Prospettive assistenziali, n. 42, aprile-giugno 1978

 

 

GIUDICI MINORILI - DPR 616 E PROPOSTE DI LEGGE SULL'ADOZIONE SPECIALE E ORDINARIA, AFFILIAZIONE E AFFIDAMENTI

 

 

A dieci anni dall'approvazione della legge n. 431, stampa di informazione, convegni, dibattiti hanno affrontato il problema dell'adozione per cercare di esaminarlo anche nella nuova ottica del trasferimento alle Regioni e agli Enti locali delle competenze dell'assistenza.

Nell'esigenza di essere in possesso di precise informazioni sull'argomento, Prospettive assi­stenziali ha posto ai giudici dei Tribunali per i minorenni le seguenti quattro domande:

1) quando venne approvata la legge 5-6-1967, n. 431, si disse che era stata compiuta una rivo­luzione copernicana poiché il bambino, che nell'adozione ordinaria era ed è uno strumento, ve­niva posto al centro del nuovo istituto dell'ado­zione speciale. Ciò premesso, qual è stata in sin­tesi l'esperienza positiva e negativa dei primi dieci anni di applicazione della legge n. 431?

2) che valutazione dà alle recenti proposte di legge presentate dalla DC e dal PCI e concernenti l'adozione speciale e ordinaria, l'affiliazione e l'affidamento di minori a scopo educativo?

3) il D.P.R. 616 stabilisce il passaggio alle Re­gioni (aspetti legislativi), ai Comuni (attribuzioni amministrative) e alle Unità locali (gestione) di praticamente tutte le competenze assistenziali. Come si inserisce tale trasferimento nell'attività finora svolta dal Tribunale per i minorenni, dalla Regione, dai Comuni e dalle Unità locali del ter­ritorio di competenza del suo Tribunale per i mi­norenni?

4) quali servizi preventivi e di assistenza alter­nativa sono stati predisposti e attuati dagli enti di cui sopra?

 

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Pubblichiamo le risposte che per ora ci sono state inviate da: Alfredo Carlo Moro, Presidente del Tribunale per i minorenni del Lazio; Giorgio Battistacci, Presidente del Tribunale per i mino­renni dell'Umbria; Ignazio Baviera, Presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo; Francesco Marzano, Presidente del Tribunale per i minoren­ni di Campobasso; Franco Occhiogrosso, Giudice del Tribunale per i minorenni di Bari; Camillo Lo­sana, Giudice del Tribunale per i minorenni di Torino.

 

 

INTERVENTO DI ALFREDO CARLO MORO (*)

(*) Presidente del Tribunale per i minorenni del Lazio.

 

Non è facile rispondere alle quattro domande che sono state rivolte nel limitato spazio che necessariamente ci può essere concesso: ogni problema sollevato richiederebbe infatti una am­pia trattazione. Cercherò comunque di esprime­re - sia pure in modo troppo sintetico, e quindi superficiale - il mio pensiero.

1) Questi dieci anni di applicazione della legge sulla adozione speciale consentono di formula­re un bilancio che, tutto sommato, può ritenersi largamente positivo. Certo la legge non ha risolto totalmente i problemi dell'infanzia abbandonata: ma era una illusione il ritenere che il nuovo istituto potesse da solo ridonare a tutti i bam­bini di famiglie in difficoltà quel sereno e sicu­rizzante clima familiare di cui hanno bisogno per sviluppare armonicamente la propria personali­tà e per realizzare un regolare processo di so­cializzazione. Direi anche che l'esperienza della legge sulla adozione speciale dovrebbe renderci estremamente guardinghi nel mitizzare come ri­solutivi singoli strumenti giuridici (penso per esempio a certe messianiche speranze nei con­fronti dell'istituto dell'affidamento familiare): il problema dell'infanzia in difficoltà deve risolversi principalmente con un intervento che elimini a monte le situazioni di carenza materiale o peda­gogica o psicologica della famiglia di origine, che deve essere dai servizi - e più in generale dalla ricostituzione di una adeguata qualità di vita - aiutata a svolgere il suo ruolo e la sua funzione.

Pur ridimensionata nelle finalità, la legge sulla adozione speciale ha avuto un benefico risultato nel nostro ordinamento e nel nostro costume: per la prima volta l'ordinamento giuridico ha ri­conosciuto che il minore è una «persona uma­na», titolare di precisi diritti, e non solo una «speranza di uomo» il cui interesse alla cre­scita umana è affidato alla benevolenza degli adulti; che il minore non è in proprietà dei ge­nitori che ne possono fare ciò che vogliono ma che il diritto dei genitori ad educare i propri figli sussiste solo nella misura in cui essi sap­piano adempiere ai doveri educativi; che il mi­nore ha un diritto alla famiglia perché solo in essa può trovare quel caldo affetto sicurizzante e quella ricchezza di rapporti interpersonali che sono indispensabili alla sua crescita umana; che la funzione educativa non è delegabile a terzi; che la famiglia legittima non può essere una famiglia chiusa, arroccata nella difesa dei pro­pri privilegi, ma può e deve essere una fami­glia aperta pronta ad esprimere la sua solida­rietà sociale nei confronti di coloro che sono privi di questo indispensabile sostegno e della conseguente ricchezza umana. Sono questi prin­cipi - introdotti nell'ordinamento con la legge del 1967 - che sono stati poi sviluppati in altri campi del diritto, principalmente attraverso la riforma del diritto di famiglia; quest'ultima rifor­ma in molte norme riguardanti i minori non si sarebbe potuta realizzare se la legge sulla ado­zione speciale non avesse dimostrato che i pa­ventati n guasti » non si erano verificati e che anzi, senza danni di terzi, i diritti del minore po­tevano essere più adeguatamente tutelati.

La legge ha anche avuto un benefico effetto sul costume: è essa che ha evidenziato la dannosità personale e sociale della istituzionalizzazione del minore; è essa che ha imposto un serio tenta­tivo di recupero della famiglia di origine ed ha conseguentemente messo in crisi una politica assistenziale basata sulla espropriazione del mi­nore dalla propria famiglia; è essa che ha evi­denziato l'assurdità della massicciamente pre­sente deportazione assistenziale; è essa che ha pesantemente condannato quel tristo fenomeno del mercato dei bambini sempre presente nel nostro paese ed ha evidenziato che il minore non è un prodotto di consumo per risolvere le nevrosi della solitudine di coppia ma una per­sona che deve essere sempre rispettata nel suo autonomo valore.

Il fatto che - a dieci anni di distanza dall'en­trata in vigore dell'istituto dell'adozione specia­le - non sempre le strutture assistenziali ab­biano saputo effettuare quella riconversione che era indispensabile per attuare pienamente i prin­cipi affermati nella legge; che la cultura cor­rente non abbia ancora pienamente recepito il principio che il diritto del bambino deve preva­lere sugli interessi degli adulti; che - anche per una miope politica di alcuni organi giudi­ziari e per il groviglio di interessi degli adulti - il fenomeno del mercato dei bambini non sia sta­to eliminato; che molti genitori siano riusciti - per le insufficienze dell'intervento assisten­ziale - a contrabbandare per impossibilità eco­nomica di curare i figli il loro reale disinteresse per essi; tutto ciò non intacca la positività della legge ma pone in evidenza solo quanto sia lungo e difficile il cammino che deve essere percorso nella vita sociale per fare anche del minore un cittadino avente pienezza di diritti.

2) L'esperienza di questi dieci anni consiglia va una riforma della legge sulle adozioni spe­ciali per renderla più idonea a svolgere il suo compito. Era necessario che fosse reso più inci­sivo lo strumento affidato al giudice di recupero della famiglia di origine coinvolgendo più diret­tamente i servizi assistenziali in questo com­pito; che fossero predisposti strumenti per stron­care il «mercato dei bambini» che va progres­sivamente sempre più sviluppandosi; che fosse superato il limite troppo angusto degli otto anni per la dichiarazione di adottabilità, anche perché tale limite porta a drammatiche differenze di trattamento nei confronti di fratelli che si trova­no nella medesima situazione; che fosse resa assai più agile la procedura prevista perché essa troppo spesso condanna i minori ad una lunga istituzionalizzazione prima dell'affidamento; che fosse reso meno lungo il periodo di affidamento preadottivo specie quando la famiglia adottiva ha già figli propri; che fossero eliminati alcuni istituti concorrenziali con l'adozione speciale che non appaiono rispettosi dei fondamentali diritti dei minori e che vengono spesso utilizzati per eludere le norme che a tutela del minore pone la legge n. 431.

Mi sembra che la proposta di legge della D.C. risponda molto meglio a queste esigenze, anche se alcuni ritocchi possono essere utilmente ap­portati al progetto; la proposta del P.C.I. invece mi sembra obiettivamente privilegiare - certo al di là delle intenzioni - gli interessi degli adulti su quelli dei minori, quando praticamente consente la «caccia al bambino» nel momento in cui riconosce un diritto prioritario a chi co­munque sia riuscito a creare un qualsiasi rap­porto con lui, quando riconosce legittimità a isti­tuti ormai superati come quello della adozione ordinaria, quando mantiene quel residuato sto­rico che è l'affiliazione in cui il bambino viene ad essere espropriato dal suo ambiente familia­re senza neppure ottenere uno status familiare e diritti al mantenimento del rapporto che si è iniziato con gli affilianti, quando non pone una qualsiasi disciplina tendente a stroncare il feno­meno del mercato dei bambini, quando consente l'adozione a persone molto avanti nell'età e quin­di non in grado di svolgere il proprio compito educativo ma solo desiderose di ottenere un conforto alla loro vecchiaia. Né appaiono con­vincenti le norme procedurali che anziché ren­dere più agile la procedura la inceppano notevol­mente allungando i tempi di affidamento ed au­mentando i tempi di permanenza in istituto (si pensi alla norma che impedisce la dichiarazione di adottabilità del minore non riconosciuto nei primi due mesi dalla nascita, la contemporanea segnalazione al giudice tutelare e al tribunale per i minorenni che può portare a interventi conflittuali e quindi a ritardi, la norma che impone al collegio prima dell'affidamento di sentire tutti gli aspiranti all'adozione che lo vogliono - e alcune volte sono migliaia -; la norma che im­pone di ricercare anche i parenti che non si sono mai occupati del minore perfino sconoscendone l'esistenza; la norma che impone l'udienza di trattazione anche se il genitore sia scomparso e nessuno voglia occuparsi del minore; la norma che consente plurime e continue istanze di revo­ca rendendo impossibile durante l'affidamento la pronuncia dell'adozione e consentendo agevol­mente ai genitori di conoscere a chi sia stato affidato il minore e di poter svolgere varie azio­ni di grave disturbo e così via).

3) In ordine al tema del passaggio agli Enti locali dell'intervento assistenziale deve ricono­scersi che la situazione è tutt'altro che tranquil­lante. E questo non solo o non tanto perché non sono stati predisposti ancora servizi indispensa­bili ad operare in questo settore, quanto perché principalmente si avverte un ritardo culturale a recepire questi problemi. Vi è il concreto peri­colo o che si trasferiscano, e male, in sede de­centrata gli stessi identici servizi che già esi­stevano - perpetuandone le caratteristiche di burocraticismo, di clientelismo, di settorialismo, di insufficiente attenzione ai bisogni dell'utente, di intervento più riparativo che preventivo - o che, per mutare, ci si lasci travolgere da massi­malismi e velleitarismi che rischiano di lasciare il minore completamente in balia di se stesso, rifiutandogli quell'aiuto di cui non ha solo biso­gno ma a cui ha anche diritto. E vi è conseguen­temente il pericolo che - di fronte a risposte del tutto carenti da parte degli Enti locali - si tornino a privilegiare le tradizionali risposte se­greganti e repressive.

 

 

INTERVENTO DI GIORGIO BATTISTACCI (*)

(*) Presidente del Tribunale per i minorenni dell'Umbria.

 

1) L'introduzione della legge sull'adozione spe­ciale ha contribuito innegabilmente a valutare gli interessi, i diritti e la personalità dei minori in maniera diversa dal passato. Anche in forza di tale legge si è avviata la elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza di un diritto del minore alla educazione con riferimento ai principi costituzionali e, in particolare, all'art. 30 della Costituzione. Si è cominciata altresì ad av­viare una maggiore consapevolezza che gli adulti (genitori, insegnanti, educatori in genere, ope­ratori sociali, ecc.) devono operare per promuo­vere l'educazione e lo sviluppo della personalità dei minori, cioè devono, in certo modo porsi al servizio del minore.

Anche per quanto riguarda l'azione dei giudici minorili, la legge sull'adozione speciale ha con­tribuito a sviluppare un orientamento, già mani­festatosi da qualche anno, per cui i giudici de­vono porsi come garanti del diritto alla educa­zione dei minori e quindi devono operare, attra­verso i loro interventi e provvedimenti, nel senso di tutelare e promuovere la loro educazione e lo sviluppo della loro personalità.

Non può però certamente affermarsi che tali orientamenti siano prevalenti in quanto è ancora mancante una presa di coscienza collettiva da parte degli adulti per quanto attiene il rispetto al minore e il loro dovere di operare per la pro­mozione della loro personalità e della loro edu­cazione. Si assiste ancora ad una serie di atteg­giamenti nell'ambito della famiglia, della scuola, dei servizi e anche della magistratura minorile che appaiono poco rispettosi della personalità e dei diritti del minore e sono rivolti piuttosto ad imporre ai minori moduli culturali, scelte di vita, atteggiamenti più rispondenti agli interessi e alle visioni degli adulti che a quelli dei minori. In particolare, per quanto attiene l'applicazione della legge sull'adozione speciale, anche se l'e­sperienza fatta in generale e nel distretto della Regione Umbra è stata positiva in quanto molti minori, attraverso l'adozione, hanno avuto assi­curato un ambiente carico di affetti e valido sul piano educativo che ha evitato loro carenze ulte­riori e magari l'avvio verso forme di irregolarità e di disadattamento, non può negarsi che si siano incontrate notevoli difficoltà.

In particolare da parte dell'opinione corrente e anche all'interno della magistratura, soprat­tutto a livello delle Sezioni minorenni delle Cor­ti di appello, si è continuato a dare eccessivo rilievo ai legami del sangue e si è posto a volte più l'accento sui diritti e gli interessi dei geni­tori naturali che su quelli del minore. A volte è stato ritenuto che la stessa opposizione propo­sta avverso il decreto di adottabilità fosse suffi­ciente a dimostrare l'interesse dei genitori na­turali nei confronti del figlio, trascurando tutte le carenze precedenti dei genitori che avevano fatto vivere al minore uno stato di abbandono. Inoltre sul piano degli affidamenti adottivi, a vol­te, si è guardato più all'interesse della coppia adottiva che a quello del minore, trascurando di guardare con atteggiamento critico a richieste nominative e a orientamenti espressi dalle cop­pie adottive in ordine a preferenze dei minori da accogliere in affidamento.

Fortunatamente nella Regione Umbra non si sono verificati casi di minori affidati da genitori naturali a coppie che hanno poi richiesto l'ado­zione speciale, per cui tutti gli affidamenti e le successive adozioni sono avvenuti tramite il Tri­bunale per i minorenni. Va però anche sottoli­neato che forse la legge sull'adozione speciale è stata caricata di eccessive aspettative, nel sen­so che si è ritenuto che attraverso di essa po­tesse ovviarsi in maniera totale o almeno mas­siccia alla istituzionalizzazione dei minori e ad assicurare ad essi un idoneo ambiente fami­liare.

Invece si è rilevato che in molti casi non po­teva ravvisarsi nella istituzionalizzazione di per sé una situazione di vero e proprio abbandono del minore in quanto il ricovero del minore in istituto non poteva farsi risalire in via esclu­siva al comportamento e agli atteggiamenti dei genitori naturali. È noto, infatti, come spesso la istituzionalizzazione sia la conseguenza delle ca­renze del sistema assistenziale, nonché delle al­tre carenze più generali sul piano della occu­pazione, della mancanza di alloggi e dello svi­luppo economico del paese. In certi casi un in­tervento sul piano dell'adozione speciale, con la conseguente rottura del rapporto fra figli e ge­nitori naturali, avrebbe significato un'ulteriore emarginazione e colpevolizzazione di famiglie, le cui carenze dovevano invece farsi risalire a re­sponsabilità che non erano le loro. Pertanto ap­pare sempre più evidente la necessità di ope­rare, prima di pensare a interventi sul piano dell'adozione speciale, per sostenere le famiglie di origine e per aiutare le stesse a risolvere quei problemi che sono la causa del loro scarso in­teresse e del loro ridotto impegno nei riguardi dei figli.

2)  Dopo dieci anni dal l'introduzione della leg­ge sull'adozione speciale, sono apparse evidenti anche alcune carenze della stessa sul piano nor­mativo e applicativo per cui può apparire oppor­tuna una riforma della legge stessa, sia pur limi­tata ad alcuni aspetti. In questo senso sono da salutare con favore le proposte di legge presen­tate dalla D.C. e dal P.C.I. concernenti l'adozione speciale e ordinaria, l'affiliazione, e l'affidamento dei minori, anche se esse appaiono a volte an­dare al di là di una semplice riforma di alcune norme della legge sull'adozione speciale.

In particolare la riforma della normativa, alla luce dell'esperienza compiuta in questi anni, do­vrebbe riguardare i seguenti aspetti che gene­ralmente sono presi in esame dalle due proposte di legge suindicate: l'elevazione dell'età per l'ap­plicazione della legge sull'adozione speciale da otto a diciotto anni, l'abolizione dell'istituto della affiliazione, la riduzione dello spazio di applica­zione della legge sull'adozione ordinaria che do­vrebbe essere limitato ai soli casi nei quali non è possibile procedere all'adozione speciale, la presa in considerazione della forza maggiore giustificativa della mancata assistenza del mi­nore solo quando questa sia di carattere tempo­raneo, una semplificazione della procedura per giungere alla pronuncia dello stato di adottabi­lità (modifica dell'art. 314/9 C.C. con elimina­zione della pubblicazione dell'avviso di ricerca dei genitori e dei parenti sui giornali; procedi­mento di opposizione allo stato di adottabilità in camera di consiglio ecc.); previsione della ricor­ribilità della sentenza che rigetta l'opposizione allo stato di adottabilità solo per Cassazione; previsione di una normativa rivolta ad impedire gli affidamenti da parte dei genitori naturali fuori dal controllo del Tribunale per i minorenni anche con sanzioni di natura penale; revisione della normativa in materia di atti dello stato civile per quanta riguarda i minori adottati, onde evitare possibili ricerche da parte dei genitori naturali e la individuazione da parte loro dell'inserimento adottivo del figlio.

Le proposte di legge sopra ricordate si pre­stano però ad alcune, anche rilevanti osserva­zioni critiche.

Innanzitutto nella proposta di legge del P.C.I. è stato conservato l'istituto della affiliazione e è stato conservato un largo spazio a quello dell'adozione ordinaria, istituti che potrebbero ser­vire a facilitare gli affidamenti di minori da parte dei genitori naturali senza il necessario controllo dei Tribunali per i minorenni. L'istituto dell'affi­liazione in particolare sembra del tutto esaurito di fronte alla legge dell'adozione speciale e alla pratica degli affidamenti a scopo educativo e ri­spondente ad un'ottica assistenziale del tutto inadeguata e non più accettabile.

In secondo luogo nelle proposte di legge e, soprattutto, in quella del P.C.I. sono contenute varie norme che potrebbero favorire un trasferi­mento dei minori dalle famiglie naturali alle fa­miglie adottive senza il controllo del Tribunale per i minorenni o, per lo meno, facendo trovare il Tribunale di fronte a situazioni di fatto già con­solidate o irreversibili. Così all'art. 2 in tema di adozione ordinaria e all'art. 14 in tema di ado­zione speciale nella proposta del P.C.I. viene dato eccessivo rilievo al consenso e alle scelte dei genitori naturali. Identica considerazione può es­ser fatta in merito all'art. 15 della proposta di legge della D.C. Nell'art. 30 della proposta del P.C.I. è ancora prevista la domanda nominativa da parte delle coppie che richiedono l'adozione, mentre al successivo art. 31 viene prevista una situazione preferenziale per le coppie che già hanno realizzato una convivenza con il minore del quale si chiede l'adozione. All'art. 29 della proposta del P.C.I. vengono allargate le possibilità della revoca dello stato di adottabilità an­che dopo che sia intervenuto l'affidamento prea­dottivo.

D'altra parte non sempre sembrano sufficien­temente tutelati i genitori naturali come, ad esempio, all'art. 15 della proposta del P.C.I., al­lorché viene dato rilievo ai fini dello stato di adottabilità anche alle situazioni di mero abban­dono morale.

Va ancora osservato che non sembrano con­vincenti alcune scelte soprattutto contenute nel­la proposta del P.C.I. per quanto riguarda i re­quisiti degli adottanti e le situazioni familiari prese in considerazione per pronunciare l'ado­zione.

Così sembra eccessivo prevedere la possibi­lità di adozione da parte di adottanti che non abbiano superato l'età di cinquanta anni: infatti i Tribunali per i minorenni si sono sempre più orientati a pronunciare affidamenti nei confronti di coppie il più possibile giovani. Sembra anche riduttiva la previsione di una convivenza degli adottanti di due anni e non di cinque anni come stabilisce la vigente legge.

Può consentirsi can la previsione contenuta nella proposta di legge del P.C.I. per cui la pos­sibilità di adozione viene aperta anche alle co­siddette famiglie di fatto, però anche in tale caso sarebbe opportuno prevedere una convi­venza più stabile e superiore ai due anni indi­cati nella proposta e, in ogni caso, sarebbe ne­cessario stabilire quale «status» verrebbe ad assumere il minore adottato da una famiglia di fatto.

Infine le previsioni contenute nell'art. 36 della proposta del P.C.I. lasciano perplessi perché sem­bra che non sempre ci si ponga l'obiettivo di assicurare al minore adottato la presenza di en­trambi i genitori. Ora, senza enfatizzare l'impor­tanza della famiglia, legittima o di fatto, non può sottacersi che i moderni orientamenti pedagogici e psicologici insistono stilla necessità per il minore di poter fare riferimento il più possibile per la sua educazione ad entrambe le figure pa­rentali, maschile e femminile.

Sembrano positive le indicazioni contenute nel­la proposta di legge del P.C.I. rivolte a tener conto della volontà del minore che ha compiuto sedici anni (art. 21, II comma e art. 28, II com­ma), mentre andrebbe evitata la presenza del minore che ha compiuto il dodicesimo anno di età nel procedimento di dichiarazione di adotta­bilità (art. 21, III comma).

Le proposte di legge sopraindicate lasciano soprattutto perplessi per ciò che attiene la rego­lamentazione dell'affidamento familiare, sia per­ché questo viene regolato nella stessa normati­va riguardante l'adozione e sia perché per di­sporlo viene sempre richiesto un provvedimento del Tribunale per i minorenni.

L'affidamento familiare dovrebbe essere visto come una forma di intervento rivolta a tutelare il minore e a garantirne la sua educazione allor­ché la famiglia naturale non sia in grado di svol­gere il suo ruolo educativo e non dovrebbe mai essere visto, tolti i casi eccezionali, come una via per giungere all'adozione. Pertanto, l'affida­mento familiare, potrebbe essere inquadrato nel­la normativa dell'art. 333 C.C. e potrebbe essere disposto con provvedimento del Tribunale per i minorenni solo quando i genitori si oppongano o non concordino nell'affidamento del minore e quando pertanto sia necessario adottare un prov­vedimento a tutela dello stesso. Nella genera­lità dei casi invece, allorché concordino sulla soluzione dell'affidamento familiare i genitori na­turali e i servizi interessati, dovrebbe essere la­sciato ai servizi la possibilità di disporre l'affi­damento stesso, magari con una semplice segna­lazione al Tribunale per i minorenni in modo che venga valutato l'interesse del minore e venga evitato che l'affidamento possa mascherare l'av­vio a una forma di adozione.

Sembra invece necessario prevedere quali so­no i diritti e i doveri degli affidatari, allorché si procede in qualche modo a una forma di affida­mento familiare. Da ultimo lascia perplessi la formulazione dell'art. 43 della proposta di rifor­ma del P.C.I. che modifica l'art. 400 C.C. Si com­prende come con tale norma si siano volute dare indicazioni sul modo come dovrebbe impostarsi una moderna assistenza ai minori, però una nor­mativa del genere, potrebbe trovare migliore col­locazione nelle leggi che le Regioni dovranno emanare in attuazione del D.P.R. n. 616 del 1977. Infatti alcune Regioni già hanno, prima ancora dell'entrata in vigore del D,P.R. suindicato, ema­nato norme orientatrici in materia di assistenza da osservarsi da parte degli Enti locali e dei servizi esistenti sul territorio, mentre Ammini­strazioni provinciali e comunali già si muovono in tal senso nell'attuazione dei loro compiti as­sistenziali.

3) Per quanto riguarda l'applicazione del D.P.R. 616 nella Regione Umbra, va rilevato che da tem­po era stata instaurata una efficace collabora­zione tra il Tribunale per i minorenni, la Regione, le Province e i Comuni dell'Umbria. Sin dal tem­po dell'applicazione della legge sull'adozione speciale, il Tribunale aveva avuto la piena col­laborazione dei servizi delle due Amministra­zioni provinciali di Perugia e Terni, sia per quan­to riguardava le indagini ai fini della pronuncia dello stato di adottabilità dei minori e sia per ciò che concerneva gli accertamenti relativi alla idoneità delle coppie adottive. In tale materia, il Tribunale non aveva mai utilizzato la collabora­zione dei servizi del Ministero di grazia e giu­stizia.

Anche per ciò che riguarda i provvedimenti in materia civile, il Tribunale, quando ciò era pos­sibile, aveva sollecitato e utilizzato la collabora­zione dei servizi delle Amministrazioni provin­ciali e dei Comuni. In particolare erano stati di­sposti affidamenti a servizi sociali degli Enti lo­cali a norma degli artt. 333 C.C., 25 n. 1 e 26 u.c. R.D.L. 20 luglio 1934 n. 1404 e succ. mod.

Sempre in materia di provvedimenti civili, va rilevato che la Regione Umbra, con legge 23-2­1973 n. 12, aveva dato indicazioni in materia di assistenza, privilegiando soluzioni alternative all'istituto, nel senso di sostenere le famiglie di origine dei minori e di favorire gli affidamenti familiari. I servizi degli Enti locali si sono mossi nel senso di favorire sempre soluzioni alterna­tive alla istituzionalizzazione dei minori.

Devesi però rilevare, che i Comuni, ai quali con la legge regionale suindicata erano state de­legate le competenze in materia assistenziale non sempre hanno seguito la logica antistituzio­nale della legge stessa, trovando più agevole at­tuare ricoveri in istituto anziché reperire solu­zioni alternative alla istituzionalizzazione.

Nel frattempo la Regione Umbra, in attuazione dei decreti presidenziali 15-1-1972 n. 9 e 5-6-1972 n. 315, ha iniziato a svolgere una attività di effi­cace vigilanza sugli istituti esistenti nella Re­gione e con decreto del Presidente della Giunta regionale in data 6 settembre 1977 n. 819 sono stati emanati criteri nuovi e aggiornati di idonei­tà delle comunità educativo-assistenziali per mi­nori esistenti nella Regione Umbra.

Tale azione ha condotto alla chiusura di molti istituti e alla riduzione della popolazione mino­rile presente negli istituti rimasti in funzione.

Va però rilevato, che, se, da un lato, si è ope­rato in tal senso, dall'altro, non avendo i Comuni, come accennato, dato vita a concrete soluzioni alternative agli istituti e non avendo recepito la logica della legge regionale n. 12 sopra citata, molti minori sono rimasti privi di assistenza e spesse volte gli interventi del Tribunale per i minorenni a tutela dei minori sono rimasti privi di efficacia.

4) Devesi ritenere che l'applicazione del D.P.R. 616 nella Regione Umbra incontrerà notevoli dif­ficoltà, solo in parte attenuate dal fatto che non esistono gravi ed estesi problemi in materia di disadattamento minorile.

Innanzitutto non sono costituiti in ogni com­prensorio i previsti consorzi socio-sanitari tra Comuni, ai quali il Tribunale per i minorenni do­vrebbe fare riferimento per gli interventi relativi a provvedimenti adottati nell'ambito della com­petenza amministrativa e civile. Inoltre in molti comprensori mancano o sono del tutto inade­guati i servizi sociali. Operano invece sul terri­torio regionale con diffusione in ogni compren­sorio gli operatori sociali e i centri di igiene mentale delle due Amministrazioni provinciali.

In secondo luogo non sono state ancora prese iniziative e non si sono previste strutture per quanto attiene al settore della competenza am­ministrativa del Tribunale, al fine cioè di rispon­dere ai bisogni dei minori irregolari. Non sono state individuate famiglie disponibili per l'affida­mento di minori irregolari, non sono ancora pre­visti gruppi appartamento, comunità alloggio o soluzioni affini per minori che presentino pro­blematiche del genere, anche se la Regione e gli Enti locali erano stati da tempo, già prima dell'emanazione del D.P.R. 616 e in previsione di questo, sollecitati dai magistrati minorili a pre­disporre servizi e strutture del genere.

Devesi rilevare ancora che, soprattutto a li­vello dei Comuni e dei consorzi tra di essi, di­fetta una reale sensibilità per i bisogni dei mi­nori, anche se ciò è in parte spiegabile perché gli Enti locali appaiono impreparati ai compiti nuovi che il D.P.R. 616 e tutta la legislazione ema­nata dopo l'attuazione dell'ordinamento regiona­le, viene loro affidando. Occorre ripensare alla caratterizzazione, alle attività, al funzionamento, alla fisionomia dell'Ente locale comunale singolo e associato e a tal fine appare urgente la riforma della legge comunale e provinciale. Da ultimo va osservato che qualsiasi intervento in favore dei minori rivolto alla tutela e alla promozione dei loro diritti risulterà vano, se nell'ambito del ter­ritorio interessato non verranno attuate iniziative di carattere generale, che potrebbero definirsi di «politica giovanile», a livello scolastico, occu­pazionale, di tempo libero, di vita associata, ecc., idonee a rispondere alle problematiche del mon­do giovanile del nostro tempo. Non sembra che almeno per il momento né la Regione Umbra, a livello politico e legislativo, né i Comuni, a li­vello amministrativo, si pongano obbiettivi del genere.

 

 

INTERVENTO DI IGNAZIO BAVIERA (*)

(*) Presidente del Tribunale per i minorenni di Palermo.

 

1) Siamo convinti che la legge 5 giugno 1967 n. 431 ha realizzato una evoluzione fondamentale nella considerazione che il bambino deve avere nell'ambiente in cui vive.

Questa legge, e la successiva del 19 maggio 1975 n. 151, attraverso la ripetuta prescrizione di perseguire «il preminente interesse del mi­nore» hanno introdotto un principio generale di diritto, che costituisce fonte di diritto esso stes­so e che dovrebbe illuminare nell'interpretazione di tutte le norme esistenti in materia.

Purtroppo non tutti vedono queste realtà giu­ridiche; tante volte sono quindi ignorate e vio­late.

In particolare viene ignorato il principio, po­sto dall'art. 30 della Costituzione, per cui i ge­nitori hanno il «dovere e il diritto di mantenere, istruire ed educare i figli». L'anteposizione del dovere sta ad indicare che in tanto esiste il di­ritto in quanto il dovere sia adempiuto; tuttavia spesso viene privilegiato il diritto prescindendo dalla constatata violazione del dovere.

È conseguenza della stessa posizione la valu­tazione e l'interpretazione che si dà comunemen­te alle locuzioni legislative «stato di abbando­no» e «privazione dell'assistenza materiale e morale».

Questi concetti vanno elaborati dalla società, che ne determina il contenuto concreto. Se mol­te volte l'uomo della strada si commuove alla notizia di episodi di sconvolgente oppressione o trascuratezza di bambini, altre volte le stesse persone - e i giudici che sono l'espressione della stessa società - sono più portati a lacri­mare sulla condizione dei genitori, che si vedo­no privati dei figli.

Bisognerebbe fare opera di divulgazione e di persuasione in ordine a tali concetti ed alle po­sizioni connesse e ribadire il concetto - che dovrebbe essere del tutto pacifico - che il mi­nore non è un oggetto in proprietà dei genitori, ma un autonomo soggetto di diritti, che deve ri­cevere la più larga protezione, per garantirgli la realizzazione di quelli che attengono alla sua crescita e alla sua migliore formazione fisica, psichica e sociale.

In conclusione la legge sull'adozione speciale deve essere solo meglio intesa e puntualmente applicata. Se vi sono storture e lacune, queste sono ascrivibili agli operatori e non alla legge.

2) Conosciamo solo la proposta di legge pre­sentata alla Camera il 17 agosto 1972 dall'On. Cassanmagnago e altri sull'affidamento familiare di minori a scopo educativo e la proposta di leg­ge n. 1911 presentata alla Camera dei deputati dalla stessa On. Cassanmagnago e altri il 22 mar­zo 1973, su modifiche alle norme sull'adozione.

a) Quanto alla prima si deve informare che una commissione di studio costituita presso il Centro di prevenzione e difesa sociale di Milano ha elaborato uno schema di progetto di legge sulla materia.

A prescindere dalla normativa di dettaglio, l'istituto dell'affidamento familiare è certamente capace di risolvere pressanti problemi di nume­rosi minori, che vivono in situazioni dolorose e pericolose di carenze educative e di ogni altro genere. Se finora è possibile realizzare un rime­dio applicando le norme degli artt. 330, 333 e 403 cod. civ. è tuttavia auspicabile una espressa normativa sulla materia.

b) La seconda proposta di legge tende a sop­primere l'istituto dell'adozione ordinaria, e a disciplinare con norme più idonee l'attuale ado­zione speciale denominata «filiazione adottiva».

Noi saremmo contrari all'abrogazione dell'isti­tuto dell'adozione ordinaria, che ha sempre un suo campo di applicazione e fattispecie per le quali è idonea e congeniale. Purtroppo, però, se ne è fatto un uso indiscriminato, che ha spesso soppiantato l'istituto dell'adozione speciale, là dove questo doveva trovare applicazione.

Non si è visto che per i principi della succes­sione delle leggi nel tempo, le norme degli arti­coli 291 e sgg. cod. civile, sono state tacita­mente abrogate dalla più recente legge n. 431 per tutti i casi che rientrano nella normativa di quest'ultima (art. 15 delle preleggi).

Questa realtà ne giustificherebbe la soppres­sione. Si potrebbe però sancire, con espressa disposizione legislativa che «l'adozione ordina­ria non può trovare applicazione per tutti i casi in cui sia iniziato o possa iniziare un procedi­mento per dichiarazione dello stato di adottabi­lità, qualunque sia l'esito di tale procedimento».

3) La legge 382 e il decreto 616 non si appli­cano (finora) alle Regioni a statuto speciale. Abbiamo poca fiducia in un miglioramento della situazione attuale, estremamente lacunosa e ca­rente sotto tutti gli aspetti.

Strutture pubbliche sono inesistenti o quasi; l'ente pubblico si limita a deliberare sull'ammis­sione di minori in istituti privati. L'assistenza consiste nel pagamento di una retta, assoluta­mente inadeguata alle odierne necessità. Anche per questo motivo manca del tutto un controllo sulle modalità del ricovero e addirittura sulla reale permanenza di questo in istituto.

L'opera educativa, l'azione di sostegno, la co­municazione di principi morali e sociali sono quasi sconosciuti.

4) Nessuno.

 

 

INTERVENTO DI FRANCESCO MARZANO (*)

(*) Presidente del Tribunale per i minorenni di Campobasso.

 

1.2.) La legge n. 431 del 1967 sull'adozione speciale non ha in via generale tradito le attese, essendo innegabile che la sua decennale appli­cazione abbia dato risultati positivissimi. La lun­ga esperienza in tale campo mi ha infatti dato la possibilità di constatare in tutti i casi trattati l'esito favorevole dell'affidamento preadottivo con ottimo inserimento dei minori in nuclei fa­miliari sani ed idonei.

Si è reso necessario talvolta lo sforzo del giu­dice per adattare l'interpretazione delle norme sull'adozione speciale alle varie e sempre dispa­rate fattispecie concrete. Così ad esempio non si è avuto difficoltà ad attribuire in un primo tem­po al provvedimento di dichiarazione dello stato di adottabilità un carattere punitivo nei confronti dei genitori legittimi o naturali. Senonché, in tempo successivo (ed al fine palese di eliminare talvolta il grave ostacolo della forza maggiore) il carattere suddetto è stato escluso. Si è così pervenuti all'affermazione che sussiste stato di abbandono non discriminato e giustificato da for­za maggiore nel caso di malattia cronica ed irre­versibile con ricovero in casa di cura (in parti­colare, nel caso di infermità mentale) del geni­tore.

La soluzione dev'essere accettata se si condi­vide l'opinione che l'adozione speciale è prevista dalla legge nell'esclusivo interesse del minore con totale obliterazione dei diritti derivanti dal rapporto di sangue.

Per quanto riguarda l'adozione ordinaria sem­bra che possa con sicurezza e decisione essere esclusa, con riferimento ai minori degli anni 8, l'abrogazione tacita delle norme relative da par­te delle norme sull'adozione speciale, non sussi­stendo l'incompatibilità, sostenuta da qualcuno.

Allo stato della legislazione la coesistenza dei due istituti appare certa, nella considerazione che con l'andar del tempo ed alla luce dei prin­cipi sanciti dalla Costituzione anche l'adozione tradizionale ha quale finalità primaria l'inserimen­to del minore in un nucleo familiare rispondente alle esigenze psico-fisiche della sua personalità.

Va da sé, comunque, che in caso di accertato abbandono del minore l'adozione speciale, in di­fetto di eccezionali esigenze, debba essere pri­vilegiata rispetto all'adozione tradizionale.

In conclusione, in tema di adozioni ed in par­ticolare di dichiarazione di stato di adottabilità, non possono essere aprioristicamente fissate re­gole assolute, ma la decisione del giudice deve conseguire al l'approfondito, sereno esame delle circostanze del caso concreto per il consegui­mento del fine precipuo del bene del minore. Non può disconoscersi che talora il ricorso all'adozione ordinaria vale ad eludere l'applicazio­ne (per difetto di età negli aspiranti o per altri motivi) dell'adozione speciale. In casi siffatti non vi è dubbio che il giudice debba drasticamente intervenire ed impedire che la legge sia violata. Ciò può tranquillamente effettuarsi allorché la situazione (come esige la legge) sia subito co­nosciuta dall'Autorità.

Quando invece l'affidamento di un minore (co­munque verificatosi) rimonti ad un non breve lasso di tempo e quando cioè fra affidatari e mi­nore si sono radicati validi rapporti affettivi (la cui improvvisa rottura sarebbe certamente dan­nosa sul piano psicologico al minore), si ritiene che possa essere eccezionalmente utilizzato l'i­stituto dell'adozione ordinaria, che consente fra l'altro di conciliare l'interesse del minore con il desiderio (pur meritevole di comprensione be­nevola) dei genitori naturali, spesso incolpevoli, a continuare ad avere la possibilità di seguire da vicino il figlio. Al riguardo ha pregio il rilievo che quattro genitori (due naturali e due adottivi) costituiscono non una situazione dannosa, ma accrescono il patrimonio affettivo del minore.

È pur vero che l'avversione all'adozione ordi­naria trae giusta causa dalla preoccupazione di stroncare il cosiddetto mercato dei bambini. Ma tale pur nobile intento, che va beninteso perse­guito con tutti i mezzi, non deve condurre all'inaccettabile conclusione che il minore degli anni otto, all'infuori dell'ambito della stessa fa­miglia, non possa essere adottato in via ordi­naria.

Invero, a ben vedere per tale strada si giunge all'aberrante conseguenza che lo stesso giudice il quale ha cura in modo scrupoloso (e ben a ragione) di impedire che un minore degli anni otto sia ceduto dai genitori a scopo di lucro a coniugi senza prole, assista d'altro canto indif­ferente a1 pur gravissimo mercato di ragazzi che abbiano compiuto gli anni otto. E la validità di tale considerazione non può venir meno sul solo, reale riflesso che i casi di adozione di minori di anni otto sono di gran lunga in numero maggiore di quelli riguardanti gli ultraottenni.

Non può perciò non trovare favore l'innovazio­ne contenuta nella proposta di legge tendente ad innalzare il limite massimo di età per la di­chiarazione dello stato di adottabilità. È auspi­cabile pure che, ad evitare contrasti e disparità di interpretazioni (derivanti spesso dalla valuta­zione di condizioni culturali, ambientali ed eco­nomiche innegabilmente diverse fra regione e regione), si provveda, in caso di rielaborazione legislativa della materia delle adozioni, a fissare bene i limiti fra i due istituti dell'adozione ordi­naria e speciale, se si riterrà che non sia oppor­tuno e prudente addivenire, come pure è richie­sto da taluni, alla radicale soluzione della sop­pressione dell'adozione ordinaria per potenziare l'affidamento familiare e l'affiliazione.

3.4.) Il decentramento delle attribuzioni am­ministrative in tema di assistenza minorile, nella valutazione dei primi non esaltanti risultati, non induce a previsioni ottimistiche, essendo stato assai caro lo scotto pagato per motivi di improv­visazione, di non adeguata preparazione e di man­canza pressoché assoluta di strutture.

Si spera nel buon funzionamento dei Consorzi comunali, in particolare per quanto concerne la creazione di funzionali ed attrezzati centri di os­servazione e di assistenza.

 

 

INTERVENTO DI FRANCO OCCHIOGROSSO (*)

(*) Giudice del Tribunale per i minorenni di Bari.

 

1) La presentazione in Parlamento di due pro­getti (n. 1552 del 17 giugno 1977 presentato dalla D.C. alla Camera e n. 968 del 27 ottobre 1977 presentato dal P.C.I. al Senato) di revisione delle norme sull'adozione e sull'affiliazione e di introduzione dell'affidamento familiare ha ripor­tato l'attenzione dell'opinione pubblica su questi temi. Oltre alla stampa, se ne sono occupate associazioni qualificate: ciascuna norma dei due progetti è stata accuratamente esaminata e ne sono stati posti nel dovuto risvolto gli aspetti positivi e negativi.

A me sembra, a questo punto, opportuno piut­tosto che un riesame contenutistico dei due pro­getti, tentare di fornire un contributo in una pro­spettiva diversa, partendo dalla legge 5-6-1967 n. 431, riprendendone alcuni principi qualificanti e verificando sia se gli spazi di intervento che essa consentiva sono stati occupati interamen­te dall'interpretazione giurisprudenziale della legge, sia se la successiva legislazione sia stata pienamente aderente a tali principi e, quindi, coordinata con la legge sull'adozione speciale. Questa analisi permetterà alcune osservazioni sui progetti di legge, in modo da cogliere la lo­gica, a cui rispondono, e la portata di alcune norme.

Un principio molto importante della legge 1967/431, forse il principio-cardine, è - com'è noto - quello del superamento del vincolo di sangue, del concetto di «appartenenza» del fi­glio ai genitori, del padre-padrone. Al di là della possibilità di «togliere il figlio» definitivamente ai genitori per darlo in adozione speciale, affer­mazione limitata al solo discorso dell'adozione e, quindi, settoriale, questo principio introduceva il concetto generale - che aveva enormi capa­cità potenziali di incidenza sociale - che ogni genitore è solo uno strumento, una presenza ne­cessaria in funzione del figlio, l'unico modo che consenta al figlio di realizzare il pieno sviluppo della sua personalità.

Questo principio - ed era questa un'altra no­vità interessante - non era una mera afferma­zione astratta, ma riceveva concretezza da due norme operative, che davano la possibilità di in­cidere sulla realtà sociale, sì da farlo gradual­mente divenire patrimonio di tutta la comunità.

Una è l'art. 314/5 Cod. Civ., che impone alle istituzioni assistenziali di trasmettere l'elenco dei ricoverati o assistiti e ai pubblici ufficiali e agli organi scolastici di riferire sulle condizioni dei minori in situazione di abbandono, comunque conosciute. L'altra é l'art. 314/8 Cod. Civ., che attribuisce al giudice la facoltà di impartire ai genitori prescrizioni idonee a garantire l'assi­stenza morale, il mantenimento, l'istruzione e l'educazione del figlio minore, stabilendo al tem­po stesso periodici accertamenti. Si trattava del primo testo di legge diretto a tutelare il figlio come componente più debole del nucleo fami­liare, del primo tentativo di guardare al rapporto genitore-figlio non più in una prospettiva priva­tistica, ma pubblicistica, di far divenire un fatto ed un valore sociale il problema della cura dei figli, della loro educazione, del loro sviluppo fi­sico e psichico.

Come è stata applicata la legge sull'adozione speciale? I tribunali minorili hanno nel comples­so realizzato un notevole ed apprezzabile sforzo per combattere la istituzionalizzazione dei mino­ri, ma non sono andati oltre ciò e non hanno quindi utilizzato tutti gli altri spazi, che pure la legge concedeva loro per proteggere i minori anche da altre forme di emarginazione.

Così, ad esempio, rarissime sono state le se­gnalazioni effettuate da organi scolastici o da al­tri pubblici ufficiali in favore dei minori che non osservano l'obbligo scolastico o per i quali sa­rebbe stato comunque necessario un intervento protettivo; né i tribunali minorili hanno compiu­to notevoli sforzi per sensibilizzare tali organi­smi. L'effetto è stato che intere sacche di emar­ginazione minorile sono rimaste intatte: così l'e­vasione dell'obbligo scolastico non è stato con­siderata in questa prospettiva, così la c.d. tratta dei calzoni corti, cioè l'avviamento precoce di minori al lavoro, è tranquillamente continuata.

Certo, si tratta di problemi enormi non risolvi­bili né in breve tempo né con il solo intervento giudiziale, ma è certo che nessun contributo è stato dato dai Tribunali per i minorenni, perché essi venissero affrontati con tutta l'attenzione che meritavano.

E, quel che non è meno grave, non si è inciso affatto neppure su una certa mentalità genera­lizzata, che continua ad intendere la potestà sui figli nella prospettiva del padre-padrone: basta guardare all'atteggiamento di tanti genitori nei giudizi di separazione tra coniugi ed alle modali­tà secondo cui cercano di contendersi non solo l'affidamento dei figli, ma anche il numero delle visite e addirittura le modalità di incontro con i figli stessi, per rendersi conto che questo modo di pensare è quello sotto sotto tuttora dominante anche nei ceti sociali abbienti ed anche presso tante persone per altri versi molto valide.

In sostanza, le prescrizioni sono state impo­ste in pochi casi, soprattutto per minori istitu­zionalizzati e, quindi, sono state rivolte a geni­tori proletari o sottoproletari, venendo conside­rate solo in funzione di una prospettiva di ado­zione del minore, mai rivolte a genitori (anche borghesi) come stimolo e sollecitazione - even­tualmente svincolata della prospettiva adottiva - a realizzare il rapporto con il figlio in modo corrispondente all'interesse di quest'ultimo e, quindi, come crescita della comunità sul pro­blema.

D'altro canto, anche la legislazione in materia di famiglia ha deluso le aspettative che a questo proposito la legge sulla adozione speciale ave­va creato. La legge di riforma del diritto di fa­miglia, che pure ha rivolto un'attenzione mag­giore ai figli nel rapporto interfamiliare, non ha fatto proprie tali aspettative: se è vero, infatti, che non esiste più l'affermazione di una gerar­chia familiare, è pur vero che non è stata inse­rita alcuna norma diretta a capovolgere il modo tradizionale di intendere la potestà dei genitori ed avvicinarlo al modo di intendere il rapporto padre-figlio voluto dalla legge sull'adozione spe­ciale. Si può dire che la materia dell'adozione è stata separata e ghettizzata rispetto a quella generale del diritto di famiglia. Il principio, quindi, del superamento del vincolo di sangue, della famiglia fondata sull'amore e non sul pos­sesso è rimasto - in sostanza - un principio dell'azione. Non è un caso che le riforme proce­dano separate: prima la legge sull'adozione spe­ciale, poi la riforma del diritto di famiglia, ora i progetti di legge sull'adozione. Né si può dire che si sia trattato di un evento del tutto con­tingente, dipendente dalla necessità di adeguare la normativa alla convenzione di Strasburgo.

Questa convenzione risale al 24 aprile 1967 (precede, quindi, la stessa legge sull'adozione speciale) ed è stata resa esecutiva con la legge 22-5-1974 n. 357, che precede di un anno la ri­forma del diritto di famiglia (L. 19-5-1975 nu­mero 151) : essa ben poteva essere tenuta pre­sente in quella sede.

Un altro principio molto importante contenu­to nella legge sull'adozione speciale era quello diretto a modificare la concezione dominante in materia assistenziale. Accanto all'art. 314/8 Cod. Civ., che attribuisce al giudice la facoltà di imporre prescrizioni, era stato, infatti, previ­sto l'art. 314/4 Cod. Civ., il quale - stabilendo che la situazione di abbandono del minore sus­sista anche quando i minori sono ricoverati pres­so pubbliche o private istituzioni di protezione ed assistenza per l'infanzia - poneva in crisi l'istituzione totale, esigeva l'attuazione di con­crete soluzioni alternative (riconoscendo impli­citamente che il pregiudizio per il minore può derivare anche da un certo tipo di intervento as­sistenziale) ed un pieno coordinamento tra enti assistenziali e tribunali per i minorenni sia in relazione alle prospettive di adozione del mino­re - in quanto l'adozione deve essere il mo­mento ultimo di un complesso sistema tendente a tutelare il minore, prima con interventi di so­stegno alla famiglia di origine e, solo se ogni intervento è risultato inutile, con la sua adozio­ne - sia più in generale per rendere praticabile un più ampio discorso di lotta contro l'emargina­zione minorile (ad esempio, nei casi di precoce avviamento di minori al lavoro, accanto a pre­scrizioni da imporre al genitore è spesso indi­spensabile un consistente contributo economico erogato alla famiglia dall'ente assistenziale o un altro intervento - quale il reperimento di un al­loggio ecc. - per consentire il determinarsi del­le condizioni, che permettano di ottemperare al­le prescrizioni imposte).

Viceversa, il perpetuarsi della tradizionale di­stinzione tra diritto privato (a cui appartiene l'adozione) e diritto pubblico (a cui appartengono tutte le norme del sistema assistenziale) ed il permanere del principio contenuto nell'art. 4 del­la legge abrogatrice del contenzioso amministra­tivo, per cui il giudice non può dare alla pubbli­ca amministrazione (e quindi agli enti pubblici) ordini di fare, cioè non può imporre comporta­menti positivi, ha fatto sì che la situazione di abbandono continuasse ad essere imputata ai genitori e, quindi, a comportare la dichiarazione di adottabilità, anche se non tutti i possibili in­terventi assistenziali per tutelare il minore nell'ambito della famiglia di origine erano stati e­splicati dall'ente pubblico competente o per converso, le stesse ragioni hanno reso impossibile al giudice di richiedere - nel singolo caso con­creto - un diverso intervento operativo da par­te di un ente assistenziale, anche se, in sostan­za, il pregiudizio derivava al minore proprio dall'intervento assistenziale. Abbiamo, ad esempio, minori che continuano a rimanere in istituto per tanti anni, perché non si sono create alternative assistenziali, ma il giudice può rivolgere solo alla famiglia (che da sola non ce la fa) l'ordine di riprendere con sé il figlio, non può rivolgere alcuna prescrizione all'ente pubblico. E, per le stesse ragioni, non può imporre alcun interven­to assistenziale in altri casi di emarginazione, nei quali tale mancato intervento contribuisce notevolmente a impedire il risolversi di situa­zioni gravemente dannose per i minori.

Anche qui è da rilevare che i tribunali per i minorenni (salvo qualche eccezione) non hanno utilizzato tutti gli spazi che la legge consentiva loro di occupare per realizzare una più adeguata tutela del minore da parte delle istituzioni assi­stenziali e sanitarie con intervento e controlli in ospedali, istituti educativi, manicomi. È quindi molto opportuna la richiesta dell'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie per ot­tenere la modificazione degli artt. 330, 333 cod. civ. in modo da estendere l'intervento dei tribu­nali per i minorenni anche nei confronti di que­ste istituzioni. L'effetto di questo mancato coor­dinamento è stato certamente, come si è rile­vato, la mancata crescita del Paese sui problemi gravi. Su questo punto, quanto mai opportuna è la norma dell'art. 18 del progetto democristiano che prevede la facoltà per il giudice di imporre prescrizioni all'ente pubblico, anche se sarebbe opportuno chiarire quali siano le conseguenze collegate ad un'eventuale inottemperanza.

2) Concludendo su questo punto, si può sen­z'altro affermare che i principi innovatori in­trodotti dalla legge sull'adozione speciale sono rimasti applicati alla sola adozione: hanno rice­vuto, cioè, un'applicazione settoriale dalla giu­risprudenza, la quale ha seguito una linea di o­rientamento accolta poi anche dalla successiva legislazione.

Si può anche dire che, purtroppo, essi sono stati l'aspetto nobile di norme che - se si guar­da agli effetti assolutamente prevalenti della lo­ro applicazione - sono servite a togliere i figli ai poveri per darli a coppie senza figli ed a dare così una risposta sia pure parziale al problema sempre più incombente della sterilità coniuga­le. A conferma di ciò, è la circostanza che il nu­mero di domande di adozione speciale presen­tate in tutta Italia da coppie con prole è stato minimo rispetto a quello delle coppie sterili.

Inoltre, nella mia decennale esperienza di giu­dice minorile, non mi è mai accaduto di dover procedere alla dichiarazione di adottabilità di un minore di estrazione borghese: non escludo che ciò possa essere anche avvenuto in qualche Tri­bunale, ma si è trattato al più di casi eccezio­nali, che non scalfiscono in alcun modo la validità dell'affermazione precedente.

Non c'è dubbio che l'adozione speciale sia sta­ta orientata in tal moda dal fatto che le uniche segnalazioni di abbandono di minori siano giun­te dagli istituti assistenziali (che ospitano solo i figli del proletariato e del sottoproletariato) e, soprattutto, dall'aver richiesto per l'adottabilità la situazione di abbandono morale e materiale, una condizione cioè in cui possono trovarsi solo le classi più umili, perché le altre sono sempre in grado di fornire un contributo economico per il mantenimento dei figli ed evitarne così l'adot­tabilità.

Ora, in questo senso, i due progetti di legge presentati dalla DC e dal PCI non innovano af­fatto rispetto alla precedente normativa: essi perpetuano la logica della separatezza dell'ado­zione e dei suoi principi da tutta la rimanente legislazione familiare e assistenziale. Pur ap­prezzabili in quelle norme che tentano di realiz­zare un coordinamento con altri settori (così l'art. 43 del progetto comunista, così gli artt. 1 e 18 di quello democristiano), essi non possono superare le difficoltà di fondo rilevate nei para­grafi che precedono e che rimangono tutte. Cer­to il progetto comunista offre il fianco sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello formale a maggiori critiche, che già sono state mosse e che si devono in gran parte condividere. Tut­tavia, a mio avviso, il progetto democristiano - certamente migliore - rischia addirittura di accentuare l'attuale settorializzazione dei prin­cipi affermati con l'effetto di una ulteriore discri­minazione dei ceti sociali più emarginati: ciò vale, ad esempio, per l'art. 8 di quel progetto, il quale richiede per escludere che un minore sia abbandonato e adottabile «quella diretta as­sistenza morale o materiale indispensabile per un adeguato sviluppo psico-fisico». È sufficien­te quindi per il genitore non provvedere econo­micamente al mantenimento del figlio, o addirit­tura offrire un sostentamento modesto, che non consenta un «adeguato» sviluppo psico-fisico del figlio (anche se eventualmente esso rappre­senta il massimo possibile per il genitore), per­ché il minore venga dichiarato adottabile.

A, mio avviso, sarebbe stato più semplice fa­re ricorso alla formula usata dal testo della con­venzione di Strasburgo (art. 5 n. 3) e riprendere il concetto di decadenza dalla potestà di geni­tore, per porlo a fondamento della dichiarazione di adottabilità: in tal modo rientrerebbe nella categoria degli adottabili una fascia di minori più larga dell'attuale e verrebbe a stemperarsi la marcata caratterizzazione dell'adottabilità co­me punitiva dei ceti più derelitti. In tal modo si supererebbe anche la sottile distinzione tra de­cadenza della potestà e situazione di abbandono morale e materiale che, malgrado le acrobazie ermeneutiche attuate resta una delle più com­plesse e difficili a cogliersi e che sul piano con­creto determina duplicazione di provvedimenti e altre difficoltà burocratiche (possibile nomina di tutori da parte del giudice tutelare e del Tri­bunale per i minorenni, ecc.).

3) Passando ora più specificamente a trattare dei singoli istituti, previsti nei due progetti in esame, ci soffermiamo brevemente su affida­mento familiare, affiliazione e adozione ordina­ria per fare poi qualche osservazione sulle norme che modificano l'adozione speciale.

Per quanto riguarda l'affidamento familiare, en­trambi i progetti ne prevedono l'introduzione con intervento del giudice: ed i rilievi critici si sono fermati su questo solo problema, se sia oppor­tuna o no la giurisdizionalizzazione dell'affida­mento. La linea prevalente di orientamento è quella tendente ad escludere l'intervento del giu­dice, che dovrebbe essere limitato ai soli casi, in cui tra famiglia del minore e famiglia affida­taria sorgano conflitti.

Non si è pensato ad altro, né si è considerato che vi sono vaste zone del nostro Paese, ed in particolare il Meridione, in cui l'affidamento fa­miliare è praticamente sconosciuto: e non c'è dubbio che in questa zona la disciplina legisla­tiva di un istituto ignorato resterebbe lettera morta. Non si è pensato che, prima della disci­plina normativa o insieme ad essa, è necessa­rio introdurre norme promozionali dirette a fare conoscere l'affidamento familiare ed a richieder­ne l'applicazione. Ritengo, invece, essenziale la previsione di una norma specifica ed articolata come l'art. 43 del progetto comunista che im­ponga il ricorso all'affidamento familiare prima di procedere alla istituzionalizzazione di un mi­nore. Ma sono certo necessarie anche altre nor­me in materia assistenziale. Una via in questo senso è suggerita dalla convenzione di Stra­sburgo, che all'art. 18 prevede la creazione di istituzioni pubbliche o private «alle quali pos­sano rivolgersi per aiuto e consiglio coloro che desiderano adottare un minore» (e tale invito è stato accolto in Italia con la legge sui consultori familiari, che tuttavia sono tuttora inesistenti in gran parte del territorio nazionale) e all'art. 19 stabilisce che gli aspetti sociali e giuridici dell'adozione vengano inclusi nei programmi di for­mazione degli assistenti sociali. In linea con tale indicazione sarebbe certo importante che i pro­grammi delle scuole per assistenti sociali ed edu­catori prevedessero lo studio obbligatorio (non solo teorico) dell'adozione, dell'affidamento fa­miliare e di tutte le problematiche annesse. Ma per fare ciò è urgente disciplinare normativa­mente tutto questo settore, tanto più che negli ultimi anni stanno sorgendo tante scuole di ser­vizio sociale, in modo indiscriminato. Non si de­ve dimenticare che le scuole di servizio sociale sono private; esse scelgono, quindi, programmi non controllabili e sono guidati da insegnanti, che non sempre offrono adeguate garanzie pro­fessionali. Tuttavia, il diploma che esse rilascia­no - pur privo di pubblico riconoscimento al­meno ufficialmente - è di fatto considerato ne­cessario e sufficiente per partecipare a concorsi privati e pubblici e per essere assunti - è il caso degli uffici distrettuali di servizio sociale - dai ministeri statali.

È divenuto indispensabile che anche queste scuole divengano pubbliche con programmi uffi­ciali e controllabili e con insegnanti abilitati o assunti con particolari garanzie (presentazione titoli, graduatorie pubbliche ecc.), secondo i si­stemi già vigenti per i professori delle scuole statali.

È anche indispensabile ormai prevedere l'ob­bligo di assunzione di almeno un assistente so­ciale da parte di ogni Comune superiore ai 5.000 abitanti (e ciò indipendentemente dal personale delle costituende Unità locali: la carenza di tale personale - specie nelle zone depresse - è tale che qualche unità in più non sarà certo un danno, ma costituirà piuttosto un contributo a guardare i problemi dell'assistenza non più solo dal punto di vista burocratico del segretario o del ragio­niere comunale, come purtroppo è avvenuto fino­ra). Non è questa una prospettiva che debba spaventare sotto il profilo della spesa pubblica. Basterebbe imporre l'obbligo di trasformare uno dei posti ormai inutili previsti negli organici dei comuni (da quello di ostetrica comunale a quello di accalappiacani) per raggiungere questo risul­tato senza un particolare aggravamento di spesa. Sarebbe certo un risultato parziale, ma costitui­rebbe un utile contributo per favorire la cono­scenza e la diffusione di alcuni istituti nuovi e l'acquisizione di una mentalità nuova - tuttora lenta a formarsi - su questi temi.

Per l'affiliazione, le osservazioni già fatte da più parti e che sottolineano sia i limiti di questo istituto sia la sua sostanziale inutilità pratica, specialmente dopo l'entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia, inducono a condividere la scelta del progetto democristiano, che ne prevede la scomparsa. D'altro canto, per le ragioni rife­rite nei paragrafi precedenti, non è necessario spendere molte parole, per esprimere il consen­so anche alla scelta operata nel progetto demo­cristiano in relazione all'adozione ordinaria (de­finita «non legittimante»), di cui è stata drasti­camente e giustamente limitata l'applicazione a pochi casi espressamente previsti.

4) Alcune osservazioni, infine, riguardo all'a­dozione speciale. Ho già esposto i motivi di per­plessità relativi al concetto di «situazione di ab­bandono» (morale o materiale, nel disegno de­mocristiano) richiesta dai due progetti per la di­chiarazione di adottabilità.

Ritengo anche importante l'estensione di que­sta adozione - prevista dai progetti - ai minori fino a diciotto anni (che qualche Tribunale per i minorenni considera norma già vigente nel no­stro ordinamento in applicazione della conven­zione di Strasburgo). Considero anche opportu­na la possibilità di applicare le norme degli ar­ticoli 330-333 cod. civ. nel corso del procedimen­to e condivido a questo riguardo - come ho già detto - la proposta dell'ANFAA di estendere l'intervento dei Tribunali per i minorenni ad ospe­dali, case di cura, collegi per accertare che non vengano violati i diritti fondamentali dei minori.

Il Tribunale per i minorenni di Bari ha già svol­to molteplici interventi di questo tipo - rite­nendo che già la legislazione attuale offra spazi sufficienti per consentirli - sul piano operativo, essi si sono dimostrati sempre opportuni ed hanno portato buoni frutti, quando non vi sono stati risultati addirittura clamorosi, come nel ca­so dell'indagine sull'istituto ortofrenico dell'o­spedale psichiatrico di Bisceglie.

Non condivido, invece, le perplessità sulla pro­posta - contenuta nel progetto comunista - che anche persone sole possano richiedere l'ado­zione speciale. Mi sembra che il problema non sia stato affrontato correttamente, perché è sta­to visto solo dal punto di vista di chi intende adottare e non da quello del minore. Consideran­dolo in quest'ultima prospettiva, il progetto de­mocristiano dice in sostanza così: un bambino abbandonato e dichiarato adottabile deve trovare una coppia coniugata per essere adottato con adozione speciale. Se non trova - malgrado ogni tentativo - una coppia, ma una persona non coniugata (o comunque sola) non può essere adottato con adozione speciale, ma solo adottato con adozione ordinaria, dopo che sia stato dichia­rato cessato lo stato di adottabilità. Ora, questa soluzione non mi sembra accettabile perché pu­nisce il minore, il quale non solo trova un solo genitore e non due, ma deve per di più essere adottato con un'adozione, che lo tutela di meno e ciò senza una ragione plausibile. Mi pare, quin­di, più giusta la proposta comunista di consen­tire l'adozione speciale anche a persone singole (il problema dei conviventi non coniugati viene implicitamente assorbito in questo): occorre so­lo porre l'esplicito correttivo che all'adozione speciale di persone non coniugate o sole debba farsi luogo, quando sia stato esperito invano ogni tentativo di affidare il bambino ad una coppia coniugi.

Credo poi che occorra riflettere ancora sul discorso dei rapporti tra affidamento familiare e adozione speciale. Non c'è dubbio che il fine dell'affidamento familiare debba essere il sostegno alla famiglia di origine e non l'adozione. Tutta­via, credo indispensabile tener conto delle espe­rienze acquisite, anche di recente, in ordine a situazioni delicate di minori abbandonati dai ge­nitori per cause molto vicine alla forza maggiore e tuttavia senza valide prospettive per il futuro. In tali casi, la gradualità dell'allontanamento del bambino con il suo iniziale affidamento ad una coppia disposta ad avere incontri con la fami­glia di origine (e poi adottarlo) ha rasserenato quest'ultima - che si è resa conto delle condi­zioni in cui il bambino viveva e anche del fatto che non era svanito nel nulla come avviene per lo più dopo la dichiarazione di adottabilità - le ha fatto man mano accettare la prospettiva del­la perdita del figlio, ha evitato traumi o reazioni violente al momento dell'adozione. D'altro canto, la mancata interruzione totale di tali rapporti ha evitato specie nei bambini più grandicelli il crear­si falsi ricordi, quasi una mitizzazione della fa­miglia di origine, che talora si sono invece avuti.

Pertanto, non escluderei rigorosamente la pos­sibilità che talora l'affidamento familiare possa trasformarsi in adozione speciale, ma credo che il punto richieda approfondimento e che, in pre­visione di una tale eventualità, l'affidamento fa­miliare debba essere gestito in questi casi sin dall'inizio dal giudice.

Ancora, suscita perplessità la scelta contenu­ta in entrambi i progetti di evitare il giudizio presso la corte di appello in caso di opposizione al provvedimento di adottabilità e di fare ricorso ad altre impugnazioni. Pur comprendendo le mo­tivazioni di fondo di tale orientamento, collegato alle scelte retrive di gran parte delle corti, mi sembra assurdo che, mentre la possibilità di re­clamo alla corte di appello sia prevista per tutte le altre decisioni dei Tribunali per i minorenni e dei tribunali in genere, solo in questo caso si debba prevedere una deroga, che è una esplicita conferma della «separatezza», in cui la materia dell'adozione viene vista rispetto a tutte le altre.

Il problema di fondo che si nasconde dietro questa proposta si articola in due punti: il primo è che, mentre l'accesso dei magistrati ai Tribu­nali per i minorenni è stato in qualche modo le­gislativamente disciplinato, nessuna particolare disciplina vi è stata per i magistrati delle sezioni minorili delle corti di appello. È avvenuto, quin­di, che, mentre nei Tribunali per i minorenni vi sono più spesso giudici che partecipano diretta­mente ai problemi dei giovani e sono sufficien­temente qualificati, i magistrati delle corti di appello sono stati del tutto assenti dal dibattito su questi temi e continuano a vederli in un'ottica tradizionale. Occorrerebbe, quindi, che il giudi­zio di appello venisse attribuito a giudici quali­ficati: o qualificando le corti di appello o preve­dendo che giudici di appello siano altri (ad esem­pio, quelli del Tribunale per i minorenni -più Vi­cino). Il secondo punto è che non basta una so­luzione semplicistica o settoriale. Occorre che l'argomento venga esaminato nella prospettiva corretta che è quella generale della riforma dell'ordinamento giudiziario.

Anche in materia minorile, non vi è alcuna ra­gione di insistere nella prospettiva del Tribunale della famiglia o, comunque, di un giudice accen­trato con vasta competenza territoriale. Anche qui è necessario accogliere - specie dopo il D.P.R. n. 616 - la scelta ormai dominante per ogni altra materia, quella cioè che prevede la istituzione del giudice unico di primo grado, mo­nocratico e decentrato sul territorio. Anche qui l'appello deve essere considerato non più una istituzione (la corte di appello) ma una funzione, esplicabile quindi da ogni giudice (o collegio di giudici), che vi sia delegato in conformità della legge. Il giudice minorile potrebbe, quindi, in fu­turo essere istituito sull'esempio dell'attuale giudice del lavoro e criterio analogo potrebbe essere utilizzato anche per il giudice che debba decidere sull'appello in tema di opposizione al decreto di adottabilità ed in genere su ogni impu­gnazione contro i provvedimenti del giudice mi­norile. Mi sembra anche importante, per rendere più snello il procedimento, consentire espressa­mente la possibilità di impugnazione di quelli definitivi. Sarebbe anche opportuno prevedere espressamente la possibilità che il Tribunale per i minorenni affidi provvisoriamente il bambino di fatto abbandonato agli adottanti, in attesa del completamento del procedimento di adottabilità e di adozione speciale, allo scopo di evitare i danni derivanti dalla prolungata istituzionalizza­zione.

Non c'è dubbio, infine, che sia doverosa, an­che per dare attuazione alla precisa richiesta contenuta nella convenzione di Strasburgo, la previsione di una sanzione penale che punisca i mercanti di bambini.

5) Per concludere, mi sembra che l'ottica da seguire in una riforma dell'adozione sia quella del progetto democristiano, sia pure con consi­stenti correttivi. Resta tuttavia il dubbio se l'a­dozione - nelle condizioni in cui è oggi per la settorializzazione, in cui continuano a rimanere i principi più importanti, di cui è portatrice - re­sti oggi un istituto così importante e così at­tuale dal punto di vista del minore da giustificare addirittura due progetti di legge e tutto que­sto impiego di energie o se non potevano ba­stare alcuni correttivi (applicabili già con la leg­ge di riforma del diritto di famiglia) per ade­guarla alla convenzione di Strasburgo.

 

 

INTERVENTO DI CAMILLO LOSANA (*)

(*) Giudice del Tribunale per i minorenni di Torino.

 

1) Nei primi dieci anni dalla sua entrata in vigore la legge n. 431 sulla adozione speciale ha dato indubbiamente risultati positivi. L'ado­zione di un minore è un fatto ormai ritenuto «normale»; almeno in parte certe remore sono state superate e la «cultura» attuale accetta l'inserimento di un «estraneo» nel nucleo fa­miliare come un positivo e fisiologico allarga­mento degli orizzonti della famiglia e non più come una azzardata impresa di pochi fanatici. Altro fatto positivo è che l'intervento del Tribu­nale minorile a favore del bambino viene sem­pre più capito, anche quando si tratta di tagliare completamente i rapporti con la famiglia natu­rale. C'è indubbiamente una crescita culturale circa il fatto che il minore non è « proprietà » dei genitori che l'hanno messo al mondo. Senza contare poi che la grandissima maggioranza del­le adozioni pronunciate sono perfettamente riu­scite. Le revoche di affidamenti preadottivi sono dell'ordine di una su cento; adozioni definitive fallite ne conosciamo, ma nella quasi totalità l'esito è stato soddisfacente per il bambino e probabilmente è stato evitato con l'adozione un caso di grave disadattamento sociale. Le proce­dure di adottabilità, infine, hanno dato ai Giudici l'occasione di stimolare nuclei familiari troppo debolmente impegnati verso i figli: di fronte al concreto rischio dell'adozione alcuni genitori si sono davvero attivati.

Gli aspetti negativi sono stati: innanzi tutto la difficoltà del reperimento degli stati di abban­dono data anche la difficoltà per i Giudici tute­lari di essere di fatto i propulsori dell'iniziativa (come invece vorrebbe la legge); in secondo luogo (in parte dipendente dal primo) il basso numero di adozioni speciali pronunciate rispetto all'altissimo numero di bambini ricoverati negli istituti; in terzo luogo certe lungaggini procedu­rali che portano i tempi per arrivare alla adotta­bilità definitiva a dimensioni incompatibili con l'esigenza del bambino di conoscere subito la sua sorte; infine: il permanere, nelle numerosis­sime coppie che aspirano alla adozione, di una mentalità «privatistica» tutte tesa ad «avere un certo tipo di bambino» e non aperta a solu­zioni diverse, impreviste, problematiche, impe­gnative.

Vorrei poi ricordare il fenomeno del «mercato dei bambini» che dipende in parte da carenze normative (anche di carattere penale) ed in par­te da un radicato malcostume. La ricerca «pri­vata» del bambino, le mediazioni, talvolta i falsi negli atti dello stato civile, sono fenomeni intol­lerabili e che esigono unità di azione da parte di tutti i Tribunali per i minorenni, ed una corretta informazione da parte degli organi di comunica­zione di massa (giornali, radio, riviste) : cosa che purtroppo ancora non avviene.

Quanto alla situazione più specifica del nostro Tribunale ricordo che a partire dal 1977 i collo­camenti adottivi dei figli di ignoti sono stati di molto accelerati tanto che è ormai normale il caso del bambino che viene inserito nella fami­glia adottiva entro i primi tre mesi di vita. Da qualcuno si dice che la nostra giurisprudenza si è fatta più incerta, ovvero più favorevole alle famiglie naturali dei bambini. Ritengo che la cosa stia in termini diversi: infatti i servizi sociali sono sempre più (e giustamente) orientati verso l'aiuto alla famiglia; l'apertura della procedura di adottabilità è proprio la «estrema ratio». E poiché, d'altro canto, i figli di ignoti vanno rapi­damente diminuendo, ne deriva che i casi che si prospettano al Tribunale sono (in media) ob­biettivamente più complessi, più incerti, più pro­blematici. In altre parole: nei primi tempi di applicazione della legge vi erano più situazioni di abbandono «macroscopico»; oggi vi è preva­lenza di situazioni «al limite», che esigono tal­volta tempi lunghi per saggiare le reali capacità della famiglia di origine o esperimenti per met­terne alla prova la disponibilità. Sta di fatto, però, che con numerose discussioni, abbiamo cercato di individuare dei «criteri base» per la dichiarazione di adottabilità, facendone parteci­pi gli «operatori sociali» dei servizi locali. Al­tro problema è la difficoltà di «maturare» e utilizzare al meglio la disponibilità delle nume­rosissime domande di adozione speciale. Siamo costretti a fare un lavoro più di «selezione» che di «aiuto alla crescita». E molti sono i fru­strati, coloro che «vivono un nuovo aborto», o che si sentono vittime di ingiustizie solo perché non scelti per l'adozione alla quale tanto aspi­ravano. Cercheremo di «ripensare» anche a que­sto impegno con una migliore utilizzazione (ma solo quando ciò sarà in concreto possibile) dei servizi sociali locali.

2) Sui due progetti di riforma della legge sull'adozione speciale, i Giudici minorili del Nord Italia hanno fatto tre riunioni a Milano. L'opinio­ne quasi unanime è stata che il progetto del PCI presenta troppi aspetti criticabili per cui non può costituire un «testo di partenza» per una discussione. Invece il progetto DC rappresenta un idoneo punto di partenza ed anzi è, a grandi linee, accettabile.

I punti criticati sono: a) la «giurisdizionaliz­zazione» degli affidamenti familiari. Si è detto che è meglio lasciare ai servizi sociali dell'Ente locale la possibilità di usare l'affidamento come un qualsiasi altro strumento di aiuto al minore, senza che necessariamente debba intervenire il Giudice quando le parti sono d'accordo per una certa soluzione. L'affidamento potrà e dovrà es­sere disciplinato, ma solo nel senso di meglio chiarire i «poteri-doveri» dell'affidatario. Esso dovrebbe essere attuato dai servizi sociali dell'Ente locale con l'accordo dei genitori o del tu­tore del minore (e solo in caso di disaccordo dovrebbe intervenire il Tribunale per i minoren­ni). Ogni affidamento dovrebbe però essere se­gnalato al Tribunale per i minorenni per dare la possibilità di un controllo e per evitare quello che resta il pericolo maggiore: che cioè l'affida­mento venga usato come mezzo per «aggirare» la normale procedura per gli affidamenti preadot­tivi.

b) La definizione di «stato di abbandono» (troppo analitica e suscettibile di interpretazioni estensive pericolose). È meglio restare alla for­mula attuale per la quale la giurisprudenza ha ormai elaborato interpretazioni accettabili (an­che a livello della Suprema Corte).

c) Il silenzio del progetto circa le adozioni in­ternazionali e la delibazione dei provvedimenti stranieri. Sembra invece doveroso disciplinare la materia prevedendo sanzioni per il «traffico illecito» di bambini; delimitando bene l'ambito della delibazione (e forse dandone la competen­za, almeno per le adozioni speciali, al Tribunale per i minorenni), chiarendo i criteri della legi­slazione applicabile qualora coniugi e bambino appartengano a nazionalità diverse (i criteri possono essere quelli già dettati dalla Convenzione dell'Aia).

d) Sembra, infine, opinabile, che per dichia­rare lo «stato di abbandono» debba essere sem­pre valutato il comportamento, non solo dei ge­nitori, ma anche dei parenti entro un certo grado. La logica, e le esigenze di rapidità e snellezza, postulano secondo me che si tenga conto solo dei genitori. Il giudice potrebbe eccezionalmente «non dichiarare l'adottabilità» (pur essendoci abbandono da parte dei genitori) quando parenti entro il terzo grado (fratelli, zii, ecc.), avendo già avuto in precedenza rapporti col minore, ed essendo riconosciuti come persone capaci e va­lide, si assumessero la piena e continuativa re­sponsabilità del bambino, sottoscrivendo un im­pegno-adesione ad un affidamento a tempo inde­terminato ovvero ad una adozione non legitti­mante. Con questa soluzione si salverebbe quel­la solidarietà familiare che è ancor oggi un fatto di costume e di cultura notevolissimo.

Quanto agli istituti della adozione «ordina­ria» e della «affiliazione», essi trovano poca giustificazione in un contesto che preveda e di­sciplini analiticamente l'affidamento familiare (anche a tempo indeterminato) e che dia la pos­sibilità dell'adozione speciale per tutti i minori fino a 18 anni. Forse una forma di «adozione non legittimante» potrebbe avere ancora qual­che utilità per affidamenti nell'ambito parentale o (per motivi vari) fatti a persone singole. Ma soltanto per «dare dignità giuridica» a situazio­ni già da tempo costituitesi.

3) Il passaggio delle competenze «assisten­ziali» agli Enti locali esige un radicale cambia­mento di mentalità e di modo di agire, anche da parte del Tribunale per i minorenni. Questo ci ha indotto a ripartire le competenze dei Giudici non più «per materia» bensì «per territorio». Si tratta di essere in collegamento con i servizi di zona. Il Tribunale non può non utilizzarli sia perché la legge lo esige, sia perché sono questi servizi a rappresentare quella realtà locale sulla quale il provvedimento del Giudice dovrà inci­dere. Il Tribunale non deve avere una sua « po­lizia »; attraverso i servizi decentrati deve «en­trare» nella realtà locale per assumere decisio­ni penetranti, incisive, e davvero conformi all'interesse dei minori. D'altra parte i servizi si sono subito resi conto che non possono fare a meno del Tribunale perché soventissimo è pro­prio l'utente-famiglia a rifiutare e ad opporsi ad una «offerta di aiuto» che sarebbe indispensa­bile per tutelare i bambini o i ragazzi.

E solo il Tribunale può forzare i cittadini ad accettare l'intervento di organi assistenziali. An­che gli stati di adottabilità, che qualche opera­tore immaginava come provvedimenti sempre «repressivi», si rivelano nel concreto come stru­menti indispensabili per far uscire un minore da una situazione di cronica sofferenza. Ma an­che qui occorre il Tribunale.

Dunque, bisogna collaborare, ciascuno restan­do fedele (e anzi chiarendolo bene) al suo ruolo. Di fatto i rapporti e la collaborazione (salvo rare eccezioni) sono buoni. È tuttavia assolutamente urgente che si formino i Consorzi tra i Comuni. Non è possibile che il piccolo Comune possa assolvere alle richieste del Tribunale di indagini complesse, o di interventi sui minori. Attual­mente la Provincia e l'ENAOLI svolgono ancora una opera preziosa di collegamento e collabora­zione col Tribunale; ma anche questo va supe­rato. I destinatari del D.P.R. 616, più che i Co­muni, sono i loro Consorzi; a tutt'oggi però non operanti. Collegato al problema dei Consorzi è quello della informazione-preparazione degli ope­ratori. Oggi i Giudici fanno una certa opera di informazione per gli aspetti che più direttamen­te riguardano il Tribunale, e fanno pure opera di collegamento; però si esige un preciso spazio «amministrativo» per la formazione del perso­nale.

4) Oggi si deve denunciare la carenza di ser­vizi preventivi e di assistenza alternativa. Salvo il rinnovo delle convenzioni, fatto dalla Regione, e salvo lo sforzo della Regione stessa per arri­vare ad una definizione di criteri-guida per i ser­vizi che dovranno essere creati o che già esi­stono; nulla di specifico è stato realizzato. Il discorso sugli affidamenti familiari è assai vago e poco coordinato (ogni zona fa a modo suo, empiricamente, senza collegamenti più vasti); le comunità-alloggio sono ancora sulla carta; per i ragazzi «disadattati» (competenza cosiddetta amministrativa del Tribunale) non c'è assoluta­mente nulla. Il rischio gravissimo è che i ragazzi, non essendovi altre strutture per accoglierli, fi­niscano in carcere.

Noi Giudici chiediamo uno sforzo prioritario ed immediato per questi servizi. Chiediamo che la Regione vari finalmente le sue disposizioni e realizzi i Consorzi tra Comuni (se del caso coat­tivamente); chiediamo ai Consorzi di formare del personale idoneo e strutture efficaci (servi­zi; affidamenti familiari; comunità-alloggio; cen­tri di pronto soccorso per minori; centro di ospi­talità per madri col bambino; maturazione di per­sone e coppie di coniugi per l'adozione e specie per l'adozione «difficile»; comunità «protette» e cioè «chiuse» per ragazzi o ragazze in grave difficoltà che debbano essere difesi o difese dall'ambiente esterno; verifica delle situazioni dei bambini lontani dalla loro famiglia naturale, tanto più se ricoverati in istituto, da considerarsi non come «fuori del proprio territorio e quindi della propria responsabilità», ma come facenti parte di una comunità che deve essere continua­mente ricomposta). Chiediamo infine al Comune di Torino, che è il centro nevralgico e più signi­ficativo dei problemi umani che esigono l'inter­vento del nostro Tribunale, di accelerare al mas­simo la effettiva realizzazione di programmi lo­devolissimi come quelli relativi alle comunità-al­loggio ed ai consultori.

 

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