Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

 

L'ADOZIONE INTERNAZIONALE: UN MODO NUOVO DI PORSI DI FRONTE ALLA DIVERSITÀ

 

Oggi - per le ragioni che abbiamo avuto altre volte occasione di rilevare - l'adozione interna­zionale è una realtà che si impone sempre più spesso alla attenzione sia della gente comune sia degli operatori sociali.

Questi ultimi, quindi, sono costretti a riflettere sulle implicazioni che questo particolare tipo di adozione comporta, sia per il bambino, sia per gli adottanti.

Infatti, la disponibilità a diventare genitori di un figlio con caratteristiche somatiche diverse deve essere vagliata con parametri diversi, for­se più approfonditi di quelli usati anche solo qualche anno fa. E non perché i problemi che i genitori cl-re affrontano un'adozione internazio­nale siano più pesanti di un tempo, ma per certi mutamenti storici e culturali intervenuti a modi­ficare le aspettative e le richieste alle persone. Chiunque si consideri di mentalità «aperta» og­gi è razionalmente convinto dell'uguaglianza fra tutti gli uomini: quindi è facilmente suggestio­nabile dall'idea di avere in adozione un figlio somaticamente diverso da sé. Ma il punto nodale si sposta: l'idea dell'uguaglianza fra tutti gli uo­mini è, appunto, un'idea, un concetto che sta nella mente e che si fa presto ad esprimere a parole, ma spesso non riesce ancora a infrangere un tabù profondo, più radicato dei tabù sessuali che pur sappiamo quanto siano difficili da eli­minare.

Per superare il tabù della razza, occorre che il concetto astratto di uguaglianza passi dalla sfe­ra del pensiero a quella del vissuto, dei senti­menti e delle emozioni. E solo allora si tradurrà in scelta di vita «con l'altro», e non «a favore dell'altro» o per sentirsi «esotici», quindi alla avanguardia.

L'adozione internazionale si situa in un preciso momento storico della coppia, quando l'uomo e la donna decidono di volere un figlio con carat­teristiche somatiche diverse e quando quel figlio lo ricevono finalmente fra le braccia. È evidente che, dietro a questi momenti, c'è un supporto ideologico che la coppia deve aver maturato, spesso anche insieme ad altri figli, biologici o no, se ci sono. Tuttavia il supporto ideologico non basta per garantire al bambino che si im­mette nel contesto italiano, e alla stessa coppia o famiglia che lo inserisce in sé, una «storia quotidiana» di piena accettazione reciproca. Ed è invece proprio nel quotidiano che l'idea astrat­ta viene messa alla prova, e non regge se resta soltanto nella mente.

Par-tendo da un concetto astratto di uguaglian­za fra tutti gli uomini e sulla spinta della nostra cultura borghese cha tende a livellare o ad espel­lere da sé i diversi, si è forse portati a non vedere - o a non voler vedere - le diversità obiettive esistenti. Di fronte ad un figlîo con caratteristiche somatiche diverse, ci si comporta così in modo infantile: si ha il timore che, per il solo fatto di indicarle, le diversità assumano immediatamen­te una connotazione negativa; e viceversa si cre­de che, ignorandole, sia possibile esorcizzarle, quasi per magia.

Un comportamento adulto, responsabile, im­pone invece di fare i conti con le diversità, sia per quanto riguarda gli adulti aspiranti genitori, sia per quanto riguarda il bambino.

Spesso infatti si è portati a «sentire» il pro­blema di accettazione degli adulti, e si sottovalu­ta invece quello di identificazione del bambino, diverso dai genitori in cui si imbatte e dai com­pagni con cui dovrà vivere.

Oggi, che arrivano sempre più spesso in Italia bambini anche grandicelli, con una storia perso­nale alle spalle, la diversità in cui si deve fare i conti non è solo quella somatica: è costituita da abitudini, da modi di sentire e di esprimersi (anche in forme non verbali, le sole attraverso cui si riesce a comunicare, per un certo tempo), da processi logici differenti e concetti morali par­ticolari. Ignorando tutto questo, si rischia di tro­varsi presto in situazioni di incertezza maggiore, a tutto danno sia del bambino, sia della coppia o della famiglia adottiva.

Le diversità vanno riconosciute, insomma. E capite nelle loro ragioni biologiche, storiche, cul­turali. Dopo che saranno state capite, si potran­no percepire come ricchezza e come motivo di reciproco arricchimento: è un passaggio obbliga­to per arrivare a quel «vivere con l'altro» cui si accennava all'inizio.

È prevedibile che, una volta accolte come va­lore le diversità del figlio, i genitori provino rim­pianto per non poter essere simili a lui e persino per non poter conservare, nel bambino, che cre­sce nel contesto socio-culturale italiano, le qua­lità tipiche della sua origine. Altrettanto, nel bambino che avverte di essere amato anche per le sue qualità «diverse» ci sarà una certa ambivalenza, un gioco alterno tra la fierezza d'appar­tenere alla propria razza e il bisogno di identifi­carsi con i genitori adottivi.

Si tratta, in pratica, di costruire e di reggere giorno per giorno un equilibrio fatto di mobilità, non di staticità. È una realtà insolita, forse non facile da vivere, abituati come siamo a giudicare positiva solo ciò che è concluso, ben definito, stabile. Soprattutto quando si parla di famiglia.

In sintesi: un figlio «diverso» può creare una famiglia «diversa». Cioè una piccola rivoluzio­ne. L'importante è decidere se si vuol imboccare questa strada. È una strada che comporta diffi­coltà. Proprio per questo non è possibile propor­re l'adozione internazionale come soluzione di ripiego per le coppie che non riescono ad adotta­re un bambino italiano. Tanto meno è possibile accettare che continuino le «adozioni selvagge» di bambini stranieri, introdotti in Italia senza al­cuna garanzia giuridica e affidati a coppie che, nella gran maggioranza dei casi, non hanno né i requisiti formali, né forse quelli sostanziali, per una maternità-paternità di questo tipo. Ancora una volta si rende necessario ribadire l'urgenza di arrivare ad una precisa legislazione italiana in materia.

 

 

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