Prospettive assistenziali, n. 36, ottobre-dicembre 1976

 

 

CGIL-CISL-UIL DI MILANO

PER L'INTEGRAZIONE SOCIALE DEGLI HANDICAPPATI

 

 

Premessa

La Federazione milanese CGIL-CISL-UIL ha presentato nel marzo 1976 alla Regione Lombardia il Progetto di Legge di iniziativa popolare per la riforma dei servizi socio-sanitari.

Il nucleo centrale di tale progetto di legge è rivolto al superamento della emarginazione e alla istituzione di una rete integrata di servizi polivalenti a livello del territorio e aperti a tutti gli stati di bisogno onde dare risposte globali in rapporto alla gestione della salute e ai pro­blemi socio-sanitari ed educativi.

Il progetto di legge individua, fra gli obiettivi generali, quello di «prevenire e rimuovere le cause di ordine psico-fisico ed economico-so­ciale che possono provocare condizioni di biso­gno socio-sanitario, o fenomeni di emarginazio­ne negli ambienti di vita, di studio, di lavoro...» indicando i modi per prevenire le cause di rico­vero e per la reintegrazione dei soggetti nel loro ambiente.

L'organizzazione sindacale è perciò impegna­ta in una battaglia contro l'emarginazione e per una società a misura delle esigenze umane es­sendo suo compito, insieme alle più vaste forze sociali, assumere un'azione di protagonismo per una politica socio-sanitaria diversa, che si muo­va in senso diametralmente opposto alla segre­gazione e favorisca la integrazione dei minorati nel tessuto sociale.

Il presente documento intende affermare que­sta esigenza e costituisce una linea di conti­nuità rispetto al documento del novembre 1975 sui Consultori e sulla medicina materno-infan­tile, e rispetto al documento sulla psichiatria.

 

La situazione attuale

Una qualificazione della presenza dei soggetti handicappati nella città e provincia di Milano non è agevole, mancando dati attendibili al ri­guardo; certo è che si tratta di un problema abbastanza diffuso. Lo confermano del resto i dati nazionali.

Le stesse cifre ufficiali, non sempre rilevano l'intera entità dei minorati, in quanto frequen­temente le famiglie tengono celata l'esistenza di questi soggetti, vittime come sono di un in­giusto complesso di inferiorità e colpa.

Anche noi, ammettiamolo, abbiamo assunto nei loro confronti un atteggiamento pietistico ed abbiamo pensato alla fatalità dei casi, alla loro ineluttabilità.

 

Tabella 1

Riportiamo qui le cifre denunciate nel lontano 1962 dal Congresso Italiano di Medicina Forense:

Insufficienti mentali (casi limite)                                 585.000

Insufficienti mentali (medi)                                         670.000

Insufficienti mentali (gravi)                                           15.000

Epilettici                                                                  160.000

Cerebropatici infantili (spastici)                                  100.000

Disadattati del carattere e del comportamento          1.500.000

Sordi                                                                    20/25.000

Sordastri                                                                 400.000

Ciechi                                                                   15/18.000

Ambliopi (difetto della vista)                                    15/16.000

In totale: 3 milioni di handicappati

 

Quasi sempre abbiamo ritenuto fin qui che l'handicap fosse l'effetto di una causa genetica: una tara ereditaria, il vizio dovuto alla consan­guineità.

Dobbiamo rivedere le nostre convinzioni e ciò che, in generale, la gente pensa degli handicap­pati e della loro genesi.

Insieme alle cause genetiche ne esistono al­tre, ben più rilevanti, di ordine sociale, che costituiscono la fonte principale dell'insorgenza delle varie forme di handicaps.

Esistono una pluralità di fattori che determi­nano, senza alcun dubbio, il rischio sociale al quale sono esposte quasi esclusivamente le categorie di persone, meno abbienti, più debo­li, sfruttate dall'attuale assetto sociale.

Tra questi ricordiamo: l'assenza pressoché totale della prevenzione, la mancanza di oppor­tuni rapporti sociali e di stimoli culturali, la scarsità dell'igiene negli ambienti di vita, il basso grado di istruzione dei genitori, il pendo­larismo, l'alimentazione insufficiente pre-parto e nella prima infanzia, la peculiarità delle con­dizioni lavorative e della carente tutela della donna in gravidanza, e più in generale il rap­porto tra condizione femminile e condizione di lavoro, come è stato ulteriormente confermato dalla indagine compiuta nei luoghi di lavoro in preparazione del Convegno sulla salute della lavoratrice del giugno 1975.

A comprovazione, sia pure parziale, di quan­to asseriamo a proposito della correlazione fra il lavoro in fabbrica e le minorazioni, citiamo qui un solo dato emerso dall'indagine da noi condotta fra un campione di donne lavoratrici (3.500 donne appartenenti a 55 luoghi diversi di lavoro), in preparazione del Convegno sulla salute della donna:

Nati malformati: ogni 10.000 bambini nati vivi, l'indice nazionale (fonte ISTAT 1971) è del 34,8; l'indice regionale della Lombardia è del 28,5; l'indice emerso dal campione di lavoratrici da noi interpellate col questionario individuale è del 166.

Inoltre, lo stesso campione di lavoratrici ha rivelato che in 82 casi su 10.000 nati vivi, ha avuto problemi medici alla nascita dei figli.

L'indagine ha messo altresì in rilievo la stret­ta correlazione fra il lavoro della donna con gli indici di abortività, di nati-mortalità e mortalità perinatale, che qui non intendiamo riprodurre in quanto con completezza di analisi tali dati ven­gono descritti nella pubblicazione degli Atti del Convegno.

Queste le ragioni principali che hanno impe­dito a molti individui - prevalentemente dei ceti più poveri, diseredati, subalterni - di ac­quisire quelle conoscenze e quei modi di com­portamento che caratterizzano la cosiddetta nor­ma dei rapporti sociali.

La realtà odierna è caratterizzata dall'affida­mento degli handicappati a strutture specifiche di tipo internato, seminternato o ambulatoriale, spesso lontane dai luoghi di residenza delle fa­miglie dei soggetti. Quale che sia il funziona­mento di queste istituzioni (manicomi, IPAB, ospizi, ecc.) la nota saliente pressoché comu­ne è rappresentata dall'assenza di prevenzione e dalla esclusione dal contesto sociale. I nume­rosi istituti esistenti (si parla di oltre 130 in provincia di Milano) costituiscono in sostanza aree di «parcheggio», in attesa che il soggetto che non ha completato il primo ciclo di studi, maturi l'età per essere internato.

Non sempre l'opinione pubblica, la colletti­vità, i lavoratori, conoscono le condizioni de­gradanti di questo vivere in istituto: l'assisten­za è limitata alla semplice custodia, e l'inter­vento terapeutico, anziché fare leva su oppor­tune forme di rieducazione, si riduce spesso all'uso indiscriminato degli psicofarmaci, quando non si esercita la contenzione vera e propria.

Tali contraddizioni sono spesso determinate da carenze strutturali: mancanza di personale, scarsa qualificazione, non coinvolgimento delle famiglie e della collettività. Ma esse dipendono essenzialmente da una radicata volontà politica che ha fatto delle «istituzioni chiuse» e dei manicomi, dei regimi di carattere carcerario, dove vengono relegate le persone che non si attengono ai modi di comportamento «norma­le», in particolare persone non produttive o comunque rifiutate da un tessuto socio-econo­mico che non trova spazio per il «diverso», in quanto i valori privilegiati della classe domi­nante sono basati sulla competitività. Da qui scaturisce la sostanza delle istituzioni segre­ganti: impalcature assistenziali a prevalente ca­rattere privato, che «lucrano» e si sostengono attraverso i finanziamenti pubblici. Ciò è il deri­vato del modo disorganico e autoritario dello Stato di affrontare il problema dei minorati, e della concreta assenza di una legislazione di sup­porto all'esigenza della integrazione sociale. L'handicap viene così vissuto e sofferto indivi­dualmente dai soggetti e dalle famiglie - dalle donne in ispecie sulle quali incombe l'onere dei compiti assistenziali familiari - non tro­vandosi ancora oggi a livello della società ade­guate soluzioni alternative e generalizzate espe­rienze di socializzazione di questo problema, pur così importante.

Al momento dell'età scolare, gli handicappati vengono collocati nelle scuole «speciali» e cioè in strutture ed istituti destinati apposita­mente a quei bambini che vengono così bollati come «diversi». Dovendosi denunciare nel con­tempo una estesa evasione dall'obbligo scola­stico anche derivato dalle difficoltà delle fami­glie, che non trovano l'adeguato sostegno per socializzare il loro dramma individuale.

Molti sostenitori dell'attuale sistema sociale affermano che le scuole «speciali» hanno il compito specifico di preparare i soggetti «dif­ficili» al loro inserimento nella collettività.

Questa posizione va contestata per molti mo­tivi, tra cui:

- il fatto che a 6 anni è ormai troppo tardi per avviare un trattamento socio-sanitario-educa­tivo volto a garantire il recupero alla norma­lità. Bisogna iniziare molto prima, attraverso la prevenzione neonatale e la rimozione del­le cause sociali;

- nella scuola speciale i soggetti sono privati di quel contributo di arricchimento rappre­sentato dalla convivenza con i bambini co­siddetti normali, accentuando viceversa la consapevolezza della diversità e dell'isola­mento;

- l'esperienza comprova che il destino, dopo la scuola speciale, è un'altra struttura spe­ciale (laboratorio protetto, ecc.) oppure l'i­stituzione chiusa (ospedali, manicomi, ecc.).

 

Le vie dell'integrazione sociale

Noi siamo profondamente convinti che le so­luzioni fin qui adottate non corrispondono ai criteri di una società giusta, che deve farsi cari­co dei bisogni complessivi della collettività.

Occorre quindi l'integrazione al posto dell'e­marginazione: ma secondo quali vie concettuali? La prima via è sicuramente quella che tocca ciascuno di noi, purché si guardi con occhi di­versi al fenomeno dei «diversi».

Dobbiamo farci promotori di una cultura nuo­va rispetto a quella oggi dominante: essa con­siste nell'abolire le barriere della nostra sup­posta superiorità.

Dobbiamo contribuire al recupero culturale dei «normali» nel senso che sia abbassata la soglia di accettabilità dei «subnormali», fintantoché, in una logica di egualitarismo sociale, il subnormale non sia per nulla considerato un «diverso».

Nel contempo dobbiamo muoverci per toglie­re il più velocemente possibile dalla situazione di reiezione nella quale si trovano, i portatori di handicaps, puntando sul progressivo moltipli­carsi dei loro rapporti nella convivenza, quale principale strumento della loro riabilitazione comportamentale.

Questo duplice movimento, «nostro e loro» rappresenta le vie dell'integrazione sociale degli «svantaggiati» che tali sono non per loro colpa. Bisogna ribaltare la logica degli interventi specifici nell'ambito delle strutture chiuse, af­frontando nella sua globalità la questione della salute psicofisica e di una educazione valida per la totalità degli individui. Ecco evidenziarsi quindi il ruolo fondamentale della prevenzione, accompagnata alla riabilitazione che presuppo­ne, evidentemente, anche l'uso di tecniche me­diche, ma è soprattutto un insieme di fattori sociali.

Non si vuole in sostanza attuare un intervento individuale sul soggetto, bensì un intervento sociale per superare mentalità e strutture emar­ginanti.

Per garantire l'efficacia di questa impostazio­ne, il problema non può quindi essere affidato ai soli tecnici, agli «addetti ai lavori», ma deve essere sentito e gestito dalla comunità. Il pri­mo passo è rappresentato dalla conoscenza del problema stesso e dalla formazione di una con­cezione socio-sanitaria che riconosca l'esigenza della integrazione.

Gli ambiti entro i quali realizzare questa inte­grazione sono: la famiglia, il quartiere, la scuo­la, l'ambiente di lavoro.

Pertanto la lotta contro l'emarginazione so­ciale degli handicappati va condotta affrontan­do questi aspetti generali:

a) una diversa organizzazione dei servizi socio-sanitari nel territorio, il che comporta - come previsto dal Progetto di legge della Fede­razione milanese - la eliminazione degli Enti inutili ed il passaggio delle competenze socio­sanitarie alle Regioni; la pubblicizzazione delle strutture e dei servizi esistenti; la istituzione di servizi alternativi all'attuale modo di fare as­sistenza, garantendo ad essi il più ampio con­trollo e gestione sociale.

Questi servizi nuovi, la lotta per la loro cre­scita, devono rappresentare, peraltro, un mo­mento della iniziativa più complessiva per im­porre a livello del Parlamento l'attuazione della riforma sanitaria e della riforma dell'assistenza;

b) l'acquisizione generalizzata della medi­cina preventiva, il che comporta una accentua­zione della iniziativa specifica nei confronti del­la medicina materno-infantile, con particolare riguardo all'attività dei consultori familiari con­cepiti in stretto raccordo con la medicina scola­stica; la medicina degli ambienti di lavoro: i presidi sanitari territoriali, ospedali, ecc.;

c) il superamento delle «scuole e degli istituti speciali», e l'inserimento degli handicap­pati nelle strutture educative normali (asili ni­do, scuole d'infanzia e dell'obbligo, ecc.); il che comporta una definizione dinamica e pro­gressista dei contenuti e dei metodi della scuo­la, una diversa disponibilità dei docenti e del personale tutto a recepire questo problema so­ciale, una modifica delle condizioni materiali in cui si svolge l'insegnamento, consentendo che i criteri di formazione permanente e di aggior­namento periodico degli educatori possano ga­rantire una preparazione aperta al sociale e for­nire almeno le conoscenze fondamentali riguar­danti i minori in difficoltà di sviluppo per qual­siasi motivo.

Tutto questo non può, ovviamente, cadere nel vuoto operativo ed alternativo.

Bisogna prevedere altre cose, compiere scel­te diverse.

Senza improvvisazioni o facili spontaneismi, occorre provvedere a che la scuola dell'obbligo sia aperta a tutti i soggetti e quindi anche ai portatori di deficit di ogni ordine e grado.

Certo è che nei confronti di questi ultimi e per l'intera scolaresca e per l'evoluzione peda­gogica dell'assetto scolastico, si richiedono sia l'abolizione delle cosiddette barriere architet­toniche, sia gli insegnanti e le attrezzature in appoggio.

Non avrebbe alcun senso che l'handicappato entri a malapena nell'edificio dei normali per poi giacere, ancora una volta, in atteggiamento custodialistico.

D'altro canto, non avrebbe senso che l'inse­gnante in appoggio sia utilizzato esclusivamente per proteggere i normali dalle eventuali aggres­sioni perpetrate dal subnormale.

Le équipes medico-psico-pedagogiche oggi o­peranti nelle «scuole speciali» non avranno in quest'ottica più ragion d'essere e gli opera­tori dovranno lavorare nel territorio in integra­zione stretta con gli altri servizi e strutture ivi presenti.

Il problema dell'inserimento nella scuola, pe­raltro, non è più un patrimonio di pochi ma fa parte di una più generale maturazione oggi in atto. Esso postula e sollecita il tempo pieno nella scuola come aspetto importante della so­cializzazione.

Protagonisti di questa battaglia devono essere in primo piano genitori, educatori, operatori so­cio-sanitari, considerando che si tratta del primo passo per giungere poi all'inserimento degli han­dicappati nel mondo del lavoro e nella vita sociale.

Se si riesce a porre queste condizioni è fat­tibile avviare una politica di inserimento degli handicappati non più in modo episodico e vo­lontaristico bensì programmato, superando re­sistenze politiche abbastanza evidenti.

Si veda quindi, a proposito della integrazione, il parere del Ministero della Pubblica Istruzione che ha emanato una circolare con disposizioni macchinose e burocratiche che servono a rea­lizzare un ulteriore ostacolo ad un vero inseri­mento, attraverso la istituzione di una «scuola seminormale o semispeciale» chiamata scuola per l'integrazione.

A questa individuabile ostilità alla integrazio­ne anche se dichiarata in modo forse un po' «equivoco» si è aggiunta, nell'aprile del 1976 la pubblicazione del Decreto n. 970 che conva­lida apertamente e con fondamenti giuridici ben più saldi la scuola speciale.

Il traguardo dell'inserimento viene così allon­tanato ancora di un gradino dovendo l'handicap­pato, dalla scuola speciale, passare alla scuola per l'integrazione e da questa alla scuola nor­male. La stessa scuola per l'integrazione, con­cepita come scuola non di quartiere, ma come scuola di distretto, perpetua tutti i danni e le caratteristiche della scuola speciale.

Integrazione non significa soltanto superamen­to della diversità ambientale e strutturale, ma soprattutto uguale ambito operativo e comuni­tà di intenti fra tutti coloro che operano all'in­terno della scuola e nelle strutture territoriali senza distinzione alcuna (logopedista, psicomo­tricista, psicologo, neuropsichiatra, pedagogi­sta, ecc.).

d) La situazione appare particolarmente a­cuta in rapporto alle esigenze degli handicap­pati cosiddetti «gravi», non dotati cioè di un minimo di autonomia e di potenzialità di re­cupero.

Il problema attualmente viene risolto, per lo più, con la istituzione di centri per «gravi». Noi riteniamo viceversa che la disponibilità nel quartiere, nel territorio, dei servizi sociali da noi indicati - integrati dalla assistenza domici­liare infermieristica ecc. a favore di tutti coloro che ne hanno necessità - possa gradualmente eliminare il bisogno di queste strutture esclu­denti. Anche per questi soggetti va prevista una possibilità di socializzazione, pur se limitata, scartando ipotesi di interventi esclusivamente tecnici.

Gli esistenti centri per «gravi» dovranno tra­sformarsi anch'essi in unità polivalenti di riabi­litazione, e in servizi diurni con il compito di provvedere alla cura e riabilitazione per favo­rire il massimo di recupero.

I servizi diurni e le comunità-alloggio sono le strutture intermedie favorenti, in questo mo­mento storico, il processo di integrazione.

I servizi diurni intesi quale strumenti di rap­porto riabilitante con la scuola dei normali (di primo livello e per la professionale) e con il mondo del lavoro.

Le comunità-alloggio intese quale presidio transitorio, per alcuni casi, di soggetti tolti dal­le istituzioni totali e che si vogliono inviare in forma definitiva alla famiglia e, per altri casi, quale presidio cui ricorrere in carenza momen­tanea della famiglia o in assenza del benché minimo riferimento parentale.

Dobbiamo avere coscienza che i centri diur­ni e le comunità-alloggio - se intesi quali parti integranti del complesso dei servizi sociali nel territorio - consentono il processo di deistitu­zionalizzazione per gli internati ed il punto di appoggio più serio per le famiglie che pur non essendo ricorse all'internamento dei subnorma­li, li hanno mantenuti nell'occultamento dome­stico.

e) La formazione professionale deve esse­re attuata nelle strutture normali garantendo in tal caso tutti i supporti tecnici e logistici necessari. Esperienze in atto hanno dimostrato la validità per tali scelte. La legge regionale n. 93 - che afferma il principio dell'inserimen­to del disabile nelle strutture formative norma­li - deve essere pienamente applicata e cor­rettamente utilizzata sulla base delle realtà ter­ritoriali con riferimento ai bisogni psicofisici dei soggetti. La formazione professionale deve considerare sia le potenzialità operative dei sog­getti handicappati, sia la realtà produttiva della zona in cui si inserisce la formazione.

Esperienze di corsi avviati da enti locali par­tono proprio dall'analisi della realtà produttiva presente nel territorio.

Si ribadisce la necessità che tutte le iniziative professionalizzanti per handicappati vengano ge­stite dall'Ente locale poiché è soltanto l'Ente locale che può inserire il problema della formazione professionale all'interno di una politica globale dei servizi territoriali.

Le difficoltà che presenta il problema della formazione degli handicappati impone anche la sperimentazione di nuovi modelli di formazione professionale. Anche qui, sono di esempio al­cuni esperimenti attuati da Enti locali. Si cerca di superare la frattura tra momento scolastico e momento lavorativo tentando di attuare parte della formazione direttamente sul luogo reale di lavoro perché gli allievi possano sperimentare congiuntamente professionalità e mansioni.

Tali iniziative, per ora limitate ad alcune spo­radiche esperienze, sono state realizzate coin­volgendo le forze sindacali e imprenditoriali, gli uffici di collocamento, l'ispettorato, l'INAIL. Se tali esperienze verranno generalizzate e poten­ziate, la formazione professionale non rischierà di presentarsi come un parcheggio, ma come un effettivo strumento per l'inserimento nel mon­do lavorativo.

f) La formazione professionale avrà come obiettivo l'inserimento lavorativo attraverso la preparazione congiunta del soggetto e dell'am­biente perché la collocazione nel luogo di la­voro non si risolva in semplice accettazione o tolleranza.

Concrete prospettive di occupazione vanno quindi ricercate sviluppando un'azione di sensi­bilizzazione a livello delle forze sindacali ed un'azione di pressione e di stimolo nei confron­ti delle forze imprenditoriali, richiedendo che la collocazione dei soggetti handicappati nei luo­ghi di lavoro consideri le possibilità massime per l'esplicazione della personalità. Perciò all'interno di questa ottica non si ravvisa la ne­cessità di prendere in considerazione il proble­ma di livelli retributivi diversificati.

Si tratta di superare i tradizionali concetti del rendimento, dell'efficientismo, battendosi con ciò anche per una organizzazione del lavoro a dimensione più umana per tutti; per la gestio­ne della salute così compromessa all'interno del­la società capitalistica; per dare risposte al problema complessivo della occupazione attra­verso soluzioni capaci di superare l'attuale crisi economica valorizzando tutte le risorse umane e produttive, emarginati ed handicappati com­presi.

Una importante conquista di principio è stata al riguardo acquisita con il recente rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, laddo­ve si sancisce l'esigenza del recupero degli individui handicappati nel processo lavorativo e nella vita collettiva. Questa conquista va con­cretamente attuata e gestita nelle aziende metalmeccaniche, con un impegno diretto dei Consigli di Fabbrica.

 

Dal contratto nazionale di lavoro dei metalmec­canici, art. 3

«Le aziende considereranno con la maggiore attenzione, nell'ambito delle proprie possibilità tecnico-organizzative, il problema dell'inserimen­to degli invalidi e degli handicappati nelle pro­prie strutture, in funzione della capacità lavo­rativa delle varie categorie degli stessi, anche su segnalazione e partecipazione delle rappre­sentanze sindacali aziendali.

Per quanto riguarda l'adeguatezza delle con­dizioni di lavoro alle capacità lavorative di que­sta speciale categoria di invalidi, le parti sti­pulanti, in considerazione del problema sociale che essi rappresentano, dichiarano che si ado­pereranno congiuntamente per la realizzazione delle iniziative e dei provvedimenti necessari per dare attuazione ai "sistemi di lavoro protet­to" di cui all'art. 25 della legge 30 marzo 1971 n. 118. In tale spirito convengono di intervenire congiuntamente presso i competenti Ministeri del Lavoro e della Sanità affinché il problema venga considerato ed affrontato con la maggiore sensibilità».

La stessa Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) nel convocare nel giugno di que­st'anno la Conferenza Internazionale sull'Occu­pazione, ha sollevato i temi dell'inserimento nel­la vita lavorativa delle persone che presentano menomazioni psicofisiche.

Spettano quindi in questo campo al Sinda­cato compiti specifici.

Ricordiamo che l'inserimento degli handicap­pati nel mondo del lavoro può attualmente av­venire attraverso le seguenti modalità:

a) utilizzando le commissioni di cui all'art. 33 dello Statuto dei Lavoratori (si prevede la costituzione obbligatoria di dette commissioni qualora ne facciano richiesta le organizzazioni sindacali più rappresentative) ;

b) utilizzando la legge 2-4-1968 n. 482 sul­le assunzioni obbligatorie che prevede la costi­tuzione di commissioni provinciali per il collo­camento dei lavoratori invalidi ed assimilati; per usufruire di tale servizio, l'handicappato de­ve avere precedentemente ottenuto la «qualifi­ca» di invalido civile dall'apposita commissione sanitaria prevista dalla legge 30-3-1971 n. 118.

Questi strumenti che dovrebbero permettere al sindacato un controllo sul servizio del collo­camento, non sono stati pienamente sfruttati dal movimento dei lavoratori.

Bisognerebbe, pertanto affermare il principio che anche nelle commissioni sanitarie di cui alla legge n. 118, deve essere presente la rap­presentanza delle organizzazioni sindacali dei la­voratori.

Nelle stesse commissioni del collocamento degli invalidi, il controllo dovrebbe essere ef­fettuato dai sindacati e non come ora avviene, dalle associazioni degli invalidi (ONIC, ANMIL, ANMIC).

Va, infine, affrontato un problema fondamen­tale che riguarda il servizio del collocamento e la sua gestione. Finché, tale servizio sarà ge­stito dalle attuali strutture: gli Uffici Provinciali del Lavoro e le Sezioni di collocamento, con i criteri burocratici e centralizzati esistenti nell'apparato dello Stato, un effettivo controllo sul collocamento non potrà mai essere attuato.

Demandare, quindi, la gestione di tale servi­zio alle autonomie locali, dovrebbe essere un ulteriore obiettivo da raggiungere, così come va valutata la opportunità di aggiornare la legi­slazione specifica sul collocamento.

Il controllo dei C.d.F. sull'adeguato inserimen­to degli handicappati nei luoghi di lavoro appa­re comunque insostituibile, e può essere effi­cace per impedire alle direzioni aziendali di porre in atto i diversi artifici tendenti alla estro­missione di tali soggetti (assunzioni in prova seguite poi da licenziamento prima del termine del periodo di prova stesso, pressioni sull'handi­cappato perché dia le dimissioni, emarginazio­ne dello stesso dal ciclo produttivo, copertura dei posti riservati agli invalidi con lavoratori tali ufficialmente, ma di fatto efficientissimi, ecc.); così come per impedire che talune lavo­razioni possano uscire dalla fabbrica per essere commissionate ad handicappati di istituti pri­vati e religiosi in condizioni di vergognoso sfrut­tamento.

Occorre anche che si crei un rapporto di stretta collaborazione fra C.d.F. e Commissioni locali di collocamento, al fine del migliore inse­rimento selettivo degli handicappati nelle a­ziende.

Vanno valorizzate quindi le sempre più este­se esperienze di inserimento lavorativo avviate con successo in alcune regioni, e nella stessa Lombardia, pervenendo al riguardo a necessarie intese e a specifici accordi tra organizzazione sindacale, organizzazioni imprenditoriali priva­te e pubbliche e Enti Locali.

Alcune ipotesi, relativamente all'inserimento lavorativo vanno meglio approfondite, a nostro avviso, a livello delle istanze sindacali (CUZ, C.d.F., ecc.). Si tratta di discutere attorno a queste possibilità:

a) l'assicurazione previdenziale normale re­lativamente alla retribuzione, con una integra­zione relativamente agli oneri sociali che po­trebbe essere a carico della Regione o del Comune.

Non si dimentichi che gli Enti Locali infatti spendono cifre ben più elevate se effettuano il ricovero in istituto e con sussidi di assistenza;

b) assunzione normale con retribuzione nor­male meno la quota della pensione che già l'han­dicappato riceve se considerato invalido civile;

c) eventuale possibilità, per le aziende ar­tigiane, di utilizzare la legge sul l'apprendistato per assumere parte di questi soggetti come ap­prendisti.

 

I compiti del sindacato

Per operare seriamente sul terreno del supe­ramento della emarginazione occorre un pro­gramma di intervento a breve e medio termi­ne, che abbia come presupposti chiari la quan­tità e qualità dei bisogni esistenti nel territorio, che determini una politica omogenea degli Enti Locali capace di superare le molte disfunzioni oggi esistenti.

La Regione dovrà quindi sollecitamente legi­ferare alla luce della impostazione del nostro progetto di legge; e farsi carico della program­mazione delle strutture volte all'integrazione.

In questo ambito si richiede anche una ve­rifica circa l'attività dei segretariati per disabili predisposti in attuazione della legge 37, preve­dendone un più corretto ed idoneo utilizzo, in stretta connessione con le strutture già esisten­ti sul territorio.

Gli Enti Locali ed i loro Consigli di decen­tramento, i Consorzi fra Comuni, i Comitati Sa­nitari di Zona dovranno avviare una indagine per conoscere e pubblicizzare l'entità degli isti­tuti privati e pubblici e delle strutture che ospi­tano handicappati; il numero degli ospiti e re­lative classi di età; il costo delle rette, la pre­senza nei luoghi di lavoro, ecc.

Gli Enti Locali, come provvedimento iniziale, dovranno anche valutare l'opportunità di non rinnovare le convenzioni con le istituzioni «chiu­se» e di non riconoscere i «centri speciali» allo scopo di dirottare i mezzi economici che oggi vengono frantumati in un criterio assisten­ziale superato, in direzione dell'avvio di strut­ture e di esperienze alternative nel territorio, e di favorire il massimo di mantenimento dei sog­getti nelle comunità originarie e nelle famiglie, adottando gli opportuni interventi economico­educativi di sostegno.

La Federazione milanese CGIL-CISL-UIL indi­ca la necessità di aprire su questi temi un ampio dibattito fra le sue istanze - Consigli di Fabbrica, CUZ, Sindacati di categoria degli operatori socio-unitari - e fra le forze sociali nel territorio, allo scopo di socializzare il pro­blema e di assumere su esso iniziative arti­colate.

Importante appare il ruolo dei Consigli di Fabbrica per determinare possibili esperienze di inserimento lavorativo nel senso di individuare le aree professionali ricettive che risultino cioè compatibili con le minorazioni dei soggetti e che peraltro esaltino le loro potenzialità pro­fessionali.

Allo scopo di evitare il fallimento dell'espe­rienza lavorativa dell'handicappato, si renderan­no necessari degli incontri fra tutti i lavoratori dell'area professionale considerata (reparto o ufficio) o dell'intera fabbrica, specie se trattasi di luoghi di lavoro di modesta entità occupativa.

Essi devono promuovere il problema coinvol­gendo tutti i Consigli di Fabbrica e principal­mente quelli in cui la socializzazione dell'espe­rienza risulti emblematica (fabbriche di rilevan­za politica nella zona), senza escludere, ovvia­mente, le occupazioni artigianali e nell'ambito del pubblico impiego.

Le Commissioni Sanitarie sindacali quali ar­ticolazioni dei CUZ, e formatesi con la esperien­za della medicina preventiva del lavoro e dei Consultori, dovranno costituire le istanze pro­mozionali di questi problemi e devono perciò essere rappresentative oltreché dei lavoratori delle fabbriche, anche dei lavoratori dell'assi­stenza, della sanità, della scuola.

Importante diventa il ruolo dei CUZ per i ne­cessari collegamenti e le opportune intese con i Comuni ed i loro Consorzi, con i CSZ, con gli Uffici del lavoro, per porre in termini di confron­to e di soluzione i problemi ed i modi relativi al reinserimento.

Deve essere inoltre continuo ed unitario il collegamento fra le istanze sindacali che devo­no più direttamente occuparsi dei vari problemi qui evidenziati e che solo agendo di concreto possono far maturare le soluzioni proposte (Sin­dacati Enti Locali e Ospedalieri, Sindacati Scuo­la e Scuola dei pubblici dipendenti).

In tutta l'iniziativa di dibattito, di sensibiliz­zazione, di promozione di attività, bisognerà in­fine favorire il rapporto unitario fra lavoratori, operatori socio-sanitari e scolastici, famiglie, per superare l'isolamento e la settorializzazio­ne. Bisognerà anche coinvolgere in una visione di deistituzionalizzazione e di confronto costrut­tivo le diverse associazioni che si occupano degli handicappati (ANFFAS, AIAS, ecc.) e che devono vedere nel sindacato non una contropar­te ma una forza che può favorire l'integrazione di tutte le volontà tese a far avanzare unitaria­mente gli obiettivi qui indicati.

 

Milano, 20 settembre 1976

 

www.fondazionepromozionesociale.it