Prospettive assistenziali, n. 42, aprile-giugno 1978

 

 

Libri

 

 

U. MARZUOLI, Guarire è un po' morire - Storie vere d'ospedale raccontate da un primario, Mazzotta, Milano, 1978, pag. 157, L. 2500.

 

Che cosa succede realmente negli ospedali? Ce lo descrive Ugo Marzuoli, primario dell'Ospe­dale civile di Alessandria, esaminando il ruolo dei medici e della gerarchia sanitaria subalterna. «I medici hanno potere su tutto il personale di corsia (capisala, infermieri professionali e gene­rici, ausiliari) e sui malati. I capisala (più spesso le caposala) hanno potere su infermieri profes­sionali e generici, ausiliari e malati; i professio­nali (o meglio le professionali) su generici, ausi­liari e malati; gli infermieri generici su ausiliari e malati. Gli ausiliari, infine, esercitano il loro potere solo sui ricoverati. Questi ultimi non han­no alcun potere: sono l'oggetto del potere di tut­ti gli altri». «Tutte le degradazioni di dominio si scaricano su quell'oggetto finale che è il malato: l'ospedale è uno dei luoghi dove il proletariato può esercitare il potere sul proletariato. Nel suo ambito soltanto i ricoverati sono veramente cit­tadini di seconda o terza classe».

Il malato è una cosa, «è nel suo letto e sa di sicuro solamente di essere un malato. Tutto il resto gli è ignoto: qual è la sua malattia? Guari­rà? In quanto tempo potrà guarire? Morirà? Ri­marrà invalido per sempre? Medici, capisala e infermieri non lo degnano di una spiegazione».

Raramente il malato si difende: ma non si tratta mai di una difesa organizzata (il che richie­derebbe una alleanza con forze esterne), ma solo di piccole astuzie.

Marzuoli tenta di modificare la situazione: «Avevo deciso - per usare un linguaggio ag­giornato - di fare un salto di qualità che trasfor­masse, nell'ambito del mio reparto, i rapporti tra operatori sanitari e sociali». Per fare questo, convoca un operaio metalmeccanico ricoverato in seguito ad un infortunio sul lavoro e un sin­dacalista, membro di un consiglio di fabbrica, per sapere come sono trattati, se hanno delle rimostranze da fare, per conoscere come vivono i rapporti gerarchici esistenti nel reparto. Da par­te loro nessuna lamentela, nessun rilievo, tutto va benissimo.

È certo importante la disponibilità dei medici, dei capisala e degli infermieri per modificare in senso democratico il rapporto malato-operatore, ma tale processo non farà significativi passi a­vanti fino a quando i cittadini e le forze sociali e sindacali non assumeranno pienamente la salute come problema collettivo. Ciò richiede anche, a nostro avviso, che il tema della salute (e ciò vale per tutti i servizi in cui l'utente viene a trovarsi in situazione di dipendenza) venga gestito dai sindacati a livello intercategoriale: in caso con­trario continueranno a prevalere - come finora è successo - le spinte corporative e non le esi­genze degli assistiti.

 

 

C. TREVISAN (a cura di), Il distretto di base nell'unità locale dei servizi, Fondazione Zancan, Padova, 1978, pag. 250, L. 7500.

 

Una organizzazione dell'Unità locale fondata sulla gestione non settoriale dei servizi esige la costituzione dei distretti (o compartimenti) sani­tari e assistenziali.

Essi possono essere definiti come una suddi­visione del territorio dell'Unità locale compren­dente in genere da 5.000 a 10.000 abitanti nel quale opera un gruppo di operatori sanitari e so­ciali in grado di fornire le prestazioni di base.

Per i compartimenti sanitari e assistenziali (preferiamo chiamarli così per non creare confu­sioni con í distretti scolastici) non si pongono problemi istituzionali, in quanto l'unico organo di governo è quello dell'Unità locale.

Il problema della formazione dei compartimen­ti è ancora aperto alla discussione: loro utilità, dimensioni, personale, attività, rapporti con gli altri servizi dell'Unità locale.

Nella pubblicazione è riportata la documenta­zione su alcune esperienze riguardanti i compar­timenti sanitari e assistenziali.

Queste esperienze mettono in evidenza ten­denze tecnicistiche estremamente pericolose. Vi è infatti da sottolineare, fra l'altro, che per par­tecipazione si intende la cogestione. A pag. 33 è scritto: «la partecipazione si attua attraverso azione di (...) gestione: attività di diretta condu­zione di servizi specifici (vedasi ad es. i comitati di gestione degli asili nido) nell'ambito degli o­biettivi e della programmazione nei confronti dei quali la partecipazione viene esercitata come forma di promozione e di controllo».

In ogni caso la costituzione dei compartimenti è indispensabile per assicurare il funzionamento dell'Unità locale e per garantire risposte globali alle esigenze della popolazione e per liquidare le vecchie gestioni settoriali.

 

 

N. TEDESCHI, Mio fratello mongoloide, Ed. C1au­diana, Torino, 1977, pag. 119, L. 2200.

 

È uscito nella collana «Nostro tempo» un li­bro che ripropone il tema dell'inserimento dell'handicappato nella famiglia, nella scuola, affron­tando attraverso una testimonianza il problema di una emarginazione.

È una storia vera che malgrado il titolo ad ef­fetto non vuol creare un turbamento immediato in senso pietistico nel lettore, ma condurlo at­traverso una esperienza vissuta al problema com­plesso e multiforme dell'inserimento.

Il vero valore dunque di questa esperienza vis­suta giorno per giorno da una intera famiglia, con abnegazione ed amore, sta nell'impegno che genitori, sorella, maestra e amici di Carletto di­mostrano nel confrontarsi con lui per dare un senso alla sua presenza.

L'ansia, la tensione morale, il problema affet­tivo che si creano attorno alla presenza del por­tatore di handicap cessano di essere una rispo­sta privata della famiglia per diventare stimolo ad una ricostruzione collettiva della vita del di­verso e dei suoi rapporti con il mondo esterno.

Ciò richiede una scelta che oggi diremmo di campo ed è da questa scelta che si sviluppa, in coloro che vivono con lui, una riflessione morale e culturale, una determinazione nuova nell'af­frontare pregiudizi ed ostacoli.

Giustamente quindi il libro ospita pareri di un medico, una psicologa, una neuropsichiatra che, rispondendo alla penosa interrogazione sul di­verso, propongono indicazioni tratte da esperien­ze già attuate in altri paesi, progetti di modelli alternativi verso cui si stanno orientando gli sforzi degli ambienti più sensibilizzati. Ma a que­ste nuove esperienze, a questi interventi alter­nativi come reagiscono e rispondono le persone, nella famiglia, nella scuola, nel territorio? Scen­dere nella pratica reale, incontrarsi con famiglie, operatori sociali, insegnanti per identificare i bi­sogni, costringere gli Enti locali a modificare le condizioni esistenti è un difficile, pesante lavoro di tutti i giorni. Il lavoro svolto a Torino è testi­moniato da interventi e proposte pubblicate in appendice e tratte da Prospettive assistenziali, materiale che è costato anni di ricerche, di la­voro di gruppi, di rapporto con la gente e che sta a dimostrare che è stato fatto qualcosa, ma che molto è ancora da fare.

 

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