Prospettive assistenziali, n. 37, gennaio-marzo 1977

 

 

Libri

 

 

ALFREDO CARLO MORO, L'adozione speciale, Milano, Giuffrè, 1976, pag. 394, L. 8500.

 

Questa pubblicazione del Presidente del Tribu­nale per i minorenni di Roma ha il pregio di trattare in modo approfondito ed esauriente tut­ta (a materia relativa all'adozione speciale sal­dando continuamente gli aspetti formali con quel­li sostanziali e traendo le considerazioni esposte da esperienze concrete.

La trattazione è inoltre condotta con uno stile semplice, talché il libro risulta utile e consiglia­bile non solo a magistrati e cancellieri, ma anche agli operatori sanitari e socio-assistenziali.

Il filo conduttore dell'opera di Moro è il diritto del minore alla famiglia, quale strumento indi­spensabile per lo sviluppo della sua personalità e per un adeguato processo di socializzazione.

Analizzate le conseguenze delle carenze fami­liari e gli effetti sull'infante e sull'adolescente, viene tracciato un breve excursus storico dal quale risulta come «il riconoscimento che il mi­nore è soggetto di autonomi diritti sia un por­tato solo dei tempi più recenti».

Il diritto del minore alla famiglia si rivolge in primo luogo alla propria famiglia d'origine, la quale deve essere «posta in grado di poter con­cretamente adempiere al suo ruolo educativo».

Ma tale diritto è però contraddetto dal nostro ordinamento e dalla prassi assistenziale. «L'or­dinamento consente infatti ancora al genitore - sulla base di una assoluta discrezionalità e sen­za alcun preventivo controllo sia della necessità dell'allontanamento dalla residenza familiare sia della opportunità per il minore di un simile sra­dicamento - di affidare a terzi l'allevo e l'ado­zione del proprio figlio». La prassi assistenziale «che nella migliore delle ipotesi deve essere de­finita ottusa» a sua volta «tende ancora, quando la famiglia di origine si trovi in stato di bisogno, a togliere il minore dalla propria famiglia per ricoverarlo in istituto».

Sottolineata l'urgenza della riforma del setto­re assistenziale, l'Autore assume come riferi­mento di fondo: la soppressione della miriade di' enti nazionali e locali (IPAB comprese), il com­pletamento del trasferimento delle competenze alle Regioni e l'unità locale dei servizi.

Dal capitolo III in avanti sono trattati i proble­mi specifici sollevati dalla legge 5-6-1967, n. 431, istitutiva dell'adozione speciale e dalla sua ap­plicazione, non sempre conforme alla lettera e allo spirito della legge e cioè non sempre diretta a tutelare i diritti del minore.

Gli ultimi due capitoli riguardano l'adozione internazionale (cap. IX) ed i problemi penali dell'adozione (cap. X).

Vogliamo infine sottolineare che il libro di Moro dovrebbe costituire anche un riferimento per il legislatore che dovrebbe tener conto delle osservazioni, gran parte delle quali sono da noi condivise, per la modifica - da tempo promessa - della legge sull'adozione speciale e per la soppressione dell'adozione tradizionale e della affiliazione.

ALBERTO DRAGONE

 

 

J. M. STELLMAN, S.M. DAUM, Lavorare fa male alla salute, ed. Feltrinelli, Milano, 1975, pagg. 468, L. 5.000.

P. BENEDETTO, G. MASSELLI, U. SPAGNOLI, B. TERRACINI, La fabbrica del cancro, ed. Einau­di, Torino, 1976, pagg. 125. Edizione fuori com­mercio. Omaggio della Regione Piemonte.

 

Da più parti ormai viene affermata la neces­sità di una critica alla neutralità della scienza. Il fatto che il ricercatore si sia accorto di una «ricerca voluta» dalla società in cui vive, che la medicina ufficiale, così come la scienza è monca quando non può includere anche la con­siderazione dei suoi riflessi sulla società, lo ha indotto a credere nell'esigenza di una parteci­pazione per condizionare il potere di classe della controparte ed a formulare una ipotesi di lavoro nuovo per verificare dove «la medicina, come la scienza, sia un modo di potere». Su questo comune denominatore sono pubblicati questi due volumi, con il preciso proposito di fare ricerca ed insieme opera di divulgazione, ma anche con lo scopo di analizzare le proposte della classe operaia al fine di arrivare ad un cambiamento di rapporto fra scienza e società.

Entrambi i libri nascono dal desiderio di crea­re una rete sanitaria e scientifica esterna che possa sostenere con strumenti ed interventi adeguati le conquiste ottenute dai lavoratori nei loro contratti e dall'evidenza che la lotta per la salute deve si partire dall'interno della fabbrica, ma «deve poi collegarsi al mutamento del quadro politico generale ed ad una azione più vasta che incida sul rapporto, fabbrica, so­cietà ed istituzione».

Nel libro Lavorare fa male alla salute sono evidenziati i rischi del lavoro in fabbrica, attraverso i risultati conseguiti dalla parte più avan­zata del movimento operaio americano, che con lotte dure e lunghe è riuscito ad ottenere mo­difiche dell'ambiente di lavoro. Questa difficile marcia passa non solo attraverso il sospetto dei lavoratori che la loro condizione di lavoro sia dannosa alla salute, ma attraverso «l'indi­viduazione e l'uso di strumenti che ricuperando l'esperienza e l'azione degli interessati, singoli e gruppi sociali, da un lato conduca alla sco­perta dei rapporti esistenti tra le malattie e tutte le variabili presenti nell'ambiente lavora­tivo e non, e dall'altro alla attuazione di tutti i provvedimenti necessari ad interrompere quan­do è necessario tali rapporti (prevenzione pri­maria delle malattie)».

È questo un libro aggiornato e completo sul­le malattie ufficialmente riconosciute come de­rivanti dal lavoro, e su quelle che ancora non sono conosciute; un libro che partendo dalla fabbrica cerca di coinvolgere associazioni di consumatori e vari gruppi sociali nel difficile cammino verso il diritto di tutti al consegui­mento del proprio benessere fisico e sociale.

Molte le tabelle, le indagini, con descrizioni di misure e indicazioni per la scelta di un ade­guato sistema di prelievo, di controlli di valori­limite di soglia, per i prodotti chimici più co­munemente usati, di leggi e regolamenti per i depuratori d'aria nel controllo dell'inquinamen­to, ma sempre partendo dalla prima realtà: la fabbrica e la sua organizzazione del lavoro. È il risultato di un lavoro minuzioso e serio di una laureata in chimica, J. M. Stellman e di un me­dico internista S.M. Daum. Essi non l'hanno redatto per l'uso separato dei clinici e dei tec­nici ma finalmente per «la fruizione partecipa­ta di coloro che tale medicina vivono sulla pro­pria pelle nell'usura quotidiana della propria sa­lute».

Questa concezione di una ricognizione nella cittadella sanitaria per cercare e scoprire la non fatalità della malattia ha guidato anche gli autori della Fabbrica del cancro. Essi occupan­dosi del cancro da lavoro che considerano «un momento nodale nell'ambito di un piano strate­gico di attacco ,al cancro dal momento che i tumori professionali sono i più facili da pre­venire», denunciano gli interessi prevalenti de­gli oncologi italiani che seguono del resto la ricerca americana, sul controllo della malattia piuttosto che su un risanamento dell'ambiente. «La rivista Tumori - essi citano - pubblicava, nel 1973, 40 contributi originali di ricercatori. Di questi 11 riguardavano problemi di chemio­terapia, 9 si riferivano agli aspetti immunolo­gici della malattia neoplastica, 8 a quelli pato­logici, 5 a problemi clinici vari e terapia diversa dalla chemioterapia, 2 a problemi di virologia, 1 a problemi di biochimica 1 tra rassegna ge­nerale e soltanto 3 in qualche modo connessi con problemi preventivi». Mentre «I tumori di origine ambientale rappresentano il 70% di tutti i tumori. Una parte di questi e principalmente quelli di natura professionale i cui agenti deter­minanti sono noti, potrebbero «essere preve­nuti». Questa deformazione della medicina e della scienza ha permesso il dramma dell'IPCA di Ciriè dove non solo i padroni, ma anche le autorità ed i ricercatori non sono intervenuti per informare i lavoratori esposti ai cancero­geni vescicali, dei rischi cui erano esposti.

Questo dramma è rivissuto in questo libro attraverso il racconto delle vittime (la percen­tuale dei decessi è stata altissima). Dice Be­nito Franza operaio all'IPCA dal 1951 che vi ha lavorato sei anni e sei mesi e che morirà di cancro alla vescica nel 1976: «Lavoravo in que­sto modo: con una paletta a manico corto pre­levavo il betanoftolo in polvere e caricavo un autoclave poi svuotavo l'autoclave immettendo la miscela bollente in appositi filtri sistemati all'aperto vicino ai reparti. Durante tutta l'ope­razione la miscela bollente veniva a contatto con l'aria e si sollevava una gran nube di va­pore velenoso che passava in tutti i reparti e veniva respirata da tutti gli operai che si sono tutti ammalati come me e continuano ad amma­larsi perché nessuno della fabbrica dice loro niente. Molti miei compagni sono già morti e altri hanno la mia stessa malattia, per noi ci sono poche speranze».

Drammatiche sono le testimonianze di altri operai, delle vedove, e gli atti processuali. «Ma al di là dell'aspetto giudiziario e dell'accerta­mento delle responsabilità - dicono gli Au­tori - i morti dell'IPCA saranno serviti a qual­cosa se la fabbrica può diventare un luogo di lavoro e di realizzazione della persona e non una trappola mortale. (...) Nella società in cui ha avuto luogo la storia dell'IPCA la medicina esclude dalle proprie competenze le modifica­zioni delle condizioni di vita e di lavoro (e quindi del modo di produrre) che stanno a monte delle condizioni di salute e di malattia». Per questo è utile oltre che drammatico leg­gere questo libro, per pubblicizzare il problema della salute per «superare il singolo caso cli­nico ed individuare le radici più profonde del fatto sanitario, il conflitto tra la salute dell'uomo ed una determinata organizzazione dell'ambiente in cui l'uomo vive e lavora».

GIULIANA LATTES

 

 

A. CANEVARO, Il bambino che non sarà padrone, Emme Ed:, Milano, 1975, pagg. 178, L. 2500.

 

Mito e favola sono i fili conduttori di una analisi pedagogica-istituzionale che consente all'Autore di illustrare una situazione educativa sempre più conflittuale e difficile.

La problematica della democrazia di base e della formazione della personalità umana attra­verso una didattica nuova sono state poste a base del lavoro intrapreso in Italia nel 1959 da alcuni educatori che, partiti dalle tecniche di Freinet, hanno riconquistato negli ultimi anni, dopo una Lettera ad una professoressa di Don Milani e dopo il movimento studentesco, una carica politica. Freinet muoveva da esigenze didattiche e pedagogiche al servizio di una edu­cazione che liberasse il bambino non solo dall'autoritarismo degli adulti e della scuola, ma dalla soggezione delle strutture di classe.

Questa impostazione viene qui accolta dal Canevaro che denuncia lo sfondo della società intera per cui non basta cambiare la scuola o gli educatori, per far sparire i bambini di giusti modi, i bambini dal tocco d'oro, i bambini Mida: la discriminazione secondo fa classe a cui ap­partengono che li avvia a diversi destini sociali. «Riportando il discorso all'educazione si può facilmente osservare come nel rapporto educa­tivo i giudizi e le valutazioni, le attese e le scelte didattico-educative, possano esser vitti­me di mistificazioni, cioè derivino i loro tratti caratteristici. dalla presunta naturalità di un mo­dello e non pongano in discussione, ma anzi convalidino il rapporto con la realtà fondato sulla proprietà».

Si scopre perciò che «i Mida» non sono il dover essere di tutti gli uomini; sono piuttosto «una convenzione» che è stata privilegiata e che va demistificata cercando alternative per ricostruire la storia di tutti gli uomini.

Proseguendo nella sua analisi, l'Autore affer­ma che potrà esserci un nuovo modo di leggere la storia dell'educazione, delle organizzazioni educative, modo che sia attento al rapporto fra sistema pedagogico e le sue periferie.

Un esempio di periferia pedagogica, l'Autore considera il lavoro di ricerca condotto da un gruppo di educatori francesi con bambini psi­cotici. Il gruppo guidato dal regista Seligmann ha tradotto in immagini un'esperienza che, par­tita dall'elaborazione e dallo studio di Maud Mannoni, costituisce una sfida all'idea di scuola che molti di noi abbiamo. «Il rilievo più sor­prendente degli spettatori - dice Canevaro - è che l'istituzione educativa e terapeutica per bambini psicotici risulta essere un meraviglioso esempio di centro educativo valido per bambini considerati normali». Non solo, ma alle imma­gini di vita nel centro si intrecciano immagini di ragazzi che vanno ciascuno per proprio conto fuori dal centro.

Così che il materassaio che accoglie il bam­bino che non parla, lo studio grafico in cui il ragazzo disegna; la cucina della mensa univer­sitaria, gli operai che devono comporre il pa­vimento; vengono coinvolti in un rapporto tra periferia e centro permettendo una osserva­zione sulla storia dell'educazione e l'elabora­zione di un progetto di rifondazione scientifica».

Ma questa operazione non può essere fatta una volta per tutte perché i messaggi sono sempre nuovi e diversi, né possiamo farla in solitudine perché abbiamo bisogno degli altri per leggere noi stessi nella realtà storica. Il passaggio dal sapere alla conoscenza è anche passaggio dal pregiudizio al giudizio che vuol dire prendere in esame le periferie pedagogiche.

Per periferie pedagogiche l'Autore vuole in­dicare una dimensione culturale più creativa, con maggiore possibilità di affrontare i linguag­gi, una sollecitazione a nuova scienza. È peri­feria pedagogica il mondo degli handicappati; è periferia pedagogica la corporeità che dimo­stra come la suddivisione centro-periferia non sia soltanto nell'organizzazione o nelle istitu­zioni, ma anche nei problemi, nei linguaggi, ne­gli strumenti. «Per questo è importante rivol­gere l'attenzione alla formazione permanente intesa come processo di recupero della 'propria storia della propria persona; come continuo chia­rimento del rapporto con l'altro e di cosa in questo rapporto viene fasciato fuori, cosa viene rimesso in movimento».

Così si conquista la storicità dell'educazione, la possibilità di conoscere e di cercare. L'edu­catore deve avere la possibilità di incontrare la sua storia e quella degli altri, calandosi nelle periferie pedagogiche per una educazione non discriminante ma cooperativa in contrapposi­zione all'educazione competitiva. La scuola di conseguenza si giustifica solo se rompe l'uni­verso egocentrico e dà voce a dimensioni cul­turali minoritarie e marginalizzate, proprio per essere scuola della parola da conquistare e non conferma delle differenze.

L'Autore conclude che l'inserimento dei bam­bini con handicap nella scuola di tutti favorirà appunto la cooperazione e le periferie pedago­giche, e sarà proprio questo bambino a liberare gli altri identificati come schiavi messaggeri che non saranno più «schiavi di un sapere da ripe­tere, ma ricercatori di una conoscenza da vi­vere».

JOLE MEO

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