Prospettive assistenziali, n. 48, ottobre - dicembre 1979

 

 

ADOZIONE E AFFIDO: ANALISI DELLE PROPOSTE DI LEGGE PRESENTATE DA DC, PCI E PSI

 

 

L'adozione può essere considerata da due di­versi, anzi opposti punti di vista:

- partendo dall'interesse dei minori in situa­zione di totale abbandono morale e materiale. L'istituto giuridico idoneo e rispondente a queste esigenze è «l'adozione speciale» da parte di co­niugi riconosciuti idonei ad allevare e istruire il minore e in grado di mantenerlo. Le domande dei coniugi superano di gran lunga il numero dei bam­bini adottabili; è pertanto giusto, partendo dall'interesse dei minori, vietare l'adozione speciale alle coppie troppo anziane, alle persone sole ed alle coppie conviventi;

- partendo dalle aspettative (a volte puramen­te egoistiche e compensative di problemi perso­nali anche patologici) degli adulti. È allora evi­dente che l'adottato può essere o meno in stato di abbandono, può essere un minore o un adulto; a loro volta gli adottanti possono essere anche persone anziane o sole o coppie conviventi.

 

Carenze della legge 431/1967

In questi primi dodici anni di applicazione della legge 5 giugno 1967, n. 431, istitutiva dell'ado­zione speciale, accanto ad aspetti indubbiamente positivi (migliaia di bambini in situazione di ab­bandono sono stati adottati) si sono verificati fatti estremamente negativi quali:

a) il mercato dei bambini italiani e stranieri, spesso favorito da assurde sentenze di molte Corti di appello e di alcuni Tribunali per i mino­renni;

b) l'inapplicabilità dell'adozione speciale per i minori di età superiore agli otto anni;

c) la mancata soppressione degli istituti giuri­dici dell'adozione ordinaria e dell'affiliazione;

d) le lungaggini ingiustificate della procedura prevista dalla legge per arrivare alla dichiarazio­ne di adottabilità;

e) l'omessa segnalazione di minori in situazio­ne di abbandono;

f) il mancato invio degli elenchi trimestrali dei minori ricoverati in istituto da parte di molte isti­tuzioni pubbliche e private e la inesatta indica­zione dei reali rapporti esistenti fra il minore ed i suoi genitori d'origine;

g) la pressione sui genitori d'origine affinché riconoscano il bambino nei casi in cui essi sono assolutamente incapaci sul piano affettivo ed educativo di provvedervi;

h) la inattività pressoché totale di gran parte dei giudici tutelari, specialmente di quelli che operano nei piccoli centri;

i) la possibilità da parte dei genitori d'origine di risalire alla famiglia adottiva mediante la sem­plice consultazione dell'atto integrale di nascita del bambino.

 

Mercato dei bambini italiani e stranieri

L'aspetto più grave è indubbiamente il mercato dei bambini che si attua mediante:

- il falso riconoscimento da parte dell'uomo che vuole il bambino senza sottoporsi agli accer­tamenti di idoneità previsti dalla legge 431/1967. Con sentenza del 13 novembre 1979 la Sezione per i minorenni della Corte di appello di Torino ha addirittura dichiarato che il falso riconosci­mento non costituisce reato ed ha ordinato la immediata consegna del bambino al falso padre;

- l'applicazione delle norme relative all'ado­zione ordinaria per i minori adottabili con ado­zione speciale;

- l'incetta di minori stranieri nei loro paesi d'origine da parte di persone singole, coniugate o conviventi, spesso del tutto inidonee sul piano educativo, incetta favorita anche dalle deliba­zioni delle sentenze straniere pronunciate spesso dalle Corti di appello italiane senza tener conto dell'interesse del minore (1).

 

Coesistenza dell'adozione ordinaria e speciale

L'applicazione della legge 5-6-1967 n. 431, ha portato a constatare che la «coesistenza dell'isti­tuto dell'adozione ordinaria con quello dell'ado­zione speciale è causa di notevoli inconvenienti. Innanzitutto perché autorizza il genitore naturale che vuole disfarsi sostanzialmente del proprio figlio o portare lo stesso in vendita consegnando­lo o a chi offre di più o a chi - a parere insinda­cabile e spesso interessato del genitore - ap­pare più capace di soddisfare esigenze del geni­tore più che esigenze del minore» (A. Carlo Moro, Prospettive di riforma della legge sull'ado­zione speciale, in «La Famiglia», n. 38). Aggiun­geva Moro, Presidente del Tribunale per i mino­renni di Roma e dell'Associazione fra i giudici minorili: «Le conseguenze di questo assurdo sta­to di cose ricadono tutte sui minori che si vedono assegnare per tutta la vita a persone incapaci sul piano psicologico e pedagogico; che si vedono praticamente "venduti" al miglior offerente; che acquisiscono spesso dei "nonni" più che dei "ge­nitori" di cui invece hanno estremo bisogno; che vengono spesso dilacerati sul piano affettivo dal­la contemporanea presenza di due padri o di due madri che si contendono il loro affetto».

 

Modifiche proposte da DC, PCI e PSI

Dopo dodici anni di applicazione della legge sull'adozione speciale, era attesa una modifica della legislazione vigente tale da assicurare una più efficace e più sollecita tutela dei minori in situazione di abbandono.

Invece destano vivissime preoccupazioni le proposte presentate dalla DC (Senato, n. 170 del 26-7-1979 e Camera, n. 496 del 7-8-1979), dal PCI (Senato, n. 282 del 27-9-1979) e dal PSI (Senato, n. 306 del 4-10-1979 e Camera, n. 735 del 16-10­1979 (2).

Le proposte hanno solo tre aspetti positivi: l'età dei minori adottabili con adozione speciale è in­nalzata dagli attuali 8 anni ai 18 (come d'altra parte prevede una Convenzione europea in mate­ria, ratificata dall'Italia e da altri paesi), la sem­plificazione della procedura giudiziaria e le norme che indicano quali devono essere i servizi di so­stegno individuale e familiare e gli interventi sostitutivi del ricovero, norme però che dovreb­bero più opportunamente essere inserite nella legge nazionale (e quindi anche in quelle regio­nali) concernente la riforma dell'assistenza.

Molto negative sono invece le altre norme ri­guardanti i contenuti di fondo. Infatti il motivo informatore delle proposte della DC, del PCI e del PSI non è quello della legge 431 e cioè la tutela dei minori privi di assistenza materiale e morale; la finalità di fondo è rivolta invece a ren­dere possibile l'adozione ai coniugi, alle coppie conviventi, alle persone singole, insomma a tutti, siano essi giovani o vecchi, idonei ad educare o meno.

Tale caratteristica - sembra incredibile - è molto più accentuata nella proposta del PCI.

Inoltre - fatto gravissimo - l'adozione spe­ciale non è più limitata, come giustamente pre­vede la legge 431, ai minori «privi di assistenza materiale e morale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi», ma viene estesa:

- dalla proposta DC al minore «privo di am­biente familiare idoneo ad assicurargli un ade­guato sviluppo psico-fisico» (art. 27). Inoltre le condizioni di adottabilità sono così previste: «Il minore che non riceve da parte dei genitori o parenti entro il quarto grado quella diretta assi­stenza materiale o morale indispensabile per un adeguato sviluppo psico-fisico è in situazione di abbandono e deve essere dichiarato in stato di adottabilità» (art. 8);

- dalla proposta PCI ai minori «che pur non essendo privi di assistenza materiale da parte di chi è tenuto agli alimenti, versino in condizioni di abbandono morale e siano privati di rapporti affettivi ed educativi da parte dei genitori e degli altri parenti, quando dal permanere di tale situa­zione può derivare agli stessi minori grave ed ir­reparabile pregiudizio» (art. 15).

In base a quanto sopra previsto, il Tribunale per i minorenni non si limita più, come prevede la legge attuale, a valutare se vi è privazione di as­sistenza materiale e morale, ma entra nel merito dei rapporti affettivi ed educativi.

Inoltre non è più prevista la privazione dell'as­sistenza materiale e morale, ma è sufficiente la mancanza di una delle due forme di assistenza per dichiarare l'adottabilità.

In tal modo l'adozione speciale diventa uno strumento che consente la sottrazione dei figli alle famiglie povere o in difficoltà, ed ai genitori emigrati o abitanti lontano dall'istituto in cui i figli sono ricoverati.

Quanto alla possibilità dell'adozione speciale e ordinaria alle coppie conviventi, si manifestano notevoli perplessità e riserve anche in relazione all'enorme numero di domande di adozione spe­ciale presentate da coniugi ai Tribunali per i mi­norenni (il rapporto medio è di un minore ogni 10 domande) per cui tutti i minori dichiarati adot­tabili possono essere adottati.

Sempre per quanto riguarda l'adozione speciale da parte di coppie conviventi coniugalmente, si dovrebbe tenere inoltre conto:

- della ancora insufficiente accettazione so­ciale delle coppie conviventi e dei relativi figli; - dell'assenza di una esperienza consolidata sulle coppie conviventi;

- dell'impossibilità, stante la legislazione vi­gente, che ai minori adottati da coppie conviventi coniugalmente siano riconosciuti diritti-doveri uguali a quelli esistenti fra fratelli e sorelle (vedi al riguardo la sentenza n. 76 dell'11-5-1977 della Corte Costituzionale).

Pertanto si ritiene che i minori adottabili non debbano essere inseriti in situazioni che a livello sociologico sono ancora sperimentali.

L'inopportunità dell'affidamento a scopo di ado­zione vale non solo per le coppie conviventi co­niugalmente per i motivi sopra esposti, ma anche per le persone singole, per l'evidente condizione di sfavore in cui verrebbe a trovarsi il minore. Inoltre tale inopportunità riguarda le coppie dell'uno o dell'altro sesso (in cui l'inserimento di un minore è possibile tramite l'adozione di una per­sona sola).

 

L'adozione ordinaria

L'adozione ordinaria non solo ha lo scopo di assicurare discendenti a chi ne è privo (quindi l'adottato è un semplice oggetto-strumento), non solo è indispensabile per il mercato dei bambini, ma è anche un mezzo per ridurre il carico fiscale (v. C. Manera, Eredità senza tasse, La Tipografica, Varese, pag. 51).

Va pertanto respinta nettamente la proposta del Pci che non solo intende conservare l'adozione ordinaria, ma vuole renderla idonea ad essere uno strumento per la sottrazione dei bambini alle famiglie povere e/o in difficoltà. Infatti l'art. 2 della proposta del Pci dà al giudice il potere del tutto discrezionale di consentirla «nei casi in cui essa si presenti più vantaggiosa all'adottato ri­spetto all'adozione speciale, all'affidamento fami­liare e all'affiliazione».

Da notare, al riguardo, che l'assenso dei geni­tori all'adozione del proprio figlio non è necessa­rio «per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo» (art. 5).

Da notare infine che nessun requisito di tipo educativo è richiesto dalla proposta di legge del Pci agli adottanti con adozione ordinaria; inoltre non è previsto alcun limite massimo di età per cui un ottantenne potrebbe adottare un bambino anche piccolo.

Non è nemmeno accettabile la proposta della Dc che mantiene l'adozione dei maggiorenni e che consente l'adozione di minorenni anche quan­do non sono in situazione di abbandono.

Se il legislatore intendesse consentire l'allac­ciamento dei rapporti fra adottati e adottanti maggiorenni, per evitare l'assurdità che tali rap­porti rientrino fra quelli relativi alla filiazione, potrebbe essere previsto un nuovo istituto giuri­dico denominato, ad esempio, «Trasmissione del cognome e del patrimonio»: bisogna però avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.

 

Adozione senza dichiarazione dello stato di adottabilità

Notevoli perplessità suscita, per motivi di prin­cipio ed anche a causa dei possibili abusi e con­flitti, la proposta del PSI di consentire l'adozione «senza dichiarare lo stato di adottabilità» ai pa­renti entro il 3° grado che accolgono o intendono stabilmente occuparsi del minore, a chi convive con il genitore e a coloro che hanno accolto mi­nori stranieri affidati dalla competente autorità straniera «a scopo (?!?) di adozione».

 

Minori non riconosciuti

Allarmante è la proposta del PSI che prevede, quali interventi da attuare in tutti i casi, la so­spensione della dichiarazione di adottabilità dei minori non riconosciuti, la convocazione dei «ge­nitori» dei suddetti minori dinanzi al Presidente del Tribunale per i minorenni, la fissazione di un termine, della durata di tre mesi «perché prov­vedano a riconoscere il minore». Inoltre il Tribu­nale può impartire ai «genitori» «prescrizioni idonee a garantire il mantenimento, l'istruzione e l'educazione del minore».

Le suddette norme partono dall'assurdo prin­cipio che il vincolo del sangue debba essere sal­vaguardato e debbano essere fatte tutte le pos­sibili pressioni sui genitori, dimenticando che il legame fra genitori e figli non può essere im­posto.

D'altra parte chi opera nel settore sa che, men­tre è altissimo il numero dei bambini riconosciuti (e anche legittimi) che vivono in situazione di ab­bandono morale (e cioè con genitori che se ne disinteressano totalmente), rarissimi sono i casi di minori non riconosciuti nei riguardi dei quali si manifesta il tardivo interessamento dei geni­tori.

D'altra parte il non riconoscimento è stato giu­stamente reso possibile dal legislatore per com­battere gli infanticidi.

A questo riguardo, stante anche l'elevato nu­mero di bambini legittimi in situazione di com­pleto abbandono, c'è da chiedersi se non sia op­portuno non consentire anche alla madre coniu­gata di non riconoscere il proprio nato, così come si consente ad essa di abortire.

 

L'affiliazione

La proposta del PCI prevede che i minori, «do­po tre anni di affidamento educativo» possano es­sere affiliati. I genitori d'origine sono semplice­mente sentiti e quindi l'affiliazione può essere pronunciata anche contro la loro volontà e nono­stante che fra essi ed il figlio sussistano validi rapporti affettivi.

Per quanto concerne l'affiliazione va osservato in primo luogo che si tratta di un istituto che non è previsto in nessun'altra legislazione e che ven­ne istituito dal fascismo con la seguente incivile motivazione: «Noi vi proponiamo di riannodare il nuovo istituto all'attività delle opere assisten­ziali del regime, inquadrando detta attività, in quanto è attività tutelare, nel libro del codice civile. La nuova istituzione riallacciata a questo nuovo inquadramento mentre facilita, completa e rinforza questa forma di allevamento del fan­ciullo, curata dalle opere assistenziali, che viene chiamata "allevamento esterno" e che è ritenuta, sotto i riguardi così igienici che morali e sociali, preferibile all'allevamento all'interno degli istituti di pubblica assistenza, armonizza, dall'altro lato, tale forma assistenziale con la soddisfazione di un doppia bisogno giuridico individuale. Il biso­gno, anzi il diritto degli illegittimi perché lo Stato intervenga a cancellare l'inferiorità familiare e sociale che loro infligge la colpa dei genitori ed il bisogno spirituale, morale e talora economico, specie nel campo agricolo, delle famiglie sterili e fornite di poca prole, di avere un focolare allie­tato dal sorriso del fanciullo e di reclutare nuove forze di aiuto e di completamento della comunità economica familiare» (v. la relazione della Com­missione Piola Caselli, Di Marzio e Costamagna, nominata il 10-4-1937).

Questo istituto aveva in sostanza lo scopo di sottrarre i bambini alle famiglie povere. Infatti i genitori di origine sono «sentiti» dal Giudice tutelare che può decretare l'affiliazione anche «contro» il loro parere.

Per fortuna l'affiliazione non é stata molto uti­lizzata a questo scopo, ma quasi esclusivamente per fini diversi da quelli per i quali era stata isti­tuita.

Stante l'assurdo divieto di riconoscimento dei propri figli adulterini, l'affiliazione è stato il mez­zo usato dai genitori per dare ai propri figli il cognome, per ottenere gli assegni e per poter usufruire delle prestazioni mutualistiche.

Tale utilizzo oggi è superato, come dimostra an­che la rilevante diminuzione delle affiliazioni omo­logate passate dalle 2824 del 1958 alle 412 del 1978, dalle norme del nuovo diritto di famiglia che consentono alle persone sposate di ricono­scere i propri figli nati fuori del matrimonio, per cui l'affiliazione dovrebbe essere soppressa come prevede la proposta DC.

 

L'affidamento di minori a scopo educativo (non adottivo). Principi generali

L'affidamento ha lo scopo di dare a un minore che per diversi motivi non può continuare a vi­vere con i propri genitori o parenti, un'altra fami­glia. Il compito di tali affidatari cessa non appena si sono rimosse o sono venute meno le cause che ranno condotto all'allontanamento dalla famiglia originaria il minore. Caratteristica distintiva dell'affidamento quindi deve essere la conservazione di un rapporto costante con la famiglia di origine.

Un'altra forma di affidamento può essere con­siderata la comunità alloggio. In prima approssi­mazione è possibile affermare che rientrano fra le comunità alloggio tutte quelle iniziative nelle quali, in un alloggio inserito nel contesto sociale, vive in permanenza un gruppo composto da bam­bini o adolescenti e da adulti (educatori, coniugi, ecc.) responsabili della loro formazione. Nella comunità alloggio i minori rimangono fino a quan­do sia possibile, a seconda delle situazioni, il loro ritorno nella famiglia di origine o un auto­nomo inserimento nella vita sociale.

Il concetto a cui si ispirano l'affidamento fami­liare, le comunità e i centri-base, parte ovvia­mente dalla considerazione che il bambino, ogni bambino, per crescere bene ha bisogno di essere inserita in un sistema armonico di rapporti af­fettivi.

Da questo punto di vista non c'è dubbio che affidamento e comunità alloggio costituiscono una valida alternativa al ricovero in istituto, in quanto sono maggiormente in grado di fornire un am­biente affettivamente gratificante, capace di in­staurare un rapporto personalizzato.

L'esperienza italiana in materia di affidamento non è più in fase sperimentale; si può dire che le maggiori difficoltà incontrate sono legate alla mancanza di interventi nei confronti delle fami­glie di origine che accettano malvolentieri l'affi­damento stesso. Inoltre molto spesso gli affida­tari sono lasciati soli con tutto il carico dei pro­blemi generati dall'inserimento del minore e dai rapporti con la famiglia naturale.

In una situazione di questo tipo purtroppo molti affidamenti si concludono malamente, con un'in­terruzione più o meno drammatica del rapporto ed il passaggio del minore ad altra famiglia affi­dataria o con il ritorno in istituto. I danni causati da queste carenze sono facilmente immaginabili, sia per i minori, che si sentono rifiutati, sia per gli affidatari, che ricevono forti frustrazioni di fronte ad insuccessi che assai spesso non sono direttamente dovuti a loro.

L'affidamento familiare e le comunità alloggio non possono né devono essere degli interventi improvvisati, ma devono rientrare nell'ambito di una organizzazione territoriale dei servizi (Unità locale e quartiere). Tale organizzazione deve in­tervenire innanzitutto sulle cause che provocano l'allontanamento dei minori dalla loro famiglia in modo da ridurre gli inserimenti in famiglie affidatarie ed in comunità alloggio ai casi strettamente necessari.

Inoltre i servizi devono essere in grado, sia per il loro livello di funzionamento, sia per la prepa­razione del personale addetto, di intervenire nei riguardi del minore, delle famiglie d'origine e di quelle affidatarie, al fine di evitare situazioni di contrapposizione o comunque di conflitto.

Infine è necessaria ogni promozione culturale sulla popolazione, affinché l'affidamento non sia visto come un intervento punitivo nei confronti della famiglia di origine, ma come un atto di soli­darietà e di collaborazione sociale.

 

Proposte DC e PCI sull'affidamento a scopo educativo

Le proposte di legge DC e PCI attribuiscono la competenza per gli affidamenti educativi di minori esclusivamente all'autorità giudiziaria: al Tribu­nale per i minorenni la DC e addirittura agli uffici delle tutele il PCI, nonostante che questi uffici, per vari motivi, abbiano dimostrato di non essere in grado di assicurare un funzionamento accet­tabile.

Attribuendo te competenze all'autorità giudizia­ria si trasforma - fatto gravissimo - una forma di aiuto fra famiglie (praticata da secoli) promos­sa dall'ente pubblico (unità locale) in un inter­vento punitivo nei riguardi delle famiglie povere o in difficoltà.

Inoltre la proposta del PCI consente la trasformazione dell'affidamento educativo nell'affiliazio­ne, che può essere pronunciata contro la volontà dei genitori, anche nei casi in cui essi abbiano conservato validi rapporti affettivi con i propri figli!

Si ritiene invece che tutta la materia relativa all'affidamento a scopo educativo di minori deb­ba restare di competenza degli enti assistenziali e che il Tribunale per i minorenni debba interve­nire solo nel caso in cui vi sia conflitto fra la famiglia d'origine e l'ente assistenziale. In que­sto caso il Tribunale per i minorenni dovrebbe intervenire solo per disporre o meno l'allontana­mento del minore dalla sua famiglia e decidere conseguentemente se l'ente assistenziale deve intervenire o meno (3).

All'ente assistenziale dovrebbero rimanere le competenze seguenti:

a) messa a disposizione di servizi e interventi non assistenziali (asili nido e scuole materne con orari adeguati, scuola dell'obbligo a tempo pieno, casa, ricerca di posti di lavoro, ecc.);

b) assistenza economica;

c) assistenza domiciliare compresa quella edu­cativa;

d) affidamenti educativi presso famiglie, per­sone o comunità alloggio;

e) interventi a favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell'ambito delle competenze amministrative e civili (art. 23 del DPR n. 616 del 24-7-1977).

Al riguardo va precisato che alcune Regioni o alcuni Enti locali si sono già mossi nella dire­zione dei servizi alternativi sopra citati; si veda­no la legge della Regione Umbria n. 12 del 23-2­1973, della Regione Toscana n. 15 del 7-4-1976; le leggi regionali relative ai consultori; la delibera della Regione Piemonte n. 40-2603 del 13-4-1976; la delibera del Comune di Torino n. 1390 del 20-7-1976; le iniziative di altri Comuni, Province e enti assistenziali.

Vi è inoltre da tener presente che, ai sensi del DPR n. 616 del 24-7-1977 «Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22-7-1975 n. 382», le competenze assistenziali dello Stato e dei vari enti nazionali e locali sono state trasferite ai Comuni che devono gestirle nell'ambito delle Unità locali.

Si fa inoltre presente che l'esperienza italiana e straniera dimostra che gli affidamenti disposti dall'autorità giudiziaria sono quasi tutti falliti sia perché la famiglia d'origine del minore vive l'affi­damento disposto dalla magistratura non come un aiuto ma come un intervento negativo (puni­tivo) nei suoi riguardi, sia perché il Tribunale non può disporre gli interventi alternativi all'affida­mento stesso prima indicati, sia infine perché l'autorità giudiziaria non può garantire l'aiuto tecnico (selezione, preparazione, appoggio conti­nuo durante l'affidamento) agli affidatari, aiuto tecnico che è indispensabile per la buona riuscita dell'inserimento del minore e per adeguati rap­porti con la famiglia d'origine.

Tenuto conto di quanto sopra, si propone che la legge definisca solo i poteri ed i doveri degli affidatari ed i rapporti con la famiglia d'origine e con l'ente assistenziale affidante.

 

Altre osservazioni

Per quanto riguarda le osservazioni più speci­fiche sulle proposte della DC e del PCI si riba­disce quanto scritto nel n. 6/7, 1-15 aprile 1978 di Prospettive sociali e sanitarie.

In riferimento al disegno di legge del PSI, gli altri punti ritenuti inaccettabili, in quanto con­trari agli interessi dei minori, sono i seguenti:

- la possibilità che gli elenchi trimestrali dei minori ricoverati in istituto siano trasmessi all'Ente locale in alternativa all'invio al Tribunale per i minorenni. L'Ente locale sarebbe addirittura giudice di se stesso per quanto riguarda i minori ricoverati dall'Ente stesso;

- la possibilità data agli Enti locali di autoriz­zare l'affidamento preadottivo scavalcando il Tri­bunale per i minorenni;

- il riferimento, per alcuni interventi, al Giu­dice tutelare, la cui inattività in troppi uffici ha già danneggiato migliaia e migliaia di minori;

- l'estensione degli accertamenti per la di­chiarazione dello stato di abbandono a tutti i parenti entro il 3° grado, estensione che rallenta di mesi o anni la procedura per la dichiarazione di adottabilità;

- il divieto della dichiarazione dello stato di adottabilità nei casi in cui la mancanza di assi­stenza materiale e morale da parte dei genitori «dipenda da particolari condizioni economiche, sociali ed occupazionali, da malattia o da reclu­sione».

Tale casistica, che riguarda sia la mancanza di assistenza transitoria che quella definitiva o a tempo indeterminato, non tiene quindi in alcun conto le esigenze fondamentali di vita del minore. Il minore va considerato invece una persona con dei suoi diritti e non una «proprietà» dei genitori;

- la previsione che la dichiarazione dello stato di adottabilità non possa in ogni caso essere pro­nunciata prima che siano trascorsi tre mesi dal parto, anche nei casi in cui il minore è in una situazione di totale abbandono, fatto che non tiene conto della ormai da tempo riconosciuta importanza dei primissimi mesi del bambino per il suo futuro.

Infine le tre proposte di legge presentano le seguenti carenze:

- mancata previsione di una norma transitoria per rendere possibile l'adozione speciale dei mi­nori finora adottati con adozione ordinaria o affi­liati o affidati a scopo educativo;

- assenza di norme per rendere possibile l'a­dozione speciale dei minori affidati a scopo edu­cativo quando la loro situazione abbia assunto le caratteristiche di legge che configurano l'ab­bandono materiale e morale da parte dei genitori e di parenti tenuti a provvedervi;

- la mancata previsione di norme dirette a consentire agli adottanti che hanno accolto mi­nori di età superiore ai sei anni di beneficiare delle norme delle leggi 9 dicembre 1977 n. 903 «Parità di trattamento tra uomini e donne in ma­teria di lavoro» e 30 dicembre 1971 n. 1204 «Tutela delle lavoratrici madri». Gli stessi di­ritti dovrebbero essere estesi a coloro che accol­gono minori in affidamento educativo, purché di­sposto dagli Enti locali.

 

Conclusioni

La discussione parlamentare delle proposte di legge DC, PCI e PSI ha già avuto inizio presso la Commissione giustizia del Senato.

Il rischio della loro approvazione è dunque non solo grave, ma anche vicino: anche se i margini ed i tempi per impedire l'approvazione di norme tanto assurde e spesso incivili sono limitati, non si deve rinunciare a priori ad assicurare una ido­nea tutela ai minori ed alle loro famiglie.

L'adozione speciale dovrebbe essere consen­tita per i minori solo nei casi di comprovata as­senza di rapporti con i genitori ed i parenti tenuti a provvedere; l'adozione ordinaria e l'affiliazione dovrebbero invece essere soppresse stante la loro finalità diversa, anzi opposta a quella sopra specificata.

Per i minori di famiglie povere o in difficoltà gli interventi dovrebbero essere diretti alla elimi­nazione delle cause che provocano la richiesta di assistenza (lavoro, servizi sanitari e abitativi, isti­tuzioni prescolastiche e scolastiche non selettive e con orari adeguati, ecc.), mentre per gli assistiti attuali e futuri, fino al superamento dell'assisten­za, gli interventi dovrebbero essere finalizzati alla permanenza dei minori nelle loro famiglie (assi­stenza economica e domiciliare, altre prestazioni sociali) e comunque nel contesto sociale di ap­partenenza (affidamenti educativi e comunità al­loggio).

 

 

 

(1) Sul problema dell'adozione di minori stranieri si veda in questo numero l'articolo «Aspetti giuridici dell'adozione internazionale» del CIAI.

(2) Nonostante le numerose e documentate critiche ri­volte durante l'indagine conoscitiva svolta dalla Commis­sione Giustizia del Senato (v. Prospettive assistenziali, n. 45, pag. 79 e n. 47, pag. 48) alle proposte di legge pre­sentate nella scorsa legislatura da DC e PCI, esse sono state ripresentate senza alcuna modifica.

Le proposte della DC e del PCI sono state pubblicate sul n. 40 di Prospettive assistenziali, quella del PSI è ripor­tata in questo numero.

Circa la posizione di alcuni giudici minorili sulle propo­ste di legge DC e PCI, si veda il n. 42 di Prospettive assi­stenziali; sul n. 43, pag. 76, il CIAI espone la sua linea con particolare riferimento all'adozione internazionale.

 (3) La proposta del PSI attribuisce giustamente le com­petenze in materia agli Enti locali, ma fa riferimento al Giudice tutelare invece che al Tribunale per i minorenni nei casi di mancato consenso all'affidamento educativo da parte dei genitori del minore.

 

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