Prospettive assistenziali, n. 51, luglio - settembre 1980

 

 

MODELLI CULTURALI E MALATTIA MENTALE

CETTA ALBANO

 

 

La legge n. 180 del 13 maggio 1978, nata col segno delle grandi speranze e dal travaglio di anni di ricerche e di esperienze, ha il suo nucleo innovatore nello smantellamento definitivo dei manicomi, autentiche fabbriche della follia, pro­duttrici di emarginazione, degradazione umana, sfruttamento.

Si delinea così un compito nuovo, affascinante e insieme difficilissimo: il recupero del malato di mente, il suo reinserimento nel contesto so­ciale.

Come e fino a qual punto tale reinserimento possa essere ostacolato dai modelli culturali correnti nella collettività, sarà qui oggetto di esame.

 

Cenni storici

Non è possibile esaminare gli attuali atteggia­menti sociali nei confronti della malattia mentale senza premettere alcuni cenni storici.

La storia della « follia » fa riscontrare, nel cor­so dei secoli, interpretazioni parallele della ma­lattia mentale, che viene fatta risalire ad una possessione demoniaca o ad una ispirazione di­vina.

Ippocrito, in verità, rivendicò con la sua teoria razionalista intorno alla medicina, raccolta nell'opera «Corpus Hippocraticum», il carattere na­turale della malattia che asserì essere «né sa­cra, né divina».

La tesi ippocratica, tuttavia, unica ed isolata, non riuscì a far estendere una concezione della malattia mentale diversa da quella allora afferma­tasi, sia per la mancanza di mezzi a disposizione (si era nel 375 a.C.), sia per l'impegno che pro­cura il rinunciare a soluzioni facili e comode.

Partendo dalla identificazione del malato di mente con il posseduto dal demonio, non veniva ritenuto efficace altro rimedio all'infuori di quelli legati alla stregoneria.

I «folli», pertanto, vennero rinchiusi nelle gabbie ed esposti al ludibrio dei passanti, bru­ciati anche vivi sui roghi, disconosciuti dai pro­pri familiari, dei quali costituivano una vergogna e l'eredità di una vergogna, temuti da tutti, allon­tanati per il «malocchio».

Le uniche cure per loro previste consistevano nel ricorso a mezzi di contenzione, che, applicati a lungo termine, divenivano veri e propri stru­menti di tortura; a bastoni, a catene, ad immer­sione in acqua fredda o calda, ad unzioni con olio santo, ad imposizioni delle mani. Questi ultimi due riti furono usati con l'avvento del Cristiane­simo, che indusse a ritenere inutili le ricerche scientifiche sulla origine di questi mali.

Tra la fine del XIV e XV secolo, divenuto quello dei malati di mente un problema di vaste propor­zioni, si ricorse al loro allontanamento dal conte­sto sociale originario ed all'internamento in rico­veri appositamente previsti. Il primo rifugio per alienati fu probabilmente inglese: il «Bethlem Hospital» (fondato nel 1247). Qui i malati furono detenuti in sordide celle dove la segregazione venne assicurata da cancelli e sbarre.

Intorno alla metà del Settecento, il medico fran­cese Pinel, rifacendosi alla teoria degli enciclo­pedisti ed illuministi, volle applicare il principio che «la lotta contro la pazzia doveva essere so­stituita dalla lotta contro i pazzi».

Egli, infatti, ebbe il merito di sciogliere dalle catene i folli rinchiusi negli ospedali di Bicêtre e della Salpêtriere, ottenendo la remissione dei comportamenti più aggressivi del malato di mente.

Su questa stessa linea Voltaire, nel suo dizio­nario filosofico, scrisse che «un pazzo è un ma­lato il cui cervello soffre, così come il gottoso è un malato che soffre ai piedi».

Si cominciò ad enunciare un nuova concetto della «follia» interpretata non più in chiave magica o religiosa, sibbene quale espressione di fatti organici ereditari (scuola positivista).

Soltanto verso la metà del nostro secolo, una maggiore attenzione della medicina incentrata sugli aspetti sociali delle cause di essa, dette sviluppo a studi approfonditi sulla sofferenza psichica.

Ad opera di queste ricerche sulla eziologia psichiatrica, andarono affermandosi i principi che davano lettura della malattia mentale come pro­dotto storico-sociale riveniente dalle modalità di relazione e di interazione di un soggetto, caratte­rizzato da una notevole insicurezza e fragilità dell'io, con la sua famiglia ed il gruppo sociale cui appartiene.

Secondo detta interpretazione, ancora non defi­nitivamente accolta e condivisa da tutti i tecnici, la «follia fa corpo» con l'insieme dei sistemi re­lazionali di cui il soggetto fa parte ed è forse l'uni­ca reazione possibile ad un determinato (e pro­babilmente assurdo) contesto comunicativo.

La malattia mentale, pertanto, è stata intesa come possessione demoniaca prima; come pro­cesso prevalentemente organico (endogeno) da indagare in una dimensione storico-individuale­-longitudinale (ereditarietà), dopo; come prodotto storico-sociale, cioè con implicazioni relative all'ambiente, infine.

Secondo quest'ultimo modello, di cui v'è ab­bondante letteratura in circolazione, il disadatta­mento e la «follia» coincidono con la distorsio­ne progressiva di una particolare modalità di co­municazione.

 

Modelli culturali attuali sul disturbo mentale

Un'indagine sulle opinioni correnti tra la gente non può evidentemente prescindere da una ricer­ca per campione condotta sulla base di numerosi questionari, di cui si è curata la compilazione.

È così risultato che quasi tutte le persone in­tervistate attribuiscono la causa dei disturbi men­tali ai problemi affettivi, sociali, morali, religiosi (esclusi questi ultimi dai più giovani).

Molti hanno espresso sentimenti di paura e di terrore al pensiero di poter diventare matti; altri non ci hanno pensato.

Per quanto riguarda la sezione «manicomio», molti avevano idee poco chiare circa la funzio­nalità del manicomio, e il suo effettivo «valore terapeutico». Tutti erano certi soltanto del fatto che, «chi varca quella soglia non esce più», e spesso «non si sa più niente di lui»; perciò, alla domanda se è «bene che il manicomio sia stato abolito», tutti hanno risposto proponendo, per i casi più gravi, che richiedono provvedimenti te­rapeutici, un tipo di ospedale che curi «veramen­te la malattia» con risposte adeguate.

Per i casi cronici, incurabili e pericolosi e per i non pericolosi che hanno trascorso ormai la loro vita in O.P. e che desiderano rimanerci (come spesse volte è avvenuto in pratica) viene richie­sto un asilo più adeguato e più umano; mentre, per i casi più lievi, non in pochi erano ottimisti, in quanto fiduciosi nell'affidamento familiare, spe­cialmente per i sintomi proposti da problemi af­fettivi.

Tutti concordi si sono mostrati sulla inesisten­za di riti, rimedi antichi, e pratiche magiche effi­caci a curare la malattia mentale.

Il lavoro affidato ai pazienti dell'O.P. (ergote­rapia) è stato, in genere, ritenuto utile, in quanto impegnando la mente, distrae il paziente dalle sue preoccuzioni, dalle sue «idee fisse», gli dà il senso della sua utilità, purché non gli venga imposto con orari e ritmi stressanti.

Nella terapia della comunità terapeutica, in­fatti, introdotta da Maxell Jones ed adottata an­che da Franco Basaglia nell'Ospedale di Gorizia, si vuole che il paziente programmi anche il suo lavoro.

Tutte le risposte ai questionari si concludeva­no con una lode di ringraziamento al Signore per essere stati risparmiati da quella triste soffe­renza.

Dall'esame critico dei questionari emerge, in primo luogo, una evidente contraddizione. Da un lato, infatti, il vecchio modello culturale della ma­lattia mentale, che faceva risalire questa ad una possessione demoniaca, sta, di fatto, lasciando spazio ad un nuovo modello culturale che vede come punto focale le contraddizioni ed i conflitti originati da un ambiente familiare e storico-so­ciale intriso di complicazioni di ogni genere e a livelli diversi; dall'altro, in aderenza all'antico modello, «la follia» genera ancora paura e ter­rore non al pari di una qualsivoglia patologia, ma come fenomeno carico di mistero, del tutto ma­gico e sfuggente ad ogni dominio.

Esistono altre sofferenze parimenti temute; tuttavia, esiste in relazione ad esse una radicale differenza con la malattia mentale. Delle prime, infatti, vedi le affezioni oncologiche, non si evita di parlare, sicuri di contare sulla solidarietà e la comprensione degli altri; della seconda, invece, si ritarda e si cela ogni cenno per la certezza del giudizio negativo su tale morbo e su chi ne mani­festa i segni.

Detta realtà, più che evidente anche all'osser­vatore meno attento, è frutto di una stratificazio­ne culturale prodottasi nei secoli da cui deriva un terreno ancora tutto da rimuovere e dissodare. D'altra parte, l'approvazione della teoria trova più facile accoglimento dell'applicazione della pratica e tra l'uno e l'altro stadio v'è un percorso che non ci trova preparati e che richiederà, per il superamento degli ostacoli e l'unitarietà degli utenti, tempi lunghi.

Scrive Joe Holey: «prima di tutto occorreva spostare in modo deciso la direzione dell'atten­zione.

È quanto fece Copernico quando avanzò l'idea che i pianeti ruotassero intorno al sole invece che intorno alla terra. Per effettuare questo pas­so indispensabile, gli uomini dovrebbero rivede­re postulati di fondo sull'uomo e sull'universo.

Si potrebbe dire che l'attuale spostamento dell'attenzione in psichiatria dell'individuo al tessu­to sociale nel quale egli vive è paragonabile allo spostamento dell'universo dalla terra al sole. Si tratta di un passo audace e molti reagiscono in modo quasi religioso contro l'idea che l'uomo non è il punto focale e invece non può far altro che fornire delle risposte nel contesto dinamico dei suoi rapporti».

 

Incidenza negativa dei modelli culturali sui malati di mente

Risulta abbastanza chiaro che la «follia», in­terpretata come calamità senza moventi ed oltre ogni ragione, pilotata da risvolti magici e meta­fisici non va a scomodare collettività; non respon­sabilizza e non accusa. Punisce il malato per la seconda volta e «senza tempo» ed assolve chi spesso della malattia ha impresso, nel soggetto più debole, i tristi segni.

L'allontanamento dei malati di mente, infatti, ha determinato nei loro confronti la ghettizzazio­ne, nonché la stgmatizzazione da parte della società che spesso, nell'etichettamento e nella diversificazione, soddisfa il prepotente bisogno di distinguere, di giudicare, contrapponendo il «buono» al «cattivo», il «ricco» al «povero», il «sano» al «malato».

Chi porta i segni dello stigma e dell'esclusione suscita una reazione sociale fatta di cinismo ed abitudine al confronto fra la propria salute e la malattia dell'altro. E il rifiuto sociale è sempre presente, infatti, nei confronti dei malati di men­te in troppe risposte comportamentali da parte dell'opinione pubblica che predilige, al nuovo, l'antico modello culturale della malattia mentale, poiché predilige scegliere «l'altro» come capro espiatorio e non se stessa come protagonista, al centro di un processo di revisione di schemi e di comode attribuzioni.

Per questo l'opinione pubblica chiede strutture alternative, pure indispensabili, interventi imme­diati degli organi competenti a risolvere i pro­blemi (operatori socio-sanitari, autorità ammini­strative, autorità giudiziaria); per questo la ri­chiesta predominante rivolta al Servizio di igie­ne mentale è piuttosto un intervento di protezio­ne di chi sta bene e non una domanda di aiuto per chi sta male.

Da parte di più persone in quest'ultimo perio­do è stato chiesto ad alcuni giudici tutelari di allontanare taluni dimessi dall'O.P. dai loro con­domini che erano divenuti, per la loro presenza, «luoghi di furore». Ed ancora, da parte di una si­gnora è stato domandato ad un assistente sociale di reinternare il fratello perché «diceva le paro­lacce». Ma le parolacce sono ascoltate anche con piacere se a dirle è un fratello medico, meglio ancora senatore e nessuno è mai andato da alcun giudice a chiedere di far sfrattare la famiglia di un ingegnere, magari ricco, perché in quella fa­miglia vi sono contrasti e litigi che disturbano la quiete del gruppo condominiale.

Allorché, infatti, le trasgressioni sono commes­se dai più fortunati, più ancora da coloro ritenuti forti e dotati di un certo potere, si è disposti a tutto tollerare; con i dimessi da un ospedale psi­chiatrico, al contrario, la gente diviene impietosa, intollerante, pronta ai giudizi senza scampo ed alle condanne senza remissione. Di loro tutti san­no tutto; cosa fanno, come vivono, dove vanno, se parlano con voce bassa o alta, con tono dolce e pacato, con sguardo iroso e sereno.

Sono controllati a vista quasi per un inconscio dovere da coloro (e sono troppi) che si ritengono incaricati di abbassare subito il pollice e gridare, a voce spiegata: «dagli all'untore».

Tutto ciò viene percepito e colto dai soggetti in questione che divengono, per questo, ancora più instabili ed ambivalenti. Chiedono e rifiutano, allo stesso tempo, accettazione ed aiuto; hanno momenti di ripresa e momenti di crollo.

La reazione del malato di mente a questo atteg­giamento di sfiducia, di disistima nei suoi con­fronti, di rifiuto ad attribuirgli nuovamente un ruolo, di paura quasi delle sue reazioni, è una risposta a due testate: quella dell'aggressività e quella della depressione, a seconda che scelga come reo da punire l'altro o se stesso.

I suoi messaggi d'invocazione, di comunicazio­ne, di bisogno d'ascolto e di dialogo non giun­gono al destinatario, ma rimbalzano a chi chie­deva di divenire interlocutore, tramutati, financo, in rimpianto per la vita squallidamente vissuta in O.P.

Eppure, in troppi casi, il malato di mente avrebbe potuto non divenire tale ed ha pagato con la sua segregazione, sempre fatta di violenza gratuita e senza senso, il prezzo troppo alto di uno pseudo bisogno di «fare il bene» che, quan­do si esprime con il ricorso all'istituzionalizza­zione, diviene un rimedio sempre più grave del danno o, meglio, un danno totale per definizione.

Da una psichiatra facente parte dell'équipe che il 7 gennaio 1977 effettuò, ad opera del Tribu­nale per i minorenni di Bari, un'ispezione all'ospe­dale psichiatrico di Bisceglie, fu chiesto alla di­rettrice, dott.ssa Gentile: «perché avete accolto un bimbo di un anno e 10 mesi?». Le fu risposto: «perché siamo una grande famiglia e non ne­ghiamo il bene a nessuno».

Quel «bene»: un bambino che doveva trovar­si nella culla, si trovava in un manicomio, costa­va allora alla collettività ben 9.400 lire al giorno anche se serviva ad affollare «una grande fami­glia» (circa tre mila ricoverati) che richiedevano ai cittadini tasse per dodici miliardi all'anno.

Il numero degli stessi ospiti, infatti, di una istituzione che vuole definirsi «terapeutica» e pertanto finalizzata a curare la malattia per resti­tuire il paziente guarito alla società è nella fatti­specie il dato più eloquente per evidenziare gli aspetti più tristi di una istituzione che appare chiaramente, in tutti i suoi meccanismi e nella sua specificità, nonché nelle scelte, finalizzata a se stessa e non ai degenti.

Questi, più che spesso, sono trattenuti dalle maglie burocratiche antiterapeutiche con il ri­schio grave di divenire ospiti «volontari» dell'istituto.

«Devo stare qui»... «posso stare qui»... «vo­glio stare qui» sembra essere la dinamica dei pensieri in cui il malato è costretto a muoversi. Una profonda insicurezza, infatti, si radica nell'animo del malato, specie in quello di una struttura psichiatrica, peggio ancora se questi è gio­vane, per la cristallizzazione dei rapporti umani nonché in conseguenza di una vera e propria te­rapia al dubbio, alla paura, al timore, alla dipen­denza assoluta.

Né può tacersi, più per dovere d'informazione che per fornire il sostegno di una oggettiva e doverosa documentazione al presente lavoro, che nell'istituzione di Bisceglie cui s'è dianzi fatto cenno, al tempo dell'ispezione del Tribunale per i minorenni di Bari, furono trovati ospiti della struttura 23 bambini minori degli anni otto; di questi diversi erano figli di N.N.

Quali le motivazioni quindi, nonostante il con­senso di opinioni sui danni della protratta perma­nenza in strutture chiuse, segreganti quali il ma­nicomio?

Come vedremo dai casi più esemplificativi, che s'è ritenuto di dover citare (conosciuti attraverso esperienze di lavoro), motivi di ordine sanitario, ma per non pochi, anche motivi di ordine sociale, di adesione a modelli culturali caratterizzati da pregiudizi e condizionamenti ed infine purtroppo, qualche volta, persino motivi burocratici, clien­telari sostenuti da ignoranza dei rischi connessi a taluni rimedi o da bisogno di accogliere qualsia­si richiesta di aiuto per la ricerca della propria gratificazione e l'insistente esibizionismo di «far del bene».

Un operatore sociale per la compilazione di un prospetto diagnostico di 58 «casi» finiti a Bisceglie, riscontrò segnalazioni tipo: «Ti sarò infinitamente grato se farai il possibile per fare entrare a Bisceglie ...».

I biglietti erano stati scritti dai personaggi più diversi, consiglieri comunali, assessori, parroci ecc. e si riferivano financo ad un bambino di tre anni e mezzo.

«Il reinserimento sociale, scrive De Leo, non è e non può essere inteso come un bisogno specifi­co ed esclusivo dei malati, ma è un problema che investe direttamente realtà diffuse come la rico­stituzione di un tessuto comunitario di partecipa­zione e di solidarietà sociale».

Risulta pressoché sterile lavorare con una ottica individualistica al reinserimento di singole categorie di soggetti portatori di storia di parti­colari problemi, mentre dà risultati profondamen­te diversi la creazione e lo sviluppo di un ambien­te in cui le risorse sociali, istituzionali e umane vengono portate a livelli di disponibilità sempre maggiori per tutti i cittadini.

La delega ai tecnici, infatti, e il ricorso a rimedi medicamentosi non possono essere l'unica solu­zione del problema.

Nel primo caso i tecnici non hanno proprietà taumaturgiche, nel secondo le terapie mediche risolvono il sintomo ma non ne rimuovono le cause.

Non la competenza «riservata a pochi» e la farmacologia possono sconfiggere un problema umano e sociale di così vaste proporzioni e tan­to meno il ripristino, da molti invocato, dei siste­mi di potere-difesa (manicomi-istituto ortofreni­ci ecc.).

Le aspre critiche di una società che non vuole cambiare e che si rifugia nella ineluttabilità ed immodificabilità delle cose o nell'apologia dell'ordinamento esistente; l'atteggiamento di scet­ticismo e di rifiuto verso il malato di mente, il rigetto delle teorie (cfr. Szasz-Basaglia-Laing-Fou­cault) secondo le quali potrebbero aversi risultati inoperati e sempre disattesi dai farmaci e dalla segregazione, contengono in sé il germe di una evoluzione del problema e dei suoi molteplici corollari.

Sanzioni e premi, in termini comunicativi, equi­valgono a negazioni e conferme e, dopo la di­missione dalle strutture manicomiali, nel più cru­ciale e più delicato periodo della risocializzazio­ne, ai malati di mente che necessitano delle con­ferme sono, invece, riservate unicamente le san­zioni; spesso, e tanto è peggio, accompagnate dalla derisione e dalla meschina ironia dei più.

Ma sequenze di questo tipo agiscono come moltiplicatori delle difficoltà non offrendo a detti soggetti, che invece ne sono in attesa, elementi per la ristrutturazione del sé, esperienze di auto­stima, spunti di rassicurazione e di fiducia.

La collettività dovrebbe sentirsi coinvolta tut­ta e partecipe di questo «trattamento risocializ­zante», che non può essere né facile né breve. Respinge, al contrario, ogni occasione d'impegno e di collaborazione, in adesione al vecchio model­lo culturale della malattia mentale poiché del «folle» ha ancora paura, né vuole, con umiltà, ascoltare i motivi per cui deve superarla.

Eppure, spesso proprio la famiglia in prima ana­lisi ed il gruppo sociale dopo, sono stati veicoli patogeni della sofferenza psichica.

Nella psichiatria sociale, lo studio delle perso­ne risale sempre alle matrici familiari per sco­prire gli elementi patogeni.

Troppo spesso, infatti, le paure, l'insicurezza, l'instabilità dell'io nascono e si radicalizzano nell'ambito familiare laddove in questa prevalgono l'istinto, non la ragione; il rispetto degli aridi schemi acriticamente tramandati; il pregiudizio e l'attenzione per il giudizio della gente, non quel­la per i propri figli, spesso vissuti come oggetti di possesso, non come soggetti di diritti.

 

Proposte di un approccio sociale nuovo al problema

Indubbiamente, la patologia della sofferenza mentale non è esente da classificazioni di casi gravi per i quali, insieme alle ricerche ed alle au­gurabili conquiste della medicina, devono essere previste e realizzate dalla società strutture ido­nee ad accoglierli e ad adeguatamente sostenerli.

Per quelli meno gravi, proposti da una multifat­torialità di motivazioni, invece, deve esserci un cambiamento d'opinione, una inversione di ten­denza. E proprio in questo senso dovrà operare il servizio sociale, metodo d'informazione e respon­sabilizzazione, rivolto al superamento di schemi e modelli culturali stereotipati ed infruttuosi e, vieppiù, alla partecipazione della collettività, alla urgente ed improrogabile realizzazione di pro­grammi di civiltà, di benessere, di promozione umana.

, tuttavia, il campo d'intervento del servizio sociale potrà essere limitato al settore della pre­venzione o della rimozione di formule rigide ed illogici criteri cui finora la collettività ha voluto essere fedele. Più professionalmente e tecnica­mente, dovrà farsi carico di promuovere, presso gli organi competenti, l'attuazione dei programmi a favore dei malati di mente e la organizzazione dei servizi affinché le strutture alternative diven­tino un punto cardine della politica sociale.

Questa, infatti, troppo spesso propagandata e professata dagli amministratori, non trova riscon­tro nelle loro effettive intenzioni né immediatezza di facili enunciati.

«Devono esistere, per il reinserimento sociale dei malati di mente, risorse socio-ambientali nei settori del lavoro, della scuola, delle circoscrizio­ni e dei consorzi territoriali, delle attività cultu­rali espressive, musicali, sportive, dei servizi per la casa», afferma De Leo, a compendio di quanto sostenuto da tutti gli operatori socio-sanitari, sempre più riaffermati nelle scelte dalla incalzan­te esperienza di lavoro.

Si è detto che uno dei problemi fondamenti per la creazione delle strutture alternative al rico­vero è costituito dal mancato reperimento di im­mobili da locare per adibirli a «case alloggio», «laboratori protetti» ecc.

Non si è considerato, da una parte, che la lo­cazione non è l'unica pratica modalità di acqui­sizione degli immobili (potrebbero essere acqui­stati, costruiti, acquistati in prefabbricati, ristrut­turati vecchi stabili), dall'altra che esiste una precisa norma di legge che sembra dettata pro­prio per tale scopo. Stabilisce, infatti, l'art. 15 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 (così detta leg­ge Bucalossi) che il Sindaco deve acquisire al patrimonio comunale gli immobili costruiti senza concessione edilizia.

Poiché non mancano certamente immobili an­che ampi e ben costruiti in simili condizioni di illegalità, sarebbe oltremodo semplice risolvere in molte zone il problema in esame, visto che la norma suddetta precisa anche che gli immobili così requisiti devono essere destinati a fini pub­blici e sociali.

Non sfugge la ragione per cui norme di questo genere non trovano applicazione, nonostante la mancanza di ogni genere di discrezionalità in ca­po a chi deve azionarle.

E così, anche per questa via, riceve ulteriore conferma la tesi che condizionamenti ed interes­si di varia natura, anche al di là e contro (e norme, possono accelerare o impedire soluzioni possibili di grosse problematiche individuali e sociali.

La dignità e l'utilità del servizio sociale promo­zionale si misureranno, in questo ambito, sul me­tro delle possibili aggregazioni di sempre più vaste ed informate aree di utenti su una richiesta precisa di svolte radicali nel trattamento della malattia mentale: in definitiva, sul rispetto di una legge vigente dello Stato.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it