Prospettive assistenziali, n. 40, ottobre-dicembre 1977

 

 

PROPOSTE SULLA RIEDUCAZIONE PSICOMOTORIA

 

 

Si è tenuto a Lucca il 14-5-1977, organizzato dalla Società Italiana di Neuropsichiatria Infan­tile e dall'Associazione Italiana Terapisti della Riabilitazione, una riunione congiunta che ha af­frontato i temi della riabilitazione psicomotoria e del reinserimento dei motulesi.

Qui di seguito riportiamo l'intervento svolto da due terapiste dell'équipe del prof. Milani Com­paretti a nome del Consorzio Spastici di Firenze; lo proponiamo come stimolo ad approfondire il dibattito intorno all'argomento.

Ancora una volta, non nell'enunciazione teori­ca ma nella prassi del lavoro quotidiano emergo­no quelli che debbono essere i punti qualificanti del nuovo modello dei servizi sanitari e socio­assistenziali che si va a proporre:

- inscindibilità del sanitario dal sociale;

- desettorializzazione degli interventi;

- rifiuto della delega ai tecnici.

 

 

TESTO DELL'INTERVENTO

 

Nella prospettiva della riforma socio-sanitaria già da tempo i servizi riabilitativi in Firenze si sono notevolmente modificati per adeguarsi al­le nuove esigenze. Di primaria importanza è sta­to il decentramento dei servizi con una zonizza­zione che ha permesso di prefigurare la territo­rialità. In primo luogo la specificità dei nostri interventi (eravamo definiti un tempo i rieduca­tori degli spastici) hanno perso questo anacro­nistico appellativo per un più generale impegno riabilitativo esteso a tutte le forme di invalidità che richiedano un trattamento fisioterapico (*).

Nel passato il modo di procedere degli ope­ratori della riabilitazione era basato sulla iden­tificazione di un deficit e l'impegno terapeutico dominante era quello di correggere le disfun­zioni: ad ogni «Dis» corrispondeva un «Or­to» (11).

Il fisioterapista era vissuto come il possessore di un certo numero di tecniche misteriose che via via tirava fuori dal suo bagaglio per acco­modare il pezzetto di corpo che era storto o che non funzionava.

Se a questo tipo di tecnico si affida l'handi­cappato, si mette in atto una delega che fa pre­supporre fiducia, ma anche ignoranza e dipen­denza, per cui, l'inevitabile fallimento delle a­spettative, genera ansia e aggressività. Tutto ciò concorre come modello negativo a definire il nuovo ruolo del terapista.

La nuova metodologia di lavoro mette il tec­nico al servizio dell'utente, ma non per conti­nuare all'infinito un trattamento spesso mistifi­catorio, bensì per suggerire a tutta la comunità sociale intorno all'handicappato i contenuti ria­bilitativi, cioè il fisioterapista, fermo restando l'apporto tecnico individuale, diventa il consu­lente dei genitori, parenti, maestri (5).

Alla stessa stregua anche gli «Orto» dovran­no socializzare le loro conoscenze a livello di base, garantendo l'intervento individuale nei ca­si in cui se ne rilevi l'effettiva necessità.

Nel caso della diagnosi precoce il bambino viene segnalato all'ambulatorio di zona dove im­mediatamente riceve il trattamento adeguato (non ci devono essere liste d'attesa).

Nell'ambulatorio ogni attività viene fatta co­ralmente: fin dalla prima visita tutti sono coin­volti nella conoscenza di un nuovo paziente: il neuropsichiatra infantile, il fisioterapista, l'ad­detto alla segreteria, lo psicologo, l'assistente sociale, l'ausiliario.

Via via che passano i giorni i genitori, i non­ni, chiunque stia intorno al bambino, riceve dal fisioterapista non solo le istruzioni tecniche spe­cifiche, ma è sollecitato a conoscere il bambino, ad apprezzarne i lati positivi, a non perdere di vista quella meravigliosa metamorfosi che è la crescita. Questo è molto importante e lo sotto­lineiamo perché spesso concentrare l'attenzione dei genitori solo sui difetti motori del bambino li porta a perdere la vera dimensione del fi­glio (12).

Così con i genitori si crea un rapporto di col­laborazione che permette di ottenere risultati riabilitativi molto validi. Dopo qualche tempo essi saranno capaci non solo di attuare il trat­tamento fisioterapico, ma verranno a farci nota­re i progressi o ci segnaleranno qualcosa che non va, ne sapranno descrivere il comportamen­to allo psicologo, discuteranno col medico du­rante le visite di controllo o con il consulente durante le visite specialistiche.

È chiaro che questo criterio di lavoro richiede da parte del fisioterapista non solo una prepara­zione tecnica adeguata, ma anche doti di auto­controllo, equilibrio, comunicativa.

La territorialità comporta una riqualificazione continua perché bisogna offrire all'utente del servizio pubblico strumenti terapeutici sempre più affinati.

La collaborazione del fisioterapista col neuro­psichiatra infantile è essenziale perché il rap­porto più immediato con il paziente e con la fa­miglia offre al fisioterapista ripetute occasioni per conoscere ed approfondire varie problematíiche. È importante quindi che ci sia continuo dia­logo perché l'atteggiamento dell'équipe nei con­fronti della famiglia sia univoco. Infatti molte richieste, le più frequenti improprie, vengono fatte al fisioterapista, in primo luogo dalla fa­miglia.

Portiamo ad esempio la visita pediatrica in cui viene individuato un problema: l'angoscia del genitore è fortissima ed il medico non può es­sere portato a minimizzare il grado di gravità o ad attenuare le condizioni reali prescrivendo «tanta fisioterapia»: questa è la prima richiesta impropria, che viene assorbita dai genitori i qua­li si attaccano a quel giudizio e useranno il fi­sioterapista come capro espiatorio, accusando­lo di incompetenza al primo inevitabile insuc­cesso.

Un medico che fa una diagnosi ottimistica pre­giudica in partenza l'intervento del fisioterapista, che ne uscirà squalificato.

Altrettanto vale il discorso opposto: una dia­gnosi pessimista, sentenziata alla prima visita, magari col metro del cosiddetto «bambino a ri­schio» genera nei genitori due tipi di reazione: la prima di non accettazione di quella sentenza, col risultato di iniziare il penoso iter delle visi­te specialistiche più varie (e relativa perdita di tempo), la seconda di essere scoraggiati in par­tenza e di distruggere così le aspettative e le speranze sul futuro del figlio.

La seconda richiesta ci può venire dal neuro­psichiatra infantile, il quale può gestire la visita specialistica di secondo livello in maniera ver­ticistica, facendo diagnosi, prognosi, e dando in­dicazioni sul trattamento, dando così una rispo­sta individuale ai bisogni.

Il criterio essenziale per il lavoro nel terri­torio è quello dell’osservazione del bambino nel suo ambiente abituale (in casa, al nido o nella stanza dove abitualmente gioca col fisioterapi­sta) e non «facendogli la visita» nella stanza del medico e poi dando istruzioni al capotera­pista.

Non si può, alla maniera degli inquisitori, i­struire un processo al bambino al primo approc­cio di conoscenza (10).

Ci riferiamo al «trattamento diagnostico», il sistema per dare al bambino la possibilità di ma­nifestare le proprie capacità, per cui, solo dopo un periodo di trattamento fisioterapico e varie visite collegiali di controllo, scaturirà una dia­gnosi meno affrettata e quindi si potrà fare una prognosi.

È essenziale partecipare alla vita dell'équipe dialogando sulle necessità e sui problemi quoti­diani. La competenza del neuropsichiatra infanti­le è importante perché il fisioterapista non può e non vuole assumersi responsabilità che non sono di sua autorità: ad esempio vengono invia­ti per trattamento bambini con indicazione di fi­sioterapia fatta in altri ambienti. Ciò impegna il fisioterapista o a fare qualcosa di cui non è con­vinto, o a mettere in discussione l'indicazione data, mettendo in crisi la famiglia (terza richie­sta impropria).

Un altro esempio si verifica in occasione di consulenze specialistiche (e qui ci riferiamo a quella ortopedica). È il fisioterapista che sotto­pone all'attenzione dei medici un caso da chi­rurgia, ma decidere il momento dell'intervento, discuterne col chirurgo le modalità è compito del medico di servizio, che ha una visione glo­bale del caso.

Lo stesso dicasi per le richieste di trattamen­to di bambini operati altrove o con indicazione di trattamento espressa in un ambito scollegato dal servizio di zona; interventi chirurgici tenden­ti a correggere morfologicamente una situazio­ne, i quali possono compromettere una funzio­ne, attribuendo alla fisioterapia inadeguata un vero insuccesso chirurgico. Questa è la quarta richiesta impropria.

A volte ci capita di dover trattare un bambino troppo irritabile e al contrario troppo torbido: noi siamo i recettori di uno stato di alterazione che facilmente si può attribuire ai farmaci: è chiaro che un fisioterapista non oserebbe mai sospendere una cura, ma la collaborazione col medico fa sì che questo a sua volta apra un dia­logo col curante nell'interesse del paziente.

La quinta richiesta impropria si manifesta quando ci viene proposto un intervento tecnico individuale su casi gravissimi: è chiaro che af­frontare tecnicamente problemi che andrebbero risolti a livello sociale è dovuto soltanto alla mancanza di alternative sul territorio.

Sesta domanda impropria: mancanza di richie­ste o peccato di omissione.

I pazienti arrivano troppo tardi al secondo li­vello, per cui l'intervento tardivo è già (citando il prof. Milani) «una serie di autobus perdu­ti» (4).

Questo vale anche per la mancanza di segna­lazione precoce o d'intervento fisioterapico qua­lificato all'interno delle Istituzioni Ospedaliere, anche se basterebbe anche qui portare la nostra consulenza al personale infermieristico conse­gnando loro le indicazioni necessarie.

Il sistema riabilitativo che ho descritto ci fa­cilita nell'inserimento degli handicappati nella comunità, ad esempio nella scuola; infatti il bam­bino che ha avuto un trattamento precoce, dopo circa tre anni è pronto ad accedere alla scuola materna e di qui non avrà difficoltà a seguitare la scuola dell'obbligo col gruppo dei compagni.

Per noi è scontato che, nel caso in cui s'intra­vede qualsiasi indicazione di trattamento specia­listico, questo venga attuato fuori dalla scuola, nell'ambulatorio del quartiere, così come, per qualunque attività o intervento specialistico il bambino normale si reca in piscina, o a danza, o dall'oculista. Non altrettanto chiaro è questo concetto nell'ambiente scolastico (settima do­manda impropria). La scuola cerca di fagocitare al suo interno i servizi riabilitativi, coabitazione controproducente e anacronistica, tanto è vero che molte energie sono state spese per abolire la scuola speciale, fatta giustappunto di maestri e tecnici specialisti (5).

Il rifiuto del tecnico alla scuola non deve es­sere percepito come un rifiuto di occuparci dei bambini una volta nella scuola; infatti offriamo agli insegnanti la nostra disponibilità al dialogo e l'appoggio per chiarire i problemi che posso­no emergere dalla non conoscenza di certi han­dicap, ma evitiamo di portare l'intervento diret­to sul bambino (**).

Siamo convinti che il tecnico (fisio, psico o orto che sia) nella comunità normale sia non so­lo un abuso, ma anche uno strumento di emar­ginazione.

Gli stessi bambini ci hanno spesso chiesto di non andarli a trovare a scuola perché li facciamo sentire diversi dagli altri.

A questo punto dovremmo formulare qualche proposta.

Il suggerimento è quello di non iniziare il la­voro sul territorio riproponendo gli errori fatti nelle strutture, tenendo fede al motto «tutto cambi perché niente cambi».

Lo studio delle domande improprie indica le risposte proprie.

 

Proposte

Come principio generale il lavoro del fisiote­rapista deve basarsi sullo studio della motricità normale, non solo della Kinesiologia ma della motricità correlata alla funzione.

Nell'età evolutiva in particolare osservare il bambino alle varie fasi di sviluppo, fare una at­tenta analisi del suo comportamento, dà già una risposta che ha valore semeiotico, poiché nella personalità del bambino non si può disgiungere la motricità dalla psiche, infatti parliamo di svi­luppo psicomotorio come di un fenomeno glo­bale (6).

Inoltre bisogna fare un attento studio della evoluzione della motricità patologica nei vari quadri clinici.

Questo tipo di osservazione è stato chiamato, come è noto «Esame motoscopico», che per­mette una analisi del movimento e della po­stura (9).

In questa dinamica si riconosce il difetto di strutturazione dei patterns motori, o il predomi­nio di patterns patologici che condizionano una limitazione della libertà di scelte operative.

Partendo da questa impostazione l'intervento fisioterapico si baserà sulla guida assidua e at­tenta degli schemi motori, interferendo durante la strutturazione della motricità, sia per indiriz­zare le scelte fisiologiche, che per ridimensio­nare l'influenza di patterns che assumono una dominanza eccessiva (7). Si tratta la struttura della motricità e si valuta quanto il trattamen­to può influirci, sia in senso favorevole che sfa­vorevole.

Durante il trattamento si deve tener conto del­la evocabilità delle risposte normali, dello stabi­lirsi di dominanza delle risposte organizzanti la motricità normale, quindi favorire l'integrazione delle risposte più funzionali. Si deve anche va­lutare quanto l'interferenza dei compensi incida sulla struttura patologica della motricità.

Tutto ciò non può essere valutato di primo ac­chito, ma, in base al trattamento diagnostico, il lavoro sarà effettuato in base ad una continua valutazione delle esigenze e quindi a un conti­nuo accomodamento del trattamento alla sequen­za delle conquiste motorie funzionali.

Il lavoro del fisioterapista deve essere basato sulla prognosi e non sulla diagnosi.

Nel caso di una prognosi infausta per una cer­ta funzionalità autonoma, l'impegno è di trovare un'alternativa.

Un terapista non si deve occupare solo del re­cupero della motricità, ma, poiché il nostro la­voro fa parte di quel complesso di interventi medico-psico-sociali che si definisce «riabilita­zione», si deve tener conto della persona, ci si deve impegnare anche a restituire quanto più è possibile all'individuo handicappato la sua di­mensione umana. Per questo, fermo restando il discorso di non tecnicizzare problemi sociali, abbiamo l'obbligo di occuparci dei gravissimi quanto e più che dei casi in cui s'intravedono risultati soddisfacenti. Non certo continuando indefinitamente un intervento tecnico che sap­piamo inutile, ma ponendo la nostra attenzione alla prevenzione delle deformità e a ricercare soluzioni per evitare la strutturazione di danni secondari. Dovranno essere sempre meno fre­quenti le deformità osteo-articolari (lussazione dell'anca, scoliosi, cifoscoliosi), le gravi defor­mità degli arti inferiori e della mano; si ricorre­rà sempre meno all'uso di complicate apparec­chiature ortopediche e si supererà la chirurgia correttiva in favore di una chirurgia preventiva.

Anche i limiti della fisioterapia, come le pos­sibilità, sono legati alla prognosi, ovviamente una previsione negativa è il limite massimo.

L'intervento fisioterapico nelle prognosi infau­ste quale le neoplasie del sistema nervoso cen­trale, le forme progressive legate a una disfun­zione congenita del sistema nervoso centrale, forme dismetaboliche, degenerative neurogene o miogene, deve mirare, come ho già detto pri­ma, a prevenire l'instaurarsi di danni secondari. Inoltre il compito precipuo è quello di allungare il tempo di mantenimento della funzionalità esi­stente e di dare condizioni di vivibilità migliori.

Altri limiti al trattamento sono l'epilessia, i disturbi visivi e quelli della comunicazione, l'in­sufficienza mentale, lo stato di salute generale, condizioni che interferiscono pesantemente sull'esito del trattamento.

A volte un limite ci viene posto dalla fami­glia: ci capita infatti di trovare genitori troppo abulici, che non sostengono il bambino, o geni­tori iperprotettivi, che ostacolano il rapporto se­reno del figlio con gli altri, o genitori troppo so­lerti, e questi spesso finiscono con l'ossessio­narlo con troppe richieste.

Un'altra limitazione al trattamento ci viene posta dall'interferenza dei compensi, che a vol­te sono l'unica possibilità funzionale e come tali vanno rispettati, altre volte vanno inibiti perché mascherano l'evocabilità di risposte normali. Un altro limite ci viene spesso dallo stesso paziente il quale si rifiuta di ricevere un inter­vento fisioterapico che si protrae già da tempo, in opposizione con la famiglia che tende sempre a chiedere di più.

Ciò si verifica spesso nei pazienti affetti da lieve handicap, per cui la diversità non viene ac­cettata e la richiesta diventa opprimente.

Il fisioterapista deve sempre porsi un fine, al­trimenti si ricade nella cosiddetta «terapia di mantenimento», che è fine a se stessa.

A chiusura di questo intervento formuliamo la speranza che il contatto tra tecnici e neuropsi­chiatri infantili non sia limitato a questa riunio­ne, ma che questa giornata sia l'occasione per iniziare una approfondita conoscenza reciproca e un più proficuo rapporto.

 

 

Bibliografia

(1) AA.VV., Relazione della Commissione per lo studio del Servizio di Fisiatria nell'ambito del programma regionale toscano dei Servizi sanitari e sociali, da Quaderni della Riabilitazione - A.I.A.S., n. 3-4, dicembre 1976.

(2) AA.VV., Relazione convegno sui «servizi di riabilitazione per handicappati», A.I.A.S., Cu­trofiano, Lecce, 1974.

(3) Gesell A., Amatruda S., Developmental dia­gnosis, 2ª ed., Hoeber, New York, 1954.

(4) Milani Comparetti A., Intervista, Tempo Medico, gennaio 1976.

(5) Milani Comparetti A., Relazione al Consor­zio per l'assistenza agli spastici di Firenze, 10 maggio 1976.

(6) Milani Comparetti A., Lo sviluppo motorio infantile normale e patologico, Infanzia anormale, n. 57, 1964.

(7) Milani Comparetti A., La fisioterapia delle paralisi cerebrali infantili, Relazione al 1° Sim­posio sulle paralisi cerebrali, 19-22 settembre 1975.

(8) Milani Comparetti A., Early diagnosis of ce­rebral plasy, World medical journal, n. 3, 1972.

(9) Milani Comparetti A. e Gidoni E.A., Pattern analysis of motor development its disorders, De­velopmental medicine and child neurology, vol. 9, n. 5, ottobre.

(10) Milani Comparetti A. e Gidoni A.E., Dalla parte del neonato: proposte per una competenza prognostica, Neuropsichiatria infantile, n. 175, gennaio 1976.

(11) Pfanner P. e G., Il recupero dell'insufficien­te mentale, Quaderni dell'istituto medico-peda­gogico Stella Maris, Pisa, 1964.

(12) Sergi S., Perché tanta violenza sul bam­bino eccezionale?, Quaderni della riabilitazione A.I.A.S., n. 4, dicembre 1975.

 

 

 

(*) Da una recente indagine statistica sulla composizione della popolazione di utenti dei servizi del Consorzio Spa­stici di Firenze è risultato che solo il 49% è rappresentato da paralisi cerebrali infantili, quindi oltre la metà è costituita da utenti con altre affezioni tra le quali: mio-distrofici, sclerotici, emiplegici apoplettici, mielomeningoceli, paralisi perife­riche ecc.

(**) Il servizio di una zona con circa 150.000 abitanti (3 U.S.L.) ha un numero di circa 200 assistiti. L'équipe che opera in tale zona é costituita da un neuropsichiatra infantile, 4 terapisti, 1 psicologo, 1 assistente sociale, 1 segretaria. Considerato che la frequenza di tali assistiti va da pochi accessi all'anno fino alla frequenza quotidiana, la presenza media giornaliera in ambulatorio è di circa 20 utenti, più circa 5 interventi extramurali giornalieri.

L'attività extramurale sta continuamente crescendo, tanto che lo stesso servizio ha raddoppiato il numero di tali pre­stazioni nel corso degli ultimi 4 mesi, portando la propria attività a domicilio, a scuola, in ospedale, negli asili nido, pren­dendo contatto con le altre istituzioni e ambienti.

 

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