Prospettive assistenziali, n. 50, aprile - giugno 1980

 

 

HANDICAP E TERRITORIO: UN’ESPERIENZA

CAFFARENA CLAUDIO, DELSEDIME ISABELLA, MONTENEGRO TERESINA, NEGRI TIZIANA, PASTORE ANGELO (1)

 

 

Premessa

Nell'anno 1978 il Comune di Settimo torinese si inseriva con un proprio progetto nel piano di intervento nei confronti degli handicappati ul­traquattordicenni promosso dalla Regione Piemonte (finanziato dalla CEE).

Tale progetto si articola in tre tipi di inter­venti:

- struttura diurna socio-formativa;

- inserimenti nella formazione professionale;

- inserimenti lavorativi (normali, tirocini e «pilotati»).

La globalità del progetto è scaturita da un la­voro precedente di censimento, analisi delle si­tuazioni ed interventi conoscitivi (domiciliari, in­dividuali e collettivi utilizzando i centri di incon­tro) che hanno posto le basi per la individuazio­ne delle risposte ritenute più idonee in relazione alle risorse a disposizione (è in atto, a livello di Unità locale, l'avvio di un progetto che affronti globalmente la problematica degli handicappati ultraquattordicenni).

Ci pare utile, in presenza di una serie di ini­ziative (il piano regionale CEE, il progetto spe­ciale sui «gravissimi») che si collocano all'inter­no delle indicazioni che la Regione Piemonte ha espresso sul problema dell'handicap (si veda la recente pubblicazione regionale DPR 21) avviare un approfondito confronto tra le esperienze in atto.

L'articolo che segue è dedicato all'analisi dell'intervento attuato attraverso la «struttura diur­na socio-formativa» e si pone come tentativo di una «lettura» dell'esperienza in atto da circa sette mesi, una riflessione «dall'interno» del servizio. Certamente non è facile scrivere su una esperienza operativa di recente avvio (in at­to dall'ottobre '79), inserita in un progetto speri­mentale, e che assorbe quotidianamente le no­stre forze nella gestione complessiva, dagli aspetti materiali, alle problematiche di formazio­ne e di relazione con i ragazzi, al ripensamento critico e alla continua invenzione e programma­zione.

D'altra parte ci pare utile lo sforzo di una, se pur iniziale, teorizzazione sulla prassi quotidiana. La motivazione immediata deriva dal pregio particolare dello scrivere che permette di ripen­sare a ciò che si è attuato, prendendone minima­mente le distanze, ed essendo costretti ad esse­re più complessivi nella analisi di quanto non si faccia nella discussione quotidiana di verifica dell'esperienza.

 

Un'ipotesi di fondo

La prassi quotidiana del nostro gruppo (2) si articola dialetticamente ad ipotesi di fondo, che ne costituiscono il presupposto e che sono da essa continuamente messe in discussione e ri­verificate.

La principale concerne la condizione stessa di handicap (fisico, psichico, sensoriale). Tale con­dizione esprime uno stato fondamentale di de­pauperizzazione, di solito a più livelli interrelati tra loro: dal livello neurologico e motorio a quel­lo della comunicazione e dei rapporti interperso­nali, dal livello delle esperienze emotive ed af­fettive a quello delle esperienze di inserimento nella vita sociale.

Dato emergente è come il grado ed il livello di privazione vissuta dal l'handicappato, non sia­no stati e non siano inevitabili e fatali, ma tro­vino bensì una motivazione in fatti precisi. Di qui la convinzione che sussista, almeno parzialmen­te, una reversibilità di queste privazioni e che permangano nei ragazzi stessi numerose risorse da sviluppare.

Una tale ottica fa passare in secondo piano la preoccupazione per una sofisticata e «scien­tifica» classificazione basata sugli aspetti noso­grafici dell'handicap (3), per proiettarci verso una più accurata e precisa individuazione di tutti que­gli aspetti (relazionali, comportamentali, poten­zialità residue) sui quali poter costruire, con gli utenti stessi, il loro «progetto di vita».

In tal modo ci sembra scaturiscano elementi utili per tutti coloro che sono coinvolti nell'in­tervento:

- il ragazzo sollecitato a divenire protagoni­sta della propria vita, delle proprie scelte;

- l'operatore, il quale è orientato a preoccu­parsi e a ricercare ciò che di positivo esiste nel ragazzo con cui lavora: le sue potenzialità, le sue capacità, i suoi interessi; tutti elementi sui quali poter contare in una prospettiva di crescita glo­bale;

- la famiglia, troppo spesso legata ad una visione «organicistica» e pessimistica dell'han­dicap del proprio figlio. La trasmissione delle sco­perte che quotidianamente vengono fatte nel la­voro con i ragazzi, possono introdurre elementi di maggiore serenità in situazioni cariche di tensione.

Ovviamente tali osservazioni valgono come li­nea di tendenza e come indicazione di metodo che, nella prassi, si cerca di seguire. Nella realtà ci scontriamo con la nostra oggettiva difficoltà di leggere fedelmente e di interpretare corretta­mente ciò che succede; con la incomprensione e la divergenza di obiettivi fra noi e le famiglie; con le barriere che, in particolare in presenza di handicaps fisici, il contesto pone.

 

Note metodologiche

Proponiamo una lettura della realtà in cui ci siamo trovati ad operare e dell'intervento che si è effettivamente fatto fino ad ora su questa realtà.

Ciò a partire da una scelta metodologica pre­cisa, che è anche un modo particolare di vedere la relazione che intercorre tra strumenti e obiet­tivi. Quindi due considerazioni:

- per raggiungere certi obiettivi finali (inse­rimento, autonomia piena, lavoro...) è opportuno lavorare per costruire delle tappe evolutive in­termedie nel ragazzo, nella relazione che riesce ad instaurare, nelle capacità, nelle consapevolez­ze. Quindi è necessario pensare ad un lavoro graduale e non ad esperimenti casuali ed improv­visati, ideologicamente corretti ma perdenti nel­la pratica;

- d'altro lato, obiettivi o fini quali quelli so­praddetti non possono essere pensati come en­tità separate o addirittura contrapposte agli stru­menti, ai mezzi tentati per raggiungerli. E solo se questi obiettivi si ritrovano tutti rispecchiati dentro ogni momento di costruzione intermedia, se diventano principi di fondo irrinunciabili allo­ra effettivamente il pensare a momenti interme­ di non significa giustificare una prassi arretrata con obiettivi (raggiunti chissà quando) avanzatis­simi. In conclusione quindi individuiamo delle tappe di cambiamento e lavoriamo gradualmente per raggiungerle. Queste non sono legate a una rigida consequenzialità, i tempi sono a volte di­versi e per alcuni ragazzi certe tappe non saran­no superate.

Ciò non viene però fatto all'interno di una esperienza educativa chiusa fra quattro mura che aspetta grandi cambiamenti nell'evoluzione dei ragazzi e nella ricettività del contesto sociale per inserirsi nella vita normale, ma al contrario con la verifica continua data dall'apertura, dalle quotidiane uscite e da tutti i momenti di presen­za sul territorio.

 

Servizio e territorio

Se l'intervento con gli handicappati è sempre stato appannaggio di istituzioni segreganti (isti­tuti, laboratori protetti, corsi di formazione pro­fessionale speciali) la linea che muove il servi­zio in cui lavoriamo è al contrario fortemente ter­ritoriale. Non solo per l'orario diurno, per il con­tatto con le famiglie, per la collocazione nel Co­mune d'appartenenza, condizioni queste neces­sarie ma non sufficienti per garantire una logica di territorio effettiva.

Elemento caratterizzante del progetto è l'in­dividuazione del territorio, nelle sue istituzioni, nei suoi luoghi di aggregazione, nella sua tota­lità, come luogo ove hanno origine problemi, di­sagi e contraddizioni e dove pertanto questi van­no riportati ed affrontati.

In questa direzione la struttura socio-formati­va si articola pertanto con le altre forme di inter­vento nei confronti degli handicappati ultraquat­tordicenni: gli «inserimenti al lavoro» (attuati attraverso i contatti con il sindacato, l'Ufficio di collocamento e le forze imprenditoriali) e gli in­serimenti, con formule diverse, nella scuola pro­fessionale ENAIP. Più specificamente, per i ra­gazzi portatori di handicap che vengono alla strut­tura, non è la struttura il campo fisico di collo­cazione, ma la città. La biblioteca diventa la sede naturale dei momenti di scolarizzazione e di in­formazione, la «chiamata pubblica al lavoro» è un appuntamento settimanale con le difficoltà del mondo del lavoro, il centro d'incontro di quartie­re articola i suoi progetti per i giovani con quelli della struttura, l'utilizzo di piscina e palestra pubbliche è un obiettivo che abbiamo raggiunto.

Ma prima ancora di queste cose vi è la chiara decisione di non collocare all'interno della strut­tura nessun servizio già esistente sul territorio, o che ivi possa essere creato (dalla fisioterapia, alle visite mediche e specialistiche, alle proiezioni cinematografiche). Questo è a nostro pa­rere, uno dei modi in cui invece più sottilmente continua a passare in strutture anche nuove, la vecchia logica istituzionale.

Ma un serio lavoro di territorio va fatto senza illusioni.

La crisi del nucleo familiare e dell'istituzione scuola, le gravi difficoltà nel mondo del lavoro, le profonde contraddizioni della vita sociale trac­ciano il quadro di una realtà ove è molto più marcata la responsabilità di produrre disagio che la capacità di risolverlo autonomamente.

È in questa condizione diffusa, fortemente in­tollerante e cieca ai problemi dei deboli, che trova un senso la funzione di difesa, e di soste­gno che il servizio in cui operiamo ha, e che si concretizza nell'ambiente-struttura.

Dunque la struttura socio-formativa è uno spa­zio ben delimitato al cui interno ci si propone di conoscere e individuare i bisogni particolari di una particolare utenza e, insieme a questa, in­dividuare, ricercare, sperimentare possibili ri­sposte. Due esempi per chiarire questa funzione:

- all'interno della struttura tutte le barriere architettoniche sono state eliminate nei lavori di ristrutturazione, perché l'ambiente presentasse il minor numero di difficoltà alle persone con handicap fisico, ma anche perché potesse dive­nire un possibile modello di situazione abitativa di questo tipo;

- la socializzazione della struttura viene fa­vorita e in qualche modo «guidata» ed i rapporti con le altre persone vengono, da una parte ri­cercati, dall'altra in qualche modo filtrati dagli operatori e dal gruppo (ad esempio, gli operatori della struttura insieme a quelli del centro d'in­contro stanno lavorando con una attenzione par­ticolare alle relazioni tra i due gruppi di ragazzi, attraverso gite, uscite e discussioni comuni).

In questo senso la struttura costituisce, per la maggior parte dei ragazzi, soltanto un momento di passaggio che va a sfociare, in tempi lunghi o brevi, in un inserimento pieno ed autonomo nel territorio.

Accenniamo soltanto in questa sede ai nume­rosi problemi che insorgono per la presenza di ragazzi portatori di handicap tali da rendere og­gettivamente impensabile un inserimento senza appoggi costanti.

 

La pratica di lavoro

Elemento qualificante di tutto l'intervento di­retto con i ragazzi è che esso è totalmente ge­stito non a livello del singolo operatore ma dall'intero gruppo.

Ciò che si è collettivamente progettato diven­ta operatività comune, nello sforzo di non irrigi­dirsi in ruoli e di porsi ai ragazzi come gruppo unito, che discute molto al suo interno, e che si propone come punto di riferimento omogeneo e globale.

Il rapporto più individualizzato con i vari ope­ratori è ben accetto nella sua spontaneità ed è riconosciuto come una modalità preziosa e non sostituibile di contatto, attraverso cui passano messaggi di comprensione, di sicurezza e di con­fidenza. Esso si inserisce comunque però all'in­terno di una verifica di gruppo senza la quale corre il rischio, a nostro parere, di assumere degli aspetti che possono essere regressivi («l'operatore che si occupa di me come una mamma», «l'operatore più buono e l'operatore più cattivo»...) e che possono determinare un rapporto logorante e falsificato.

Possiamo individuare tre grandi aree, che in parte si sovrappongono e si comprendono, che l'intervento copre e su cui incide:

- SOCIALIZZAZIONE

- MATERIALITÀ

- APPRENDIMENTO

Intendiamo per socializzazione tutto ciò che scaturisce dalla vita collettiva quotidiana, dai rap­porti dei ragazzi tra loro, con gli operatori e con il mondo esterno.

Questo aspetto è particolarmente importante e significativo perché si contrappone alla condi­zione di isolamento e di mancanza di identità su­bita dai ragazzi portatori di handicap.

Conoscere questi ragazzi vuol dire infatti fare esperienza di una comunicazione povera, inter­rotta, spaventata.

In primo luogo la comunicazione verbale: il linguaggio è imperfetto, scorretto, posseduto solo in minima parte; dato costante inoltre, la resistenza ad usarlo per farsi capire e capire. Lo sforzo nostro è quindi quello di far parlare molto i ragazzi, discutere con loro, informarli, interpel­larli. Alcuni grossi temi sono ormai argomenti abituali: le loro esperienze passate, la vita fa­migliare, la televisione, i problemi personali, l'in­namorarsi, la vita sessuale. A questo scopo uti­lizziamo la lettura di giornali e riviste e la discus­sione in biblioteca, la partecipazione per alcune ragazze al corso delle «150 ore» sui problemi della salute della donna, organizzato dal consul­torio famigliare.

Lo sforzo è anche di insegnare ad ascoltare attivamente, criticamente, senza vergognarsi di chiedere spiegazioni quando non si capisce.

In secondo luogo il vissuto di un corpo imper­fetto, malato, impotente che si porta dentro chi quotidianamente si scontra con la propria con­dizione di handicappato fisico, o il vissuto di un corpo goffo e impacciato, che non sa esaudire desideri e dunque non sa esprimerli, pongono molte gravi difficoltà anche alla comunicazione più istintiva, non-verbale. I momenti di gioco, di contatto, di spontaneità (sui prati nelle gite in collina, ascoltando la musica) rilassanti per tut­ti, sgombrano e liberano a volte questi canali e restituiscono in uno sguardo, un gesto, la sensa­zione profonda di essere capito e capire fino in fondo, anche a chi, ai sensi di una classificazione diagnostica rigorosa, non può che essere collo­cato a livelli gravissimi.

L'altro aspetto di questa dimensione socializ­zante è l'offrirsi della struttura come spazio so­ciale ricco, dove si costituiscono precise norme sociali, ben diverse dall'unica norma che i ragaz­zi hanno conosciuto: quella che li esclude.

Queste norme che i ragazzi imparano a cono­scere e a riconoscere, a rispettare, a trasgredire e a costruire, costituiscono la rete che lega cia­scuno a tutti gli altri e che coinvolge tutti nella vita comune.

Il rispetto delle decisioni comuni, delle esi­genze dell'altro, la collaborazione, i conflitti, la appartenenza, costituiscono esperienze in cui il «vaglio sociale» di ogni comportamento per­mette una crescita nella propria identità.

Per molti ciò costituisce un'esperienza del tut­to nuova, poiché non è mai stata data prima d'ora ad essi la possibilità di accedere ad una legge sociale (isolamento e reclusione in casa, perma­nenza in Istituti spersonalizzanti, ruolo sociale ir­rigidito in una tollerata devianza); diventano mo­tivo di conflitto la resistenza alle norme e alle regole comuni, le reazioni provocatorie nel mo­mento in cui si chiede che queste vengano ri­spettate.

La struttura investe nell'intervento la materia­lità delle condizioni di vita dei ragazzi handi­cappati.

Nei casi dei ragazzi parzialmente autosufficien­ti e non autosufficienti ciò significa farsi carico di momenti di vita quotidiana quale imboccare, vestire, sollevare ecc., ma questo non tanto e non solo per alleviare la famiglia su cui grava questo carico, e generalmente perché questi aspetti del servizio sono inevitabili e necessari al ragazzo.

Vi è infatti la precisa scelta da parte degli operatori di impostare un rapporto che passi pro­prio per le contraddizioni materiali che i ragazzi pongono.

Si parte quindi da un modo diverso di affron­tare questi momenti per mettere in discussione il rapporto che si instaura fra l'handicappato e il sano che lo aiuta (normalmente il familiare, la madre). Ciò significa, di fatto, mettere in discus­sione le dinamiche della dipendenza e della au­tonomia, rimescolando le carte del dare e dell'avere.

I momenti del pranzo, del trasporto, del bagno, sono occasioni per incidere sugli strumenti di sopravvivenza quotidiana col proprio handicap.

L'aiuto nello svolgere certe funzioni veicola messaggi diversi da quelli dei genitori o del re­sto delle persone: questo è un momento fonda­mentale nel rapporto perché si esprime come ac­cettazione del problema dell'altro e del diritto dell'altro a trovare sostegno; ma anche come sti­molo a trovare nuove soluzioni per conquistare più autonomia.

Inoltre la vita quotidiana è l'occasione per in­ventare i mille accorgimenti che accompagnano lo svolgimento delle azioni (la cannuccia per be­re, il registratore con tasti semplici da usare, ecc.).

In particolare questi momenti diventano signi­ficativi nel rapporto con i ragazzi più gravemente handicappati, con i quali spesso la comunicazio­ne verbale è difficile e passa invece facilmente attraverso questi momenti particolari.

Per i ragazzi autosufficienti portatori di handi­cap psichico medio-lieve l'intervento si propone di fornire gli strumenti per analizzare certi aspet­ti della loro realtà, che li aiutino ad uscire dalla condizione di mancanza di identità e scarsa co­scienza di sé in cui spesso sono relegati.

Ciò significa sviluppare con loro un serio la­voro di informazione e formazione sui problemi sociali, sul mondo del lavoro, sulla disoccupa­zione, attraverso discussioni, letture, confronti con ragazzi che lavorano ed hanno altri problemi.

Più specificamente questo implica motivarli ad uno sviluppo più complessivo della loro condizio­ne finora relegata in ambiti molto parziali e limi­tati dalla realtà. Un obiettivo non meno impor­tante è offrire ai ragazzi gli strumenti affinché possano instaurare un diverso rapporto fra «se stessi» e le «cose che fanno», quindi tra le attività che svolgono e gli oggetti che producono. Molto spesso infatti i ragazzi hanno una scar­sissima fiducia nelle cose che possono e sanno fare ed una altrettanta sfiducia nei risultati che possono ottenere.

È necessario quindi ricondurre costantemente i ragazzi all'importanza del prodotto della loro attività, non solo per il suo valore «intrinseco» (perché è ben fatto, ecc.), ma per ciò che esso rappresenta, per il legame che esso ha con la persona che l'ha realizzato.

Il contenuto centrale della giornata è costituito dall'apprendimento. Diciamo subito che non per questo la struttura diventa un sostituto della scuola dell'obbligo, dei corsi professionali o dell'apprendistato. Infatti in questo senso ci si è immediatamente orientati verso strutture aperte a tutti ove i ragazzi potessero inserirsi fianco a fianco alla popolazione «normale». La collabo­razione degli operatori di istituzioni e servizi ha reso possibile: l'inserimento di 5 ragazzi nel cor­so di laboratorio della scuola ENAIP; l'utilizzo autonomo della biblioteca; la partecipazione al corso pubblico di tessitura organizzato dal cen­tro d'incontro. È importante sottolineare come tutti gli inserimenti sono il prodotto di lavoro concreto, che ha permesso il superamento dei gravi ostacoli che ogni volta, esplicitamente o impercettibilmente, vengono posti alla concretiz­zazione dello slogan «inserite gli handicappati». A causa di ciò può nascere a volte la tentazione di rinunciare a perdere tempo e fatica per co­struire momenti di inserimento e ripiegare su una gestione autarchica e certo apparentemente più agile dei problemi. Ma non è certo aggirando e coprendo le contraddizioni tra slogan e prassi, tra inserimento di ognuno e massima produttivi­tà ed efficienza, che qualcosa cambia. Pertanto anche nella dimensione formativa, che le è pro­pria, la struttura si appoggia, si integra, si veri­fica con le altre strutture specifiche presenti sul territorio e non le sostituisce al suo interno. Ac­canto a questi momenti di apprendimento più strutturati che si collocano fuori dall'ambiente struttura, vi sono tutte le attività che si svolgono all'interno e che, pur non essendo organizzate secondo un programma rigido, si articolano in un progetto più generale volto al raggiungimento di alcuni fini, quali:

- la conoscenza della realtà esterna (sia dell'ambiente più prossimo che della più ampia so­cietà civile);

- l'acquisizione di strumenti, conoscenze, abi­lità, in particolare di quelle essenziali per il rag­giungimento della propria autonomia o di una sempre minore dipendenza dagli altri;

- il raggiungimento di una maggiore coscien­za di se stessi intesa come riappropriazione delle proprie potenzialità e come maggiore conoscen­za dei propri bisogni e desideri.

I programmi di attività vengono sistematica­mente rivisti e modificati a seconda dei risultati raggiunti, del manifestarsi inatteso di nuovi in­teressi, dell'evoluzione di ognuno e del gruppo.

È proprio tale dinamicità che ci ha fatto pre­diligere attività che fossero soprattutto stimo­lanti più che attività occupazionali o professio­nali in senso stretto, volte ad un'acquisizione sempre più perfezionata di selezionate capacità (spesso, infatti, nei confronti degli handicappati ci si è limitati ad individuare un'attività partico­lare in cui i soggetti «riescono bene» come la tessitura o la pelletteria e a perfezionarla attra­verso l'esercizio quotidiano).

Gli strumenti (dai laboratori, agli ateliers, agli attrezzi di lavoro) diventano quindi stimoli per esprimersi, conoscere, realizzare, acquisire. I laboratori di falegnameria, di artigianato, di stam­pa e fotografia, vengono usati per realizzare pro­getti stabiliti con i ragazzi e non solo per acqui­sire delle tecniche (si costruiscono gli scaffali per la biblioteca interna, si stampano le foto per la ricerca sulle barriere architettoniche, ecc.); il pranzo insieme è un'occasione per imparare a confezionare i cibi, a preparare e spreparare la tavola, ad essere autonomi; mentre la musica, il giardinaggio, la tessitura occupano parte del tempo libero.

Ovviamente, al fine di avere un quadro più completo dell'esperienza in atto, sarebbe oppor­tuno affrontare altri temi e problematiche che lasciamo ad un secondo momento in quanto ne­cessitano di ulteriori approfondimenti.

Un primo esempio è dato dai rapporti con le famiglie.

Sottolineiamo la necessità del coinvolgimento delle famiglie nella gestione dell'handicap e il tentativo (in quanto il pericolo di richiesta di istituzionalizzazione è sempre e massicciamente presente soprattutto nei confronti di situazioni gravi) di superamento della delega totale. In tal senso uno strumento, ancora in fase di speri­mentazione, che ci è parso utile, è l'incontro quin­dicinale tra operatori e genitori finalizzato, da un lato al confronto ed alla verifica dell'operatività, dall'altro all'attivazione in chiave collettiva in un esame della relazione e del rapporto educativo con i ragazzi.

Un secondo tema che consideriamo fondamen­tale nella operatività è quello della modalità col­lettiva, in quanto équipe di lavoro, di discussione e di verifica costante. A ciò si collega l'ampio discorso della formazione degli operatori che si sviluppa a partire dalle problematiche legate al­la pratica quotidiana.

La possibilità infine di scambi di informazioni, di confronto-verifica fra esperienze affini, in par­ticolare nei confronti degli handicappati ultra­quattordicenni, costituisce un elemento essen­ziale nella sperimentazione, all'interno dei ser­vizi di territorio, di nuove formule di intervento.

 

 

 

(1) Operatori del Comune di Settimo Torinese, Assesso­rato ai servizi socio-sanitari.

(2) È necessario rilevare l'importanza che ha assunto la composizione del gruppo di lavoro fondata su due parame­tri tra loro complementari:

- la formazione: i componenti dell'équipe sono tutti in possesso di una formazione di base relativa alle problema­tiche sociali. La provenienza da ambiti diversi è stata molto proficua poiché spesso ha favorito la discussione e una analisi più completa delle problematiche emerse;

- le esperienze: rispetto alle problematiche sociali e, in particolare nei confronti del problema handicap. Anche que­sta componente ha svolto un ruolo determinante, consen­tendo, attraverso la messa in comune delle esperienze svolte, la reale attivazione di una comune modalità di inter­vento.

(3) Con tale affermazione non vorremmo essere frain­tesi. Se da un lato elementi diagnostici, in grado di deli­neare in modo preciso e corretto la condizione del ragazzo, sarebbero un prezioso punto di riferimento iniziale, dall'al­tro, solamente un approccio nei confronti dell'handicappato che tenga conto della sua collocazione nel contesto in cui vive, permette di intervenire in una dimensione effettiva­mente globale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it