero od assistenzia­le e per il tempo strettamente necessario;

- adattare costantemente l'organizzazione ed il funzionamento degli interventi ai bisogni pro­prii della popolazione della zona, non usando mo­delli rigidi e burocratici, ma anzi coinvolgendo le persone ed i gruppi disponibili nell'analisi dei bisogni e dei rischi, nella proposta e nella veri­fica dei piani di lavoro, nell'impegno di volonta­riato e di solidarietà;

- dare effettiva e concreta priorità alla pre­venzione delle cause individuate di mortalità, ma­lattia, handicap, disadattamento ed emarginazio­ne, e non solo alla cura come prevalentemente è avvenuto finora;

- realizzare un sistema di programmazione ed informazione che non sia centralistico e bu­rocratico, ma scaturisca dalle realtà locali spe­cifiche, dall'autonoma partecipazione dei cittadi­ni e dei gruppi sociali, sollecitata e valorizzata;

- costruire una presa di coscienza ed un im­pegno anche autonomo dei cittadini rispetto alla tutela della loro salute ed alla lotta contro l'emar­ginazione.

Dal punto di vista organizzativo il distretto di base adotta una metodologia di lavoro (con una o più équipes di base) in un'ottica «orizzontale», e non più «verticale» per servizi e settori ope­rativi.

Di conseguenza si ritiene necessario la nomi­na di un «coordinatore del distretto» con fun­zioni esclusivamente organizzative.

Mappa dei rischi, piani di lavoro, verifiche pe­riodiche debbono portare ad autonomia e tempe­stività dell'azione degli operatori nel quadro del­la pianificazione generale dell'Unità locale.

Ciononostante il distretto di base ed i suoi operatori non debbono porsi in una logica au­tarchica, di isolamento ed autosufficienza. I ser­vizi a livello di Unità locale (in specie l'ospeda­le) e le competenze professionali e tecniche dell'Ufficio di direzione sono anche, e soprattutto in alcuni casi, a servizio dei distretti di base, per rafforzarne ed integrarne l'azione. Gli operatori dei distretti debbono poter inoltre seguire la loro utenza anche quando essa usa servizi di altro livello, costituendo con ciò l'unico riferimento di continuità e di unitarietà. Infine gli operatori di distretto - per non ricorrere nell'isolamento e a lungo andare anche nello scadimento tecnico-professionale - debbono poter partecipare all'attività dei servizi centrali dell'Unità locale, in un processo circolare di crescita (dalla perife­ria al centro e da esso alla periferia).

Tutto ciò comporta anche una diversa organizzazione dei servizi e degli uffici centrali dell'Uni­tà locale, che non sia accentratrice e burocratica ma che punti al coordinamento dei diversi ser­vizi ed alla promozione dell'attività dei diversi distretti di base.

Si può concludere questa prima parte con due riflessioni:

- si tratta qui, prima che di aspetti tecnici, di «nodi» politici rispetto alla strategia delle riforme;

- è prioritario nel breve tempo investire ri­sorse ed energie in una politica di formazione degli operatori attorno alla problematica del di­stretto di base.

 

Problemi della formazione, riqualificazione, aggiornamento

L'innovazione profonda che la legge 833 deter­mina per tutto il comparto sanitario e il collega­mento necessario con tutto il cap. III del DPR 616, si manifesta non solo sul piano dei servizi ma anche, e soprattutto, sul piano dei contenuti. Va sottolineato come questi ultimi non siano im­mediatamente concretizzabili con l'applicazione pura e semplice degli articoli della 833, di quelli del 616, né con quella delle varie leggi regionali di attuazione.

La riforma, se possibile oggi ancora più di ieri, è un fatto di acquisizione e di crescita culturale generale degli amministratori, degli operatori, della popolazione.

Va rilevato da un lato che, attraverso la strut­turazione organica dei servizi ai vari livelli terri­toriali, il Servizio sanitario nazionale viene do­tato della strumentazione necessaria per atten­dere al proprio compito istituzionale, cioè la tu­tela della salute della popolazione; dall'altro con i progetti obiettivo sono precisati contenuti e modalità per l'azione dei servizi nei confronti di fasce di cittadini esposti a rischi particolari. Peraltro resta ancora molto fragile la struttura­zione dei servizi sociali e in ambedue i casi i risultati dipendono per gran parte dalla prepara­zione e dalle capacità professionali del personale del servizio.

Va qui sottolineato che la prestazione profes­sionale nei servizi sanitari e assistenziali resta soprattutto una prestazione umana e che il pro­gresso scientifico e tecnologico non surroga, co­me avviene in altri settori, la capacità professio­nale dell'operatore.

Ne deriva che i servizi e i relativi contenuti sul piano delle prestazione che con la riforma si intende mettere in essere richiedono un massic­cio impegno per elevare tale professionalità. Attualmente il nostro Paese dispone di circa 600.000 operatori, con 1 addetto ogni 90 persone, un dato questo che non differisce di molto da quelli degli altri Paesi industrializzati e dalla C.E.E. Andando invece alla scomposizione di que­sto numero complessivo notiamo come siano pre­senti quote di personale con qualificazione mol­to bassa (120.000 infermieri generici, 100.000 au­siliari) e un rapporto medici-infermieri completa­mente rovesciato rispetto agli altri Paesi: 1 In­fermiere ogni 3 medici. Da questo ultimo dato è necessario partire per rendersi conto della scar­sa rilevanza che tale operatore ha fino ad ora esercitato all'interno dei servizi e come, così re­stando le cose, altrettanto scarsamente potran­no incidere nel processo di rinnovamento.

Se analizziamo i processi formativi del perso­nale paramedico, sociale, e intermedio, notiamo come sia fino ad ora esistito un enorme ven­taglio delle qualificazioni e una notevole atomiz­zazione degli studi e della preparazione, con la conseguenza che la molteplicità dei diplomi ren­de difficile una ricomposizione organica della preparazione e dei ruoli professionali. Va detto come questo si spiega col carattere subalterno che queste professioni devono svolgere all'inter­no di un sistema dominato dal potere dei medici, sistema in cui la preparazione degli infermieri doveva rimanere sottoqualificata per mantenere inalterate le distanze.

Dal versante del medico, comunque, non è che le cose vadano nettamente meglio. Non esiste alcuna possibilità di programmazione che ripar­tisca le risorse umane secondo le effettive esi­genze dei servizi, non c'è spinta alla qualificazio­ne reale, la preparazione è disgregata. Tutto que­sto dimostra come sia necessario che il territo­rio si appropri della formazione.

Se fino ad ora la formazione è stata governata da esigenze scarsamente relazionate a quelle della gente e al di fuori del controllo popolare, bisogna che da ora in poi essa sia programmata in base ad una commitenza sociale ed attuata sotto il controllo sociale. In questo senso deve essere visto il ruolo del territorio, e quando par­liamo di questo vogliamo parlare del primato del­la commitenza che nasce dal territorio e del con­trollo che si esprime nell'ambito del decentra­mento degli organi di governo del territorio.

Ciò non significa escludere la validità scienti­fica dell'apprendimento ma anzi ci sembra che il primato del territorio porta in primo piano i con­tenuti scientifici della formazione, in quanto la popolazione deve essere tutelata sulla sua salu­te contro rischi e nocività ambientali di oggi, cioè dell'attuale struttura della società, il che signi­fica recuperare conoscenze di base e approfondi­menti nelle discipline che studiano la natura e la società e comporta la necessità di ricomporre la frantumazione degli studi e della ricerca, in fun­zione dell'obiettivo della precisazione dei biso­gni reali dell'uomo.

Far emergere il territorio come tema centrale del nostro impegno, vuol dire individuare l'ele­mento di ricomposizione di tutti gli interventi e non solo nel senso organizzativo. Quest'ultimo è l'aspetto derivato, ma alla base abbiamo la valo­rizzazione dell'uomo come punto di riferimento del sistema dei servizi nella misura in cui il ter­ritorio integra residenza e lavoro, cioè primato dei bisogni che nascono dalle condizioni di vita e di lavoro degli uomini.

Da ciò ne deriva come il decentramento nelle U.L, dei processi formativi non sia un fatto orga­nizzativo-burocratico, ma sia invece il punto di partenza necessario perché servizi, bisogni e ope­ratori si incontrino, adeguando così concretamen­te tutta l'apparente rigidità della organizzazione dei servizi alle esigenze di garanzia della salute.

I riferimenti fondamentali che a parere dei componenti del gruppo devono essere assunti nel campo della formazione di base e permanen­te degli operatori sanitari e socio-assistenziali sono i seguenti:

- corrispondenza fra i nuovi contenuti dei servizi e quelli formativi, adottando metodologie formative centrate su progetti-obiettivo e non più solo sull'insegnamento separato di singole ma­terie;

- non separazione fra ricerca (e cioè dei bi­sogni di salute, di autonomia personale e di in­serimento sociale) e le relative esigenze di for­mazione;

- sperimentazione di nuove modalità di fun­zionamento dei servizi come terreno pratico in­dispensabile per collegare in concreto attività operativa e formazione.

Ne deriva la necessità di una assunzione di­retta da parte delle Regioni (aspetti legislativi, programmazione, coordinamento) e degli organi di governo locali (gestione e attuazione) di tutte le competenze nel campo della formazione di ba­se e permanente del personale dei servizi sani­tari e socio assistenziali non di competenza del­lo Stato.

Proprio perché la formazione di competenza re­gionale è essenziale per l'attuazione delle rifor­me sanitarie e socio-assistenziali, essa deve ave­re pari dignità degli altri livelli, il che comporta fra l'altro adeguati investimenti e il riconosci­mento dei titoli della formazione regionale.

Di qui la necessità che anche l'Università sia disponibile a una collaborazione effettiva con le Regioni e gli Enti locali, collaborazione che deve tradursi da parte dell'Università nell'adeguare i piani di studio, i temi di ricerca, le iniziative spe­rimentali, alla programmazione regionale e lo­cale. Nella stessa prospettiva dovrà muoversi la riforma della scuola media superiore. Le inizia­tive immediate di aggiornamento, di riqualifica­zione e di riconversione fin da subito devono essere momenti di avvio concreto del processo di riorganizzazione della formazione di base e permanente.

Al fine di individuare nelle singole realtà regio­nali e locali i reali fabbisogni della formazione di base e permanente e di operatori, è da consi­derare assolutamente indispensabile una prima valutazione quanto più precisa possibile:

- delle complessive risorse di personale esi­stenti;

- delle esigenze quantitative e qualitative del personale necessario nella prima fase di avvio del processo di riforma;

- delle risorse formative pubbliche esistenti. Una prima identificazione di massima dei nuo­vi profili professionali necessari per il funziona­mento dei nuovi servizi è un'altra condizione ri­tenuta indispensabile.

Fra le iniziative da considerare urgenti si pos­sono individuare le seguenti:

1) iniziative di formazione per amministratori in cui siano dibattuti i problemi relativi alla nuo­va organizzazione dei servizi e alle conseguenti metodologie alternative rispetto a quelle fin qui praticate. È particolarmente importante l'appro­fondimento di tutti i problemi connessi alla tra­sformazione dei servizi esistenti, trasformazio­ne che deve vedere nel distretto e nei servizi di base l'asse portante della riorganizzazione della sanità e dell'assistenza;

2) iniziative di formazione del personale ammi­nistrativo. Una prima considerazione è che oggi esiste una profonda separatezza tra questo perso­nale e tutti gli altri operatori socio-sanitari, che spesso diventa motivo di burocratizzazione dei servizi e di intralcio per l'immediatezza delle ri­sposte che spesso i servizi debbono garantire. Sembra necessario che tali operatori debbano essere altrettanto consapevoli degli altri degli obiettivi del servizio sanitario, di come si vuol realizzarli nell'U.L, e di come si possa facilitare l'approccio ai problemi ed il loro superamento.

Tali operatori dovranno quindi partecipare a pieno titolo alle attività di aggiornamento che le U.L. dovranno programmare per gli altri operatori.

Tali attività dovranno essere agganciate ai pro­getti-obiettivo, ma non riferite ad operatori spe­cifíci individuati per categoria, ma organizzate per problematiche che riguardano tutti e diano quin­di senso della finalizzazione del proprio lavoro.

In particolare, anche per la rilevanza che co­munque verrebbero ad assumere negli organi di direzione delle U.L., la necessaria riqualificazio­ne degli operatori amministrativi deve essere tale da offrire strumenti che permettano un loro ef­fettivo inserimento nel processo di programma­zione democratica.

I filoni su cui impostare tale riqualificazione dovrebbero essere:

a) metodologia della programmazione e ruolo della ricerca;

b) utilizzazione delle risorse e valutazione dell'efficacia e della efficienza dei servizi;

c) analisi epidemologica e sistema informa­tivo;

d) partecipazione di base per il controllo demo­cratico sui piani e sui servizi;

3) iniziative di adeguamento delle capacità pro­fessionali dei medici disponibili ad operare in modo nuovo e a tempo pieno nei distretti e nei servizi di base. In questo modo sarà possibile da­re una risposta qualificante ai medici che inten­dono impegnarsi nella attuazione della riforma e che altrimenti sarebbero costretti a compiere scelte tradizionali sia per il rapporto di lavoro sia per il tipo e qualità di prestazioni.

Per dare concretezza alla esigenza di nuova formazione di base e di formazione specialistica del personale sanitario, è importante rilevare, oltre le precedenti considerazioni, come tale pro­cesso può essere iniziato senza dover passiva­mente attendere l'emanazione della riforma uni­versitaria. Lo strumento convenzionale dell'art. 39 della legge 833 può essere uno strumento im­mediato e notevolmente significativo; intatti l'uso delle strutture delle U.L. idonee per le esigenze di didattica e di ricerca delle facoltà di medicina, può garantire e agli studenti e agli specializzandi una idonea preparazione pratica e, inoltre, l'aper­tura delle sedi formative ai problemi quotidiani del territorio può modificare profondamente la di­dattica e la qualità degli operatori sanitari, aggan­ciando la ricerca scientifica alla realtà territoria­le e mettendo a contatto gli istituti universitari con i fenomeni risultanti dal contesto socio-am­bientale concreto. A tale proposito va rilevato co­me la Regione, quale ente di interessi generali locali, deve essere l'interlocutore primo dell'Uni­versità per procedere a veri momenti di integra­zione e di lavoro comune, in una interpretazione dinamica e di confronto dell'autonomia dell'Uni­versità che possa consentire il sorgere di inizia­tive capaci di inserire gli operatori universitari nei momenti rilevanti della vita sociale;

4) iniziative di aggiornamento per operatori so­cio-sanitari di base finalizzate a fare dell'infer­miere professionale una figura strategica dei ser­vizi di base.

Per costruire questa nuova figura è necessario:

a) adeguare gli attuali piani di studio di forma­zione di base degli infermieri professionali alle esigenze di professionalità che emergono dalla nuova struttura dei servizi;

b) utilizzare la legge 243 per la straordinaria qualificazione degli infermieri generici e psichia­trici, facendo in modo che i piani di studio corri­spondano a quanto previsto al punto a);

c) provvedere alla riqualificazione del persona­le ausiliario come previsto dall'ultimo contratto del personale sanitario.

Se si vuol costruire questa nuova figura è indi­spensabile che le Regioni e gli Enti locali:

- assumano questo problema come impegno prioritario;

- realizzino anche queste iniziative secondo i criteri precedentemente indicati (decentramen­to, collegamento fra ricerca, sperimentazione e attività formative).

Come nel campo sanitario in questo documen­to si fa riferimento per i nuovi servizi al ruolo strategico dell'infermiere professionale, nel cam­po socio-assistenziale occorre far riferimento al ruolo strategico dell'assistente sociale.

Proponendo una revisione della formazione per­ché sia condizione di sviluppo della riforma, si richiede una particolare attenzione alla forma­zione di tutti gli operatori ed una coscienza sto­rica dello sviluppo sociale, scientifico, tecnico e istituzionale della sanità e dell'assistenza in Italia.

Se gli interventi di formazione assumono la rilevanza fin qui sottolineata per la costruzione del servizio sanitario nazionale prefigurato dalla riforma e per servizi socio-assistenziali rispon­denti agli attuali bisogni della popolazione, appa­re necessaria la predisposizione degli strumenti perché essi vengano realizzati.

L'osservazione del quadro esistente ci mostra che la sottovalutazione delle possibilità degli in­terventi di formazione professionale ha il suo corrispettivo nello stato delle strutture e della loro capacità d'intervento.

Senza addentrarci in una trattazione analitica ci limitiamo a rilevare la loro inadeguatezza qua­litativa e quantitativa e la scarsa diffusione sul territorio.

Ci sembra quindi di dover raccomandare a quanti guidano in questo momento il processo di riforma di compiere uno sforzo per tradurre quan­to viene qui affermato in politiche adeguate.

I livelli dovrebbero essere:

- il piano sanitario nazionale che dovrebbe contenere, per quanto attiene i compiti rilevanti che spettano allo Stato, linee di indirizzo e pre­disposizione di risorse;

- la programmazione regionale che dovrebbe indicare un modello per l'esercizio concreto da parte delle zone della funzione di formazione la quale trova proprio nella capacità delle U.L. di individuare i fabbisogni qualitativi e quantitativi, il punto cardine perché i piani di intervento siano rispondenti e finalizzati agli obiettivi che i ser­vizi devono perseguire;

- una gestione decentrata e correlata conti­nuamente con i servizi in modo che il rapporto tra attività formative e organizzazione del lavoro assicuri una dialettica che consenta un costante e reciproco adeguamento.

I segnali positivi che sembra si debbano regi­strare a livello della predisposizione del piano sanitario nazionale (adeguate risorse finanziarie rispetto a quelle attuali assolutamente insuffi­cienti) devono essere colte in primo luogo dalle Regioni, per predisporre progetti che utilizzino i mezzi finanziari finalizzati alla realizzazione di interventi di formazione professionale adeguati alle attuali esigenze.

Sembra necessario rilevare che le funzioni di formazione professionale non possono essere ef­ficientemente esercitate in un quadro normativo qual è quello attuale che presenta queste ca­ratteristiche:

- norme per la formazione degli operatori sa­nitari che si sono accumulate nell'arco di oltre un cinquantennio (dal 1923 al 1974) e che sono evidentemente ormai inadeguate;

- assenza totale di qualsiasi normativa per la formazione degli operatori socio-assistenziali ed educativi con conseguente proliferazione di ini­ziative pubbliche, ma soprattutto private, al di fuori molto spesso di ogni riferimento ad un qua­dro programmatorio;

- mancanza di coordinamento con il sistema scolastico ad ogni livello ma in particolare con la scuola media secondaria e con l'Università.

Si impone quindi l'emanazione di una normati­va quadro, così come prevede l'art. 6 della legge 833/78, e come ormai richiedono da tempo le Regioni unitariamente, della quale si indicano i criteri:

- chiara individuazione delle figure professio­nali scorporando quelle che attualmente sono in­cluse nel comparto sanitario senza che, a parere del gruppo, questo si giustifichi con le loro fun­zioni;

- curricola formativi corrispondenti all'esigen­ze delle professionalità che devono essere for­mate;

- reale esercizio delle competenze relative di Stato, Regioni ed Enti locali così come risul­tano definite dalla legge quadro 845/78 sulla for­mazione professionale e dalla 833/78.

 

Problemi di inquadramento del personale e contratti

La riforma sanitaria, per una corretta e rapida applicazione, richiede lo scioglimento di una se­rie di nodi, tra cui il non meno importante si riferisce all'inquadramento del personale che vi è impegnato.

Tale nodo, sia dal punto di vista di situazioni oggettive (contratti, regolamenti) e soggettive (atteggiamenti corporativi, ecc.), presenta dei problemi la cui mancata soluzione affosserebbe la riforma.

Siamo infatti in presenza di più contratti di la­voro, che racchiudono logiche divaricanti, di un decreto come il DPR 761 che per certi versi le re­cepisce, particolarmente con:

1) l'accentuazione del ruolo del medico con su­bordinazione delle altre professionalità;

2) l'accentrazione in senso burocratico del si­stema organizzativo col pericolo di una penaliz­zazione della professionalità;

3) l'introduzione di processi settoriali e disgre­ganti, che creano concorrenzialità fra le qualifi­che, e definizione di meccanismi di partecipazio­ne, tendenti prevalentemente alla difesa di inte­ressi corporativi;

4) il tentativo di regolamentazione di tutti gli aspetti contrattuali, costituendo garantismi e ri­gidità che non consentono l'adeguamento del rap­porto di lavoro alle esigenze della riforma, inte­sa come processo che va gestito dall'Ente locale in situazioni diversificate.

Per uscire da questa situazione salvaguardando la riforma, è possibile dare talune indicazioni. Occorre, in sintesi:

1) garantire la certezza della triennalità con­trattuale e la certezza delle controparti (poten­ziamento del ruolo di Regioni e ANCI; rifiuto di organizzazioni indiscriminate di categoria quali punti di riferimento); garantire tempi sicuri di applicazione e gestione; inserire il problema del «contratto della sanità» nel contesto della legge quadro sul pubblico impiego;

2) avviare rapidamente il processo concreto di costruzione del contratto degli operatori dell'U.L., mediante la introduzione di taluni essenziali prin­cipi.

Tra questi, come prioritaria si pone l'omoge­neità da conseguire nel settore, in termini di omo­geneità esterna da perseguire rispetto al com­parto degli Enti locali, ed in termini di omoge­neità interna da ricercare tra le categorie speci­ficamente interessate.

Tale omogeneità non va riferita al solo «quan­tum» economico, ma alla struttura stessa del salario, e ad una serie di problemi normativi qua­li l'orario, le ferie, il diritto allo studio. Ciò sta a dire che l'omogeneità non va intesa come l'as­semblaggio dell'esistente ma nel senso della ri­forma. Significa invece lo sforzo di definire e in­trodurre criteri ancora nuovi per il settore pub­blico e principalmente:

1) la professionalità;

2) i processi di formazione e riqualificazione;

3) la valorizzazione della mobilità professio­nale.

Bisogna quindi uscire dalla gabbia burocrati­ca di quello che è ancora il rapporto di lavoro pubblico, usando gli opportuni incentivi per ga­rantire, oltre a trattamenti economici adeguati, una reale efficacia e funzionalità del servizio, in relazione con l'analisi dei bisogni; è necessario inoltre nel delineare i profili professionali come richiesto dal 761, seguire criteri univoci rispetto agli altri contratti del settore pubblico, mirati al superamento del fenomeno del mansionismo.

Va affrontato inoltre il problema degli sviluppi di carriera, che non possono basarsi sul solo con­cetto dell'anzianità di servizio, così come va ca­ratterizzato nella struttura del salario il concetto che il nuovo rapporto di lavoro, espressione di un servizio da svolgersi nel territorio, deve dare un corretto riconoscimento all'effettuazione di turni, alle loro flessibilità, agli aspetti della mobi­lità e alla gravosità di mansioni particolari (es. zone disagiate che richiedono spostamenti, man­sioni particolarmente onerose proprie di certi ti­pi di servizi).

Questo discorso va rapidamente verificato par­ticolarmente per il settore medico, in quanto ol­tre a personale dipendente esiste una consisten­te presenza di personale convenzionato, che do­vrebbe svolgere un ruolo primario a livello di ba­se, ma, proprio per il tipo di rapporto di lavoro che ha oggi forti caratteristiche privatistiche, è di fatto estraneo al processo di riforma. Per que­sta fascia di operatori medici la necessità della informazione e formazione, della effettiva ge­stione dei massimali, della miglior definizione di compiti in presenza di un progetto di reale in­tegrazione dei servizi e delle figure professionali, deve diventare oggetto di intervento immediato essendo in fase di definizione il rinnovo della convenzione unica per la medicina generica e pediatrica.

Per tutti gli operatori interessati comunque si pongono con altrettanta urgenza i problemi che ci si è sforzati di evidenziare, ed in particolare l'esi­genza dell'aggiornamento teso ad unificare gra­dualmente la situazione di formazione parcelliz­zata che ad oggi sussiste tra di essi (titoli di studio, loro valore ecc.), come dimostra esausti­vamente l'esperienza dell'ingresso negli Enti lo­cali dei dipendenti degli Enti disciolti in base al DPR 616 e leggi successive.

 

 

 

(1) Conclusioni del Seminario di Asti del 22-24 ottobre 1980 organizzato dal Comitato regionale piemontese della Lega per le autonomie e i poteri locali.

Elenco dei partecipanti: Carlo Trevisan, Paola Barardi, Luciano Carrino, Giovanni Chiellini, Celso Coppola, Pino Corrarrello, Corrado Corgi, Tommaso Cravero, Silvio Mer­ciai, Svedo Piccioni, Emanuele Ranci Ortigosa, Francesco Santanera, Mariena Scassellati Galletti, Sergio Sinchetto, Elda Tessore e Antonio Zito.

Vedere le conclusioni del precedente seminario di To­rino (marzo 1980) su «Le autonomie locali in relazione all'avvio della riforma sanitaria» in Prospettive assisten­ziali, n. 50.

 

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