Prospettive assistenziali, n. 41, gennaio-marzo 1978

 

 

Libri

 

 

M. DOGLIOTTI, E. GIACALONE, A. SANSA, I di­ritti del minore e la realtà dell'emarginazione, Zanichelli, Bologna, 1977, pag. 90, L. 1.600.

 

Pubblicando questa recensione di un giudice del Tribunale per i minorenni di Genova vogliamo sottolineare la consapevolezza di alcuni operato­ri del diritto sul proprio ruolo di promotori dei diritti dei minori, inquadrato in più ampio conte­sto sociale, in cui il minore stesso dovrà inse­rirsi. Ma il libro andrà letto attentamente da ope­ratori sociali, amministratori, amministratori cit­tadini e forze sociali perché meditino e diano una seria valutazione politica sulla condizione giuridico-sociale dei minori nel nostro ordina­mento e sui vari interventi (affidamenti, adozio­ni speciali, ecc.) che coinvolgono tutta la comu­nità nelle nuove competenze degli enti locali.

 

L'uscita di questo libro viene a coincidere con il dibattito in corso nel Paese dopo la pubblicazio­ne del D.R.R. 24-7-1977, n. 616 che, in attuazione della delega contenuta nella legge n. 382 del 1972, trasferisce ai Comuni, con gli artt. 22, 23 e 25, tutte le funzioni assistenziali. Si tratta indub­biamente di una coincidenza fortunata. Infatti, perché la potenzialità innovatrice contenuta nel­la legge, e particolarmente negli articoli citati, sia in grado di esprimersi compiutamente, e di determinare, come concordemente si auspica, un indirizzo radicalmente nuovo nel settore dell'assistenza, occorre conoscere i problemi, le loro implicazioni, il significato di certe scelte legislative e di certe prassi giurisprudenziali. Ebbene, per chi intende conoscere questi pro­blemi, per quanto attiene il settore specifico mi­norile, questo libro costituisce uno strumento essenziale; esso appare in ogni caso utile a chi intende approfondirli e ripensare criticamente a certi modi tradizionali di affrontarli e risolverli. Quali sono gli aspetti più positivi dell'opera? Il primo, e forse più importante, è quello di affron­tare i problemi non sotto l'ottica tradizionale ed equivoca del cosiddetto favor minoris, ma alla luce dei "principi costituzionali in materia, dei quali viene acutamente analizzata la novità e il significato di rottura rispetto al passato.

Attraverso questa impostazione si rileva chia­ramente che quel principio di preteso favore del minore, che è alla base di tante elaborazioni dot­trinali e giurisprudenziali, costituisce in realtà una copertura, un rimedio tardivo, alle inadem­pienze complessive dei pubblici poteri rispetto ai profili collettivi del problema sui quali sono invece centrate le norme costituzionali. Si sot­tolinea infatti giustamente che il disegno costi­tuzionale prescinde da visioni paternalistiche e delinea «un programma generale di protezione della infanzia e della condizione giovanile... col­legato alle esigenze di trasformazione dell'intera società». Da questa impostazione generale, che costituisce l'ossatura dell'opera, conseguono le sue linee direttive tendenti ad inquadrare cor­rettamente, demolendo in proposito consolidate incrostazioni culturali, i problemi dei rapporti del minore con la famiglia, con il mondo del lavoro, con la giustizia. Così la famiglia è vista - rifiu­tandosi tanto le teorie giusnaturalistiche quanto quelle improntate ad un laicismo autoritario - come il nucleo primario di socializzazione cui lo stato deve fornire i mezzi per l'effettivo svolgi­mento dei suoi compiti educativi (non si tratta soltanto di fornire mezzi economici diretti ma anche, e soprattutto, di predisporre una rete ca­pillare di esaurienti servizi sociali); nel settore del lavoro minorile si mette in particolare evi­denza, con spunti ed osservazioni originali, co­me sia stato disatteso l'impegno educativo che dovrebbe essere alla base di esso secondo la Costituzione (l'apprendistato, si osserva, è sta­to degradato «da sistema di istruzione a scher­mo per l'individuazione di un'area di lavoratori - più giovani - che subiscono un trattamento meno favorevole sul piano economico»); nella visione del rapporto minore-giustizia si tende a vedere gli interventi del giudice, al di là della li­mitata, e artificialmente dilatata, funzione pro­mozionale dei diritti del minore nei confronti dell'adulto, per quelli che sono nella realtà di tutti i giorni, cioè interventi che riguardano quasi e­sclusivamente minori emarginati, in particolare quelli che provengono dal sottoproletariato e dalle ultime leve delle ricorrenti immigrazioni, e che sono, essi stessi, obiettivamente emargi­nati (gli esempi riportati in proposito sono mol­to significativi).

Così delineata sommariamente la struttura del libro si deve rilevare che certi spunti di notevo­le interesse sui temi trattati meritavano, per la loro novità, una più ampia trattazione ed un ulteriore approfondimento. Si deve anche rilevare una carenza, quella di non aver tratto, dalla im­postazione del problema, le doverose conseguen­ze al livello di struttura giudiziaria. Appare in­fatti evidente che non si possa pretendere di gestire, a livello giudiziario, una linea che tende a rompere, a tutti i livelli, la separatezza - que­sto è il senso vero del disegno costituzionale - con una struttura giudiziaria, in particolare il Tri­bunale per i minorenni, che in funzione della se­paratezza è stata concepita ed attuata. Occorre allora pensare, nel libro questo tema non è trat­tato ma ne costituisce un logico corollario, a qualcosa di diverso, ad una struttura che coin­volga la comunità, collegandosi ad essa ed es­sendone la diretta espressione, nella conoscen­za, nella comprensione e nella trattazione di pro­blemi che sono, in quanto giudiziari, specifici ma, in rapporto alla materia cui si riferiscono, sempre intrecciati a problemi diversi, soprattut­to di carattere assistenziale. Il riferimento al giudice onorario elettivo a questo punto viene na­turale ma si tratta soltanto di una delle possibili soluzioni. Concludendo: un'opera stimolante; le diverse esperienze dei suoi autori si sono amal­gamate in una visione rigorosamente unitaria, le frequenti e sempre appropriate citazioni con­tribuiscono a dare dei diversi aspetti dei pro­blemi affrontati un panorama completo.

Il libro si legge agevolmente e questo è un non piccolo pregio, apparendo altresì in perfetta aderenza con gli intendimenti della Collana, in cui è inserito, «Diritto e istituzioni», diretta da Mario Bessone, che si propone di «ridurre la di­stanza tra le enunciazioni astratte e le concrete esigenze di una società in evoluzione».

LINO MONTEVERDE

 

 

AA.VV., Dizionario enciclopedico della sicurezza sociale, INCA CGIL, Roma, aprile 1975, Vol. I pag. 922, Vol. II pag. 890, Vol. III pag. 628, L. 50.000.

 

L'impostazione del dizionario enciclopedico sul problema dell'assistenza non mette sufficien­temente in evidenza la necessità di operare per il superamento dell'assistenza stessa con la messa a disposizione di interventi primari non assistenziali.

«Il rifiuto della segregazione in istituti pseu­do-assistenziali» e «dell'emarginazione median­te prestazioni di fatto umilianti e degradanti» (v. pag. I-330) portano infatti alla proposta ra­zionalizzante di «servizi capaci di mantenere in ogni modo il cittadino bisognoso nella comu­nità di cui fa parte» (pag. I-330).

Quanto sopra non costituisce certamente pre­venzione degli stati di bisogno, ma solo una mo­dalità più umana di intervento.

Tale disposizione, ribadita nelle pagine se­guenti nel manuale, può solo portare ad afferma­zioni generiche (che si fanno da anni e che non arrivano a sbocchi operativi) quali le seguenti richieste (pag. 1-330): «riconoscimento del fatto che per la soluzione di uno stato di bisogno non sono di regola sufficienti le sole prestazioni eco­nomiche...», «estensione delle prestazioni e dei servizi sociali a tutta la popolazione», «ri­conoscere che il diritto alle provvidenze assi­stenziali nasce dal fatto di appartenere alla co­munità nazionale e non all'elenco dei poveri», da cui si potrebbe addirittura dedurre che sia avanzata la proposta del riconoscimento del di­ritto all'assistenza a tutti i cittadini.

Da un esame delle voci del dizionario relative all'assistenza si riscontrano varie inesattezze.

Voce «adozione». Non è vero che la legge 5-6-1967 n. 431 abbia soppresso il divieto di adot­tare con adozione ordinaria per coloro che han­no figli legittimi (v. l'art. 291 del codice civile).

Inoltre l'adottato non aggiunge il cognome dell'adottante al suo, ma lo assume quando sia figlio naturale non riconosciuto (v. art. 299 co­dice civile).

Sempre nei riguardi del cognome dell'adotta­to, sarebbe stato utile citare nel manuale le leg­gi 31-10-1955 n. 1064 e 3-2-1963 n. 51 che preci­sano le norme per l'indicazione del cognome de­gli adottati (e degli affiliati) negli estratti, atti e documenti.

Voce «adozione speciale». È erronea l'indica­zione che gli adottanti con adozione speciale «non possono avere meno di venti anni». La legge (art. 314-2 c.c.) recita invece «l'età degli adottanti deve superare di almeno 20 e non più di 45 anni l'età dell'adottando».

L'affidamento preadottivo non ha una durata «non inferiore ad un anno», ma di tre nei casi in cui i coniugi abbiano propri figli legittimi (v. art. 314-24 c.c. ultimo comma).

È inoltre da respingere la seguente informa­zione, frutto o di non conoscenza del problema o di condizionamento al mito del sangue: «ap­pare indispensabile il corretto adempimento da parte del giudice del dovere di utilizzare, prima della dichiarazione di adottabilità, lo strumento dell'imposizione di prescrizioni ai genitori ed agli organi assistenziali».

La legge invece stabilisce che il presidente del tribunale per i minorenni o il giudice dele­gato «udite le dichiarazioni dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, ove ne ravvisi l'op­portunità», possa (e non debba) loro impartire con decreto motivato «prescrizioni idonee a ga­rantire l'assistenza morale, il mantenimento, l’istruzione e l'educazione del minore» (articolo 314-8).

L'affermazione contenuta nel dizionario enci­clopedico è del tutto fuori luogo ove si conside­ri che il bambino non è una proprietà dei geni­tori, ma un soggetto autonomo di diritti e si ten­ga conto dei deleteri e spesso irreversibili ef­fetti della carenza di cure familiari.

Poiché il bambino è un soggetto di diritti, egli non dovrebbe essere sottoposto a prove nei con­fronti dei genitori che per anni si sono disinte­ressati totalmente della sua vita.

Infatti la dichiarazione di adottabilità è pre­vista solo nei confronti dei minori «privi di assi­stenza materiale e morale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, purché la man­canza di assistenza non sia dovuta a forza mag­giore» (art. 314-4 c.c.) e non come scritto nel manuale, semplicemente «quando il genitore sia venuto meno ai doveri socialmente considerati verso la prole».

Nel dizionario manca la precisazione che l'a­dozione speciale può essere pronunciata anche nei riguardi di coniugi con propri figli.

Inoltre è inesatto quanto scritto alla pagina I-317. Infatti lo stato di abbandono (cioè di adot­tabilità) non è dichiarato «dagli istituti in cui sono ospitati», ma dal tribunale per i minoren­ni (art. 314-4 c.c.).

L'adozione speciale è rivolta non solo ai mi­nori «illegittimi» (espressione sorpassata che poteva essere evitata nel dizionario) riconosciu­ti dalla madre, ma anche ai figli di ignoti, ai ri­conosciuti dal padre, dai due genitori e ai figli legittimi.

Voce «affidamento familiare». È del tutto ine­satto quanto scritto al punto 5. Sia l'Ammini­strazione provinciale che l'ONMI (come gli al­tri enti di assistenza) potevano procedere all'af­fidamento familiare di minori di qualsiasi età.

È anche inesatto quanto scritto al terzo capo­verso «l'affidamento familiare si pone come una delle soluzioni di protezione dell'incapace, non in opposizione ma in alternativa ad altre, quali il collocamento in istituto o il trattamento assi­stenziale in famiglie, in relazione a specifiche esigenze».

Infatti partendo dalle reali e preminenti esi­genze dei minori e rispettando i diritti della fa­miglia d'origine, diritti che però devono essere assolti, fatti salvi solo i casi di forza maggiore, le priorità di intervento (v. la delibera del Co­mune di Torino n. 1398 del 14-9-1976) dovreb­bero essere le seguenti:

- messa a disposizione di interventi primari non assistenziali (lavoro, sanità, casa, ser­vizi prescolastici, scolastici, ricreativi ecc.) ;

- aiuto economico diretto ad assicurare alme­no il minimo vitale;

- assistenza domiciliare compresa quella edu­cativa;

- affidamenti e comunità alloggio.

Come testualmente scritto nella citata deli­bera «con l'attuazione graduale di tutti gli in­terventi di cui sopra il ricovero in istituti a ca­rattere di internato (di minori, di anziani, di han­dicappati) verrà progressivamente ridotto e, nei limiti del possibile, eliminato».

Altre osservazioni. Sull'assistenza vi sono vo­ci trattate in modo del tutto insufficiente e ine­satto come «abbandonati», fra l'altro confusi con gli «incapaci per infermità»; «Comuni», in cui non sono specificati gli obblighi, quasi mai assolti in violazione al R.D. 3-3-1934 n. 383, nei riguardi degli inabili al lavoro (e cioè dei minori degli anni 14, degli handicappati e degli anzia­ni) e quelli relativi alla medicina scolastica (D.P.R. 11-2-1961 n. 264 e 22-12-1967 n. 1518), anch'essi in larga misura disapplicati; «barrie­re architettoniche» (nemmeno inserita); «han­dicappati», nessun riferimento è fatto alle leggi esistenti ed agli obblighi di legge disapplicati; «affiliazione» in cui si afferma erroneamente che «gli effetti fondamentali dell'affiliazione in­fatti consistono nell'acquisto di uno stato di fi­glio e di uno stato familiare»; «IPAB», in cui non è indicato il potere delle Regioni di estin­zione; «assistenza ospedaliera ai cosiddetti cro­nici» che è dovuta dagli enti ospedalieri, ma quasi ovunque non fornita per cui i cronici, so­prattutto anziani, sono costretti al ricovero in istituti di assistenza a spese loro e dei parenti (le rette ammontano fino a lire 450.000 al mese); droga (nemmeno inserita); unità locale dei ser­vizi (nemmeno inserita).

ALBERTO DRAGONE

 

 

I.R.E.S.S., Sistema informativo e programmazio­ne locale dei servizi, Cooperativa Libraria Uni­versitaria Editrice, Bologna, pag. 127, L. 1.000.

 

La pubblicazione raccoglie gli atti del semina­rio di studi svoltosi a Bologna il 21 dicembre 1976 sul tema di cui al titolo del fascicolo.

Sottolineata da C. Trevisan l'interdipendenza fra informazione, partecipazione e programma­zione, è stato rilevato da E. Ranci Ortigosa che «tra i motivi dell'insuccesso ricorrente nel ten­tativo di programmare gli interventi di riforma del sistema esistente va annoverato anche il fat­to che i sistemi non sono in possesso delle in­formazioni necessarie per allocare e dirigere volumi ingenti di risorse. Le lacune informative generano la insufficienza e l'inefficacia dell'azio­ne a risposta ai bisogni sociali essenziali».

A. L'Abate, dopo aver affermato che nella lo­gica del mantenimento del potere e del siste­ma, «i dati attuali si basano soprattutto su quel­lo che si fa e non su quello che si dovrebbe o potrebbe fare», ha indicato la necessità di un sistema informativo alternativo: che per quanto riguarda l'assistenza, viene così esplicato: «in­dividuare i dati che nell'ambito dell'osservato­rio epidemiologico dovranno servire a identifica­re le problematiche assistenziali vuol dire pro­curarci gli strumenti per mettere in evidenza gli aspetti patologici della struttura sociale di un territorio, e per mettere in atto una politica d'in­tervento soprattutto finalizzata alla prevenzione dei fenomeni patologici emersi. Dalla registra­zione sistematica e dal costante aggiornamento dei dati individuati possiamo attenderci non so­lo di identificare i problemi sociali di un territo­rio, ma anche di precisarne dimensioni e loca­lizzazione, sicché si possa essere capaci di:

a) indirizzare la programmazione economi­co-sociale alla soluzione e alla prevenzione dei problemi emersi;

b) pianificare gli interventi con una program­mazione che, oltre a fronteggiare i problemi nel­le loro dimensioni attuali, tenga anche conto dei loro possibili sviluppi;

c) verificare l'efficacia degli interventi at­traverso la valutazione dei risultati raggiunti, commisurati agli obiettivi posti nella program­mazione, e modificare di conseguenza scelte e indirizzi.

I dati da raccogliere sono indicati in modo det­tagliato e riguardano:

A) la struttura socio-economica;

B) la consistenza e la distribuzione sul terri­torio di strutture e servizi sociali;

C) i settori a cui deve indirizzarsi una politi­ca di intervento sociale, volta a risolvere e pre­venire la patologia della stessa struttura so­ciale.

La pubblicazione è molto interessante e le pro­poste sono stimolanti. Rimane però il problema di fondo: è pensabile che gli organi di governo siano essi nazionale, regionali o locali mettano in moto un sistema informativo alternativo, tale cioè da fornire alle forze sindacali e sociali e alla popolazione gli strumenti di conoscenza di ciò che non funziona e di ciò che è necessario; un sistema cioè tale da mettere in discussione le linee politiche e l'operato degli stessi organi di governo?

A questo interrogativo risponde Maccacaro in un articolo, riportato in allegato nel fascicolo in cui precisa «la partecipazione non "è", ma "diventa" e diventa per forza non di decreto, ma di esercizio. Quindi bisogna dimettere ogni ipo­tesi di governo sanitario improvvisamente par­tecipario che si realizzi ope legis in una qual­siasi situazione storica e medica, politica e tec­nologica».

Pertanto senza una reale e forte partecipazio­ne è illusorio sperare in un sistema informati­vo alternativo.

 

 

IRENE LEZINE, Problemi della prima infanzia, Emme Edizioni, Milano, 1976, pag. 203, Lire 3.200.

 

Il libro tratta i problemi dello sviluppo della prima infanzia, problemi che vengono evidenzia­ti da una accurata ed approfondita indagine con­dotta dall'Autrice.

È un libro utile non solo agli specialisti, ma a tutti coloro che (genitori, insegnanti, operatori socio-sanitari) si occupano di bambini.

La ricerca conferma che ogni bambino fin dai primissimi giorni di vita ha una sua individualità da comprendere e rispettare. Il bambino non è solo «un tubo digerente», ma un essere biso­gnoso e capace di porsi in relazione con l'am­biente e le persone, di ricercare certi stimoli e di organizzarsi intorno ad essi. Allora tutti i mo­menti che caratterizzano la giornata del bambi­no quali il cibo, il sonno, la veglia, la pulizia, l'essere manipolato assumono una importanza fondamentale per la carica relazionale che li ca­ratterizza oltre che per il soddisfacimento dei bisogni primari. Pertanto certi elementi dell'am­biente determinano in modo permanente ed ir­reversibile le possibilità, le abitudini, lo svilup­po neurobiologico della personalità del bambino. Da qui l'importanza di una educazione non iso­lata ma aperta agli scambi esterni che risultano sempre fonti di gioia straordinaria per lui.

L'autrice infine auspica il sorgere di collet­tività organizzate per l'infanzia in modo da poter svolgere anche nei confronti dei genitori una funzione educativa e favorire sempre più le at­titudini sociali e l'equilibrio affettivo dei bam­bini.

JOLE MEO

 

 

LUIGI CANCRINI, Verso una teoria della schizo­frenia, Boringhieri, Torino, 1977, pag. 341, Li­re 14.000.

 

In questo volume Luigi Cancrini porta avanti un doppio discorso:

1) da un lato intende mettere a disposizione del lettore italiano i contributi del famoso grup­po di lavoro costituito (nel 1952) dall'antropolo­go Gregory Batesan, da due psichiatri, Don D. Jackson e William F. Fry, da un teorico della comunicazione, Jay Haley e da un altro antropo­logo, John H. Weakland. Questi uomini lavora­rono insieme per una decina di anni, finché il gruppo si sciolse attorno al 1962 e ognuno dei membri proseguì per conto proprio. Ad essi è legata la prima presentazione dell'ipotesi che la schizofrenia sia da ricondurre a una comunica­zione «paradossale» nella quale sarebbe inse­rito da sempre il paziente. Per comunicazione paradossale si intende una situazione in cui coe­sistono sia il messaggio che la negazione del messaggio: ad esempio la madre in visita al fi­glio schizofrenico in ospedale psichiatrico che, di fronte al gesto di avvicinamento del figlio, ha un moto istintivo di rifiuto e allontanamento, ma che al figlio disorientato dice premurosa e colpevolizzante: «Perché ti fermi? non vuoi be­ne alla tua mamma?».

Ora, partendo da questa prima intuizione (la prima pubblicazione del gruppo è del 1956 ed è proprio quel «Verso una teoria della schizofre­nia» che dà il titolo alla raccolta) sorse un ric­chissimo filone di ricerca in particolare nel cam­po della psicodinamica della famiglia come grup­po, e della terapia della famiglia, filone a sua volta ripreso e rilanciato con propria autonomia da Laing in Gran Bretagna con i suoi noti lavori sulla esperienza psicotica e sul contesto relazio­nale che la sottende. Le prime fondamentali e tuttora attuali tappe di tale ricerca sono appun­to presentate in questo volume;

2) d'altro lato Cancrini non limita il suo con­tributo a quello del traduttore o del presentatore. Poiché egli stesso e la sua équipe hanno at­tuato esperienze autonome nello stesso campo, egli coglie l'occasione per puntualizzare il pro­blema tecnico-culturale-politico che sottende il fenomeno «schizofrenia», con due contributi. Il primo, un ampio capitolo dal titolo rivelato­re: «Schizofrenia, una definizione ancora uti­le?» fa anche da introduzione a tutto il volume; il secondo, «Una psicoterapia familiare con pa­ziente designata in situazione schizofrenica - 1976» si propone lo scopo - e lo raggiunge - di dimostrare come gli strumenti di analisi e di intervento terapeutico proposti da Bateson e da­gli altri mantengano validità anche all'interno di un contesto socio-culturale diverso (l'Italia ri­spetto agli USA) da quello in cui furono elabo­rati.

L'affermazione circa la validità degli strumenti di Bateson ci obbliga nondimeno a ricordare al lettore i due fondamentali limiti più volte evi­denziati da studiosi e operatori provenienti da esperienze diverse:

a) sul piano politico, le teorie della comuni­cazione finiscono per essere sovente utilizzate in modo da mistificare quelle contraddizioni e alienazioni «di classe» che sottendono le con­traddizioni di gruppo, cioè della famiglia;

b) sul piano teorico e tecnico la teoria della doppia comunicazione, del doppio legame con­fonde e rende impropriamente equivalenti due diversi tipi di comunicazione contraddittorio: quel­la che si svolge sul piano conscio da quella che si attua sul doppio piano conscio-inconscio (la­sciamo però l'approfondimento di questo proble­ma, per altro importante, agli specialisti). Da parte nostra, fatta salva la solita raccomanda­zione al lettore di una lettura politicamente cri­tica, diamo la nostra prima adesione a questo volume; esso dovrebbe senz'altro far parte della biblioteca di ogni operatore psichiatrico, ma è interessante anche per il profano.

BEPPE ANDREIS

 

 

UFFICIO DIOCESANO PER LA PASTORALE DELL'ASSISTENZA DI TORINO, Handicappati e co­munità - Integrazione nella Chiesa, nella so­cietà, nella scuola, nel mondo del lavoro, Edi­trice OMEGA, Torino (Via Cirenaica 40), 1977, pag. 76, L. 2000.

 

Il Convegno ecclesiale di Roma su «Evange­lizzazione e promozione umana» del 1976 ha af­fermato, nel testo conclusivo della Commissione VI, che la Chiesa italiana non ha ancora ricono­sciuto concretamente la centralità degli emargi­nati nella propria realtà. E tra coloro che sono considerati e posti ai margini della convivenza le persone portatrici di handicap sono certo tra le più lontane.

Le comunità cristiane e la società in genere hanno iniziato da qualche tempo la riflessione, la ricerca e la proposta di soluzioni relativamente alle situazioni più comuni di emarginazione, pro­prio perché i problemi dell'infanzia, dell'adole­scenza e della terza età possono prima o poi toc­care tutte le famiglie; mentre la condizione de­gli handicappati è meno legata alla vita di tutti ed è quindi più facile ignorarla e lasciarla gestire da chi la soffre in prima persona, aggiungendo così alla diversità prodotta dall'handicap il di­sinteresse e sovente il rifiuto.

È necessario che i cristiani, come singole come famiglie come comunità, si pongano coraggiosa­mente ed umilmente questo problema, doman­dandosi se il voler essere in comunione con Dio e fraterna sia compatibile con l'escludere qual­cuno dalla propria mentalità, sensibilità e vita e se la scelta dei poveri, segno irrinunciabile della Chiesa di Cristo, non richieda di dare preferenza e quindi priorità a chi storicamente tra gli emar­ginati lo è più di altri. E questo anche a costo di scelte difficili e dolorose, quando fosse inevita­bile rinunciare ad opere ed iniziative esistenti per impegnarsi in testimonianze profetiche.

I tentativi limitati e difficili di inserimento de­gli handicappati in gruppi ecclesiali, le sperimen­tazioni di integrazione scolastica oggetto di con­trasti e polemiche, la nuova legge approvata dal Parlamento nel luglio 1977 che inserisce nella modifica del sistema di valutazione e di esami e nella programmazione di interventi individualiz­zati e di classi aperte l'integrazione degli handi­cappati, la necessità di formazione professionale e di spazi lavorativi funzionali allo sviluppo della persona, richiedono una riflessione ed un appro­fondimento su questo problema che coinvolgano tutte le componenti delle comunità ecclesiale e civile, nella convinzione che solo una visione glo­bale e la partecipazione di tutti possono avviare quel cambiamento di mentalità e di strutture che è condizione per una vera integrazione.

La presente pubblicazione, frutto dell'appas­sionata collaborazione di alcuni esperti, vuol essere un tentativo di esposizione semplice e breve di motivazioni cristiane, sociologiche e psi­cologiche che propongono l'integrazione degli handicappati, di indicarne le convergenze e di stimolare riflessioni più attente e complete.

Ed ha soprattutto l'intenzione di offrire un con­tributo a quella conversione che è quotidiana­mente necessaria perché il precetto evangelico della carità non resti confinato nei limiti della teoria e del sentimento, ma si incarni nel servi­zio a quanti continuano nel dolore e nella speran­za la presenza più espressiva di Cristo nella sto­ria degli uomini.

(Dalla presentazione).

 

 

Documentazione sull'adozione speciale, sull'affi­damento educativo e sulle comunità alloggio

 

Si segnalano le seguenti pubblicazioni dell'AAI:

- L'affidamento familiare;

- L'adozione speciale (edizione aggiornata al 1977);

- L'adozione e l'affidamento: problemi e pro­spettive (raccolta e commento di documen­tazione 1970-1975) ;

- Il possibile esperimento (ricerca sulle co­munità alloggio).

Le pubblicazioni, gratuite, possono essere ri­chieste al Ministero dell'interno, Direzione gene­rale dei servizi civili (ex AAI), Via G. Lanza 200, Roma.

 

www.fondazionepromozionesociale.it