Prospettive assistenziali, n. 34, aprile-giugno 1976
ATTUALITÀ
SANDRA ROCCHI
Introdurre il discorso della
comunità alloggio, strumento alternativo al tradizionale istituto, significa
riflettere su un tipo di intervento chiaramente volto
a superare l'ottica dell'ormai scontata politica assistenziale.
Il discorso della comunità alloggio
non può infatti essere disgiunto da quello più ampio dei servizi sociali di
quartiere e dall'individuazione dell'unità locale come unica formula di
ristrutturazione a livello territoriale di tali servizi.
Non significa quindi razionalizzare
strutture e interventi all'interno degli istituti esistenti; non si chiede
all'istituto di rivedere la propria struttura, modellandola su nuove esigenze
meno alienanti, di sostituire le camerate e i dormitori con piccoli
appartamenti, pensando di ricreare una dimensione più familiare; ma si nega
l'istituto in quanto tale perché inidoneo a rispondere alle
reali esigenze di chi ne dovrebbe usufruire.
Sociologia, psicologia, psichiatria hanno ormai chiaramente evidenziato con una estesissima e
profonda letteratura sull'argomento, l'importanza che per la salute mentale
dell'individuo e lo sviluppo della sua personalità,
ha il vivere e crescere in un ambiente affettivamente ricco e in grado di
consentire lo svolgersi di legami duraturi e validi.
Tali scienze hanno ugualmente
dimostrato come la vita in istituto non possa assolutamente porre le premesse
a tali esigenze, ma rischi piuttosto di fare
estinguere od atrofizzare le funzioni di base della personalità, che viene in
tal modo ad acquistare sempre più decisamente modalità di reazione proprie di
una dinamica istituzionale patogena.
Più dell'ambiente familiare in senso
stretto si pone in luce l'importanza di un ambiente stimolante: ambienti
comunitari in cui la famiglia tradizionale è scomparsa, a volte possono essere
più utili di alcune famiglie chiuse.
Margaret Mead,
nota antropologa, afferma che «gli attuali istituti per
l'infanzia, messi a confronto con i sistemi dei primitivi, non sono altro che
un mezza meno radicale per sbarazzarsi, in una forma ammessa, dei
bambini che nessuno vuole». E riferendosi successivamente
ad una ricerca di Spiro sui bambini nei kibbutz, sottolinea la capacità
intellettuale e l'autonomia dei comportamento di chi vive in un ambiente stimolante
anche se questo non ha più alcun punto di contatto con la famiglia
tradizionale.
Ma quali sono i parametri che
definiscono un ambiente stimolante e per ciò stesso
educativo? Un momento di dinamica vitale da cui non si
può prescindere per giungere a quella capacità di integrazione della
personalità, che permette la produzione di nuovi modelli, certamente è la
comunicazione; così la creatività come momento di formulazione di tali modelli
e la partecipazione al sociale come momento di verifica e d'esperienza.
È noto invece quanto la struttura
istituzionale porti piuttosto alla progressiva diminuzione degli stimoli
esterni. Diminuzione che si trasforma spesso in incapacità di
vivere la «comunicazione» anche con le persone che vivono all'interno
dell'istituzione. In tal modo il coinvolgimento emotivo diventa sempre
più labile, allontanando ogni stimolo di creatività fino a quell'isolamento
sempre più emarginante ed alienante che dall'angoscia e la depressione sfocia
nell'automatismo, nell'adeguamento stereotipo alle norme, all'anaffettività.
È chiaro quindi come la ricerca di
un modello alternativo debba partire dalla realtà di vita esistente
nell'istituzione per negarla, rimuovendone alla radice i meccanismi di emarginazione in essa presenti.
Pertanto, se l'istituto significa
diminuzione delle possibilità di comunicazione, vuoi per l'allontanamento
dalla famiglia che dall'ambiente e dalla zona d'origine, alternativo è
certamente un intervento in quartiere teso all'inserimento dei ragazzi in
tutte le sue strutture: tessuto sociale di
provenienza, scuola, famiglia.
Di questo intervento,
se indispensabile è definire e chiarire subito gli obiettivi politici, è
ugualmente irrimandabile approfondire i contenuti psico-pedagogici
e il connesso problema della preparazione del personale.
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È pertanto opportuno, senza perdere
di vista la necessità degli interventi immediati - oggi principalmente attuati
dall'iniziativa di operatori volontari - inquadrare il
servizio delle Comunità Alloggio nell'ambito di un'iniziativa dell'ente pubblico,
cui sia ricollegabile direttamente ogni responsabilità politica in ordine al
tipo di gestione da esso attuato.
Questo oltre ad inserirsi nella più ampia politica che vede nella costituzione
dell'Unità SocioSanitaria l'unica possibilità di superare l'attuale gerarchizzazione e burocratizzazione degli interventi,
privilegiando col decentramento la responsabilità dei cittadini, evita anche
il pericolo di una eccessiva differenziazione tra le varie Comunità Alloggio
in ordine al tipo d'intervento educativo, ai soggetti cui si rivolge, alla
qualifica degli educatori.
Questo significa anche ricondurre il
problema del minore, il «sintomo» che sta alla base della sua stessa
emarginazione, nel tessuto sociale d'origine,
responsabilizzando, intorno a questo, i cittadini e le forze del quartiere che,
in quel «sintomo», potranno riconoscere la loro potenziale emarginazione.
Questa presa di coscienza riveste
un'enorme importanza politica perché è il tentativo di spiegare sempre meglio
che se esiste un certo tipo di emarginazione è perché
esiste un certo tipo di produzione e che la risposta all'emarginazione, dovuta
alla mancanza dei servizi sociali, deve essere anch'essa «politica»: una
risposta di classe. Dalle motivazioni politiche che, alle esistenti strutture di intervento (istituti per minori, case di ricoveri per
anziani, ospedali psichiatrici), fanno privilegiare il servizio delle comunità
alloggio, non è difficile scendere alle motivazioni psicologiche ed
educative.
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La comunità alloggio
si presenta come un piccolo gruppo, costituita cioè in base a quei criteri di
composizione, ritenuti ottimali, secondo le esperienze di dinamica dei gruppi
già attuate all'estero e in Italia.
Come struttura
si identifica così in un alloggia comune in cui vivono in permanenza un gruppo
di minori (da quattro a otto) e degli adulti professionalmente preparati nel
loro compito educativo.
La collocazione
di zona di tali alloggi evita la necessità di quello sradicamento, proprio
della istituzionalizzazione, che determina, a livello psicologico, conseguenze
estremamente negative. Conseguenze ricollegabili al venir meno degli abituali
riferimenti spaziali, temporali e culturali che configurano li mondo, e quindi «la
sicurezza» di ogni persona.
Entrando nello specifico della
psicologia dell'età evolutiva (è delle comunità alloggio riferite a quest'età
che vogliamo occuparci in quest'articolo) e quindi
dello strutturarsi della personalità del minore, individueremo più chiaramente
i condizionamenti dell'istituto e le potenzialità liberatorie della comunità
alloggio.
Proponendo la comunità alloggio come alternativa all'istituzionalizzazione non
dimentichiamo certamente la priorità da darsi, in ogni situazione ed in ogni
età, al ricorso all'adozione speciale ogni qual volta questa sia attuabile.
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Seguendo uno schema ormai confermato
dai vari studi sulla psicologia dell'età evolutiva, possiamo individuare i
bisogni essenziali del bambino, sinteticamente, nella necessità di intense soddisfazioni affettive, di esperienza di sicurezza,
di un controllo moderato - una presenza «educante» -, della compagnia di altri
bambini.
Il mondo interiore, emotivo e
fantastico del bambino piccolo è tanto intenso quanto incontrollabile: la sua
capacità di difesa e di controllo delle fantasie cariche d'ansia e di timore è
pressoché inesistente e si costituisce solo nella misura in cui la
gratificazione affettiva, il senso di accoglimento e
di accettazione è tale da fargli superare l'ipotesi pessimistica che egli ha di
se stesso.
Un bambino che non si sente amato -
e in un rapporto strettamente personale e «individualizzato» - crede di essere cattivo e spesso orienta le sue energie verso
atteggiamenti aggressivi e distruttivi: di sé e degli altri.
Non sono poche le statistiche che
mettono in correlazione la devianza con l'istituzionalizzazione.
Ugualmente vediamo che la sicurezza
viene a strutturarsi nella psiche del bambino solo
quando egli è in grado di decolpevolizzarsi: e solo
così si interrompe quel circolo vizioso fatto di aggressività, di senso di
colpa, di distruzione e di autopunizione per orientarsi verso condotte costruttive
e di collaborazione: il bambino da «ruolo» diventa «persona» - seppur
potenziale.
Non è certo la disciplina della vita
d'istituto che può portare il bambino a liberare le energie della sua
personalità perché non è tanto importante lo svolgersi di abitudini
regolari nell'arco della sua giornata, quanto l'esistenza di un rapporto
stabile con alcune persone. Non infermiere, educatori che ruotano, ma delle
figure parentali fisse in grado di presentarsi come quel modello di «controllo
moderato» e di «presenza educante» cui prima ci riferivamo.
Controllo moderato, per cui la disciplina diventa
qualcosa che si sceglie, e non qualcosa che è imposto dalla rigidità di alcune
regole. Presenza educante che giocherà un'importante funzione nel processo di identificazione che il minore dovrà compiere per
camminare verso una maturità più piena.
La possibilità di stare in compagnia
con altri bambini è costantemente assicurata dalla vita in istituto; ma dagli
studi sulla dinamica di gruppo si deduce facilmente
come anche questa necessità vitale del bambino piccolo non si realizzi in modo
positivo all'interno di un istituto.
Vediamo infatti
che quanto più piccolo è un bambino tanto meno è in grado di instaurare un
rapporto emotivo con troppi coetanei; e che tale situazione lo porta
all'angoscia, al sentirsi «anonimo» e sopraffatto: molto lontano quindi dalla
socializzazione. Questa, perché si realizzi, deve essere inoltre sollecitata in
un ambiente estremamente libero che garantisca al
bambino la sua piena possibilità di esprimersi al di là di ogni schema o regola
prefissata.
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* *
I bisogni essenziali, relativi alle
prime tappe di maturazione della personalità, ci portano chiaramente ad
evidenziare quanto l'istituto per, la sua struttura, per l'anonimato
dei rapporti che si instaurano è più facilmente causa
di «deviazioni» (sulle cui tipologie si potrebbe sviluppare un amplissimo
discorso) che di formazione educativa.
Perché la comunità alloggio non sia alternativa all'istituto solo per le
differenti dimensioni strutturali e per la sua collocazione in zona - come
servizio di quartiere - ma anche per le sue dinamiche educative, occorre che
gli educatori siano preparati a vivere con consapevolezza ed esperienza il loro
rapporto con i minori. Certamente non facile, se ci ricolleghiamo al rapido
esame tracciato dei bisogni essenziali per la crescita di una personalità sana,
e pensiamo viceversa quanto questi siano stati
disattesi nei confronti di quei soggetti che vengono a trovarsi nella comunità
alloggio.
Qualunque sia la causa che porta il minore in tale comunità, certamente ha determinato
in lui situazioni di deprivazione e di frustrazione, di gravi conflitti.
E il suo modo di esprimersi sarà il
più diverso, a seconda dell'età e della gravità delle
carenze subite.
L'opera rieducativa
della comunità alloggio inizia sempre col passo primo ed indispensabile dei l'accettazione piena, dell'accoglimento totale del
minore e di quanto questi vuol comunicare.
Non sempre l'approccio di
comunicazione, che il minore tenta, è il più gratificante per l'educatore che deve avere quindi la capacità, per preparazione
professionale e maturità propria, di saper accettare e dirigere positivamente anche
lunghe fasi di opposizione, evitando il pericolo di una rottura psicologica fra
il presente e il passato del soggetto, che metterebbe molto in forse ogni
possibilità di guarigione e di recupero.
Il minore nella misura in cui ha
vissuto uno stato di angoscia, nella sua famiglia
d'origine o in una precedente collocazione istituzionale, si crea tutta una
barriera di difese inconsce che lo proteggano da nuove frustrazioni. Ed è
diffuso l'atteggiamento di «mettere alla prova» i nuovi educatori con comportamenti
ostili, di rifiuto, od aggressivi per raggiungere in questo modo la certezza di
essere veramente accettati, di sentire soprattutto
accettata quella parte di sé «cattiva», ostacolo all'instaurarsi di ogni
valido rapporto.
La capacità di ascolto
degli educatori, la loro «sicurezza» educativa che non li porrà mai come
quelle figure «buone» in grado di cancellare quelle «cattive» precedentemente
incontrate e, a volte, anche interiorizzate dal minore, è determinante perché
questi si liberi da ogni atteggiamento di cautela, di circospezione: dal
timore stesso di amare.
È determinante
anche perché il processo di identificazione non sia vissuto come conflitto tra
i modelli vecchi da scartare (con tutti i sensi di colpa conseguenti), e quelli
nuovi che gli si presentano più gratificanti, ma come una rielaborazione
progressiva dei suoi vissuti, quelli presenti e quelli passati, in cui
lentamente possa riemergere la capacità di «sentirsi buono» - perché amato -
e così la fiducia e la possibilità di intrecciare rapporti costruttivi e di
collaborazione.
È questo l'inizio della strada verso
la ricerca di una identità, che sarà tanto più decisa
e strutturata, quanto più continuerà ad elaborarsi all'interno di un rapporto
in cui il minore si sentirà sempre soggetto e persona.
In questa fase incombe ancora su di
lui il pericolo, per l'impreparazione degli
educatori, di essere oggettivato, e quindi negato come persona, e visto solo
come «ruolo», come «quel minore» che gli educatori vorrebbero che egli fosse,
riproponendogli così ancora una volta i confini, anche se strutturalmente più
limitati, di un'istituzione totalizzante.
Di qui l'importanza vitale, per i
minori e per gli educatori, che la comunità sia inserita nel quartiere e le sia
pienamente garantita la possibilità di rapporti costruttivi e positivi nel sociale circostante.
L'instaurarsi anche di un rapporto
terapeutico valido all'interno della comunità alloggio, avrebbe breve durata
se questa si presentasse come un microcosmo estraneo alla realtà, guardata come
un ghetto di stigmatizzati, senza la possibilità per i minori di vivere tutto
l'aspetto socializzante di quei momenti di confronto, di dialogo, di
solidarietà con altri coetanei e gruppi d'amici.
Ugualmente anche gli educatori più
preparati non potrebbero svolgere pienamente la loro opera educativa senza i
necessari supporti specialistici per i casi più difficili (per esempio la
psicoterapia); così senza la possibilità di una frequente verifica di quanto
il loro impegno educativo comporta.
Verifica che se richiede l'esistenza
di un'équipe di servizio sociale e psicologico nella
zona, necessita anche della partecipazione solidale di
tutta la gente del quartiere.
Pubblichiamo
due documenti di Comunità alloggio di Milano: nate da una comune esperienza
quella di Via Castillia, dove la comunità si è trovata
a vivere in condizione di precarietà per la sua impostazione stessa
volontaristica e di beneficenza, esse hanno poi elaborato nuovi elementi per
uscire dall'improvvisazione, e creare nuovi rapporti con l'ente locale e con
tutte le forze politiche del quartiere.
I
La necessità di avere delle
«comunità» è nata per sopperire ai bisogni di alcuni
ragazzi usciti dal carcere minorile di Milano «Cesare Beccaria».
I bisogni erano sostanzialmente
quelli di avere un tetto ed un ambiente rassicurante.
Abbiamo dato avvio così, circa due
anni fa, alla prima esperienza in via De Castillia; nella comunità vivevano inizialmente quattro
ragazzi con due educatori, uno dei quali lasciò la medesima per trasferirsi
nella comunità di via Compagnoni.
Le difficoltà incontrate furono
enormi, e si possono riassumere in:
difficoltà di carattere economico, scarso
numero di educatori ed inesperienza degli stessi, l'appartamento che era
fatiscente, impossibilità della comunità di avere contatti con l'esterno essendo
situata al quartiere Isola dove i problemi fondamentali della gente che vi
abita (proletariato, sottoproletariato, disoccupati) sono quelli di assicurarsi
la sopravvivenza quotidiana.
Da questa esperienza
è nata l'esigenza di trasferirsi in una zona più ricettiva, dove ci fosse la
possibilità per i ragazzi di crearsi nuove amicizie, ed avere un ambiente con
un minimo di confort.
A marzo dell'anno scorso ci siamo
trasferiti in via Zumbini
impostando la comunità in maniera diversa alla luce dell'esperienza
precedente. Abbiamo portato a tre il numero degli educatori
per dare a questi maggior possibilità di confronto e di spazio.
L'impostazione pedagogica si basa
sfruttando le relazioni che nascono spontaneamente all'interno
delle comunità per far prendere coscienza ai ragazzi delle proprie capacità e
della realtà circostante.
Questa dialettica tra educatori e
ragazzi deve tener conto, nella prospettiva di una
conoscenza della realtà, della storia di ogni ragazzo.
In questa dinamica
di relazioni, educatori-ragazzi, ragazzi-ragazzi, educatori-educatori, scaturiscono
delle norme di vita in comune, quali il rispetto delle reciproche esigenze e la
partecipazione alla gestione della casa (partecipazione diversa date le
storie diverse) come momenti socializzanti.
Poiché la finalità della comunità è
quella di far prendere coscienza della realtà e questa si acquisisce con
l'incontro-scontro con la medesima, si stimola il
ragazzo a fare esperienze concrete nei diversi campi (scuola, lavoro,
quartiere).
Data la diversità di storie di ogni ragazzo per il passaggio da una situazione quasi
passiva (di alcuni di essi) ad una situazione di partecipazione è importante
che vi siano attività in cui possa realizzarsi.
Abbiamo pensato quindi alla
creazione di laboratori aperti anche ai ragazzi del
quartiere, dove sia possibile oltre che imparare un mestiere poter guadagnare
un minimo per rendersi finalmente responsabili dei reali problemi.
II
L'idea di realizzare una
comunità-alloggio, preposta all'inserimento nella società di ragazzi usciti
dal carcere minorile, venne attorno al mese di ottobre
del '73 al cappellano dell'istituto Beccaria, Don
Gino Rigoldi.
Alla luce di esperienze
già da alcuni anni in corso in altre parti d'Italia e, in particolare, sul
modello della esperienza del gruppo Abele di Torino, si progettò, prima ed
unica nel suo genere sul territorio metropolitano, una comunità-alloggio che
rispondesse a due ordini di bisogni manifesti nei ragazzi ex-detenuti:
1. bisogni di ordine
materiale. Infatti il ragazzo, dopo il periodo di
segregazione in carcere, periodo nel quale non solo egli interiorizza il ruolo
del «delinquente», ma ne perfeziona anche le tecniche, viene investito appena
fuori da gravi difficoltà di sopravvivenza e di inserimento tali da trovarsi,
quasi certamente, a chiedere aiuto e protezione al «giro» di cui già faceva
parte.
2. Bisogni di ordine
psicologico. Attraverso lo strumento comunità si apre per questi ragazzi la
possibilità di individuare i loro problemi psicologici e umani come comuni ad
altri e di essere aiutati e sorretti in questo dalla presenza di figure di riferimento adulte.
Passati solo alcuni mesi dall'avvio,
l'andamento e la possibilità di continuazione dell'esperienza venivano seriamente pregiudicati da alcune gravi difficoltà,
sintetizzabili in 4 punti:
1. Il carattere
privatistico e l'aleatorietà
della beneficenza che rendeva precaria la sopravvivenza economica della
comunità;
2. Il problema
della gestione interna e dell'isolamento di chi viveva nella comunità;
3. La condizione di volontari a
tutti gli effetti degli educatori;
4. Le dimensioni
minime e le condizioni abitative pessime dell'appartamento situato in via de Castillia (zona 2).
Gruppo e definizione
dell'ipotesi d'intervento
Nel frattempo alcuni operatori
sociali del settore della c.d. rieducazione, venuti a
conoscenza della iniziativa del cappellano del Beccaria
e avendo questi chiesto la loro collaborazione per risolvere i problemi
suddetti, si costituirono come gruppo attorno alla comunità-alloggio, ritenendo
l'esperienza interessante e suscettibile di importanti sviluppi.
Avendo
chiara l'analisi della situazione e del settore, impegnati nella ricerca di
proposte e interventi che superassero la logica dell'esclusione
(1), il gruppo, seppure a livello volontario, decise di assumere la gestione
di questo tipo di intervento, dandogli un significato che andasse al di là
della prospettiva assistenziale per potersi trasformare in un momento politico
d'intervento nel campo della delinquenza minorile.
D'altra parte apparve chiaro che un
intervento politico sul fenomeno non può prescindere:
1) dal coinvolgimento della classe operaia perché, respingendo l'analisi
borghese del fenomeno della devianza, possa incidere con le proprie lotte là
dove il fenomeno ha le sue radici ultime, cioè nei
rapporti di potere a livello di produzione;
2) dallo spostamento dell'asse operativo dall'individuo al collettivo,
dall'istituto al territorio, là dove il fenomeno si manifesta, per rompere la
logica dell'emarginazione, riportando cioè all'esterno
tutte quelle contraddizioni che il sistema capitalista violentemente reprime e
nasconde.
Rapporto con la classe
operaia - Sit Siemens
L'occasione
per affrontare il tema del coinvolgimento della classe operaia fu data da un
documento sindacale della Camera del Lavoro (documentazione camerale n. 9)
che proponeva il discorso del rapporto tra la classe operaia e la questione del
carcere.
S'instaura quindi un rapporto con
L'ipotesi iniziale era quella di
fare aprire al Consiglio di Fabbrica una vertenza sul posto di lavoro per ex-detenuti.
Essendo però il Consiglio di Fabbrica piuttosto deresponsabilizzato al problema
dell'emarginazione, chi si dimostrò invece coinvolto sul problema
furono le avanguardie operanti al suo interno. Accanto ad esse
furono anche coinvolti alcuni lavoratori della Siemens
che erano interessati più che altro a livello umanitario.
La proposta di agganciare altre
fabbriche non viene realizzata e si approfondisce
invece il rapporto con
A maggio del '74 si tiene in Val Formazza un convegno organizzato da diversi operatori sociali insieme ad alcuni operai della Siemens
con la partecipazione dei ragazzi della comunità-alloggio.
Proposto come ricerca di una linea
da seguire all'interno del gruppo diviene di fatto un
incontro di studio e occasione, per molti che non operavano nel settore, di
avvicinarsi al problema della rieducazione.
Si formarono tre gruppi di studio
sui seguenti temi:
1. Comunità;
2. Centro Sociale;
3. Fabbrica.
Per quanto riguarda il gruppo
fabbrica sono emersi questi problemi:
a) rapporto Beccaria-fabbrica; b) rapporto zona-fabbrica;
c) significato dell'emarginazione
nella lotta di classe;
d) inserimento degli ex-detenuti in
fabbrica;
e) prospettive di superamento
dell'istituzione carceraria;
f) come portare il
problema all'interno della fabbrica; contatti con il CdF;
g) difficoltà di espressione
in fabbrica da parte dei ragazzi che hanno fatto l'esperienza dei carcere;
h) partire dai bisogni reali del
ragazzo (lavoro retribuito).
Nel periodo subito successivo al
convegno in Val Formazza, il rapporto con il gruppo di operai si andò sempre più affievolendo fino a scomparire.
Da parte degli operai della Sit Siemens si rivelò la grossa
difficoltà di generalizzare il problema a livello di massa perché, all'interno
della fabbrica, esistevano problemi contingenti oggettivamente prioritari da
affrontare e perché la sensibilizzazione sul problema dell'emarginazione in fabbrica richiedeva un lavoro difficile e a lungo
termine.
Da parte del gruppo di operatori, da un lato si tendeva a trovare una soluzione
ai problemi immediati che scaturivano dalla comunità; dall'altro si
privilegiava in questo periodo il collegamento con forze più responsabilizzate
sul problema.
Il rapporto con la fabbrica, anche
se fallito in breve tempo, fu molto importante per le indicazioni
che da questa esperienza scaturirono in un secondo tempo.
1. La via scelta per attuare il
coinvolgimento della classe operaia sul problema della devianza minorile
secondo l'ipotesi di intervento, era inadeguata.
Infatti, ad essere coinvolti
nell'esperienza, non era la fabbrica nel suo complesso, bensì un gruppo di operai che vi si accostavano più su motivazioni
personali che altro, creando così un rapporto solidaristico
con la comunità.
D'altra parte, l'instaurarsi di tale
rapporto non poteva avvenire diversamente, dato il carattere ancora
essenzialmente privato dell'esperienza, dove anche il gruppo di
operatori non rappresentava altro che l'esigenza di continuità di
un'esperienza di cui si scorgevano i possibili collegamenti ma non i modi in
cui attuarli.
2. Fermo restando l'ipotesi di
collegamento con la classe operaia, l'indicazione in positivo
fu di spostare l'asse di intervento dalla fabbrica al territorio dove la classe
operaia vive ed esprime grossa parte dei suoi interessi.
In questo quadro ci si indirizzò verso un rapporto con le strutture
territoriali della classe operaia organizzata, i C.U.Z.
Via Compagnoni -
Convenzione ENAlP-MGG
In tutto questo periodo all'interno
della comunità avvennero diverse trasformazioni che, se da una parte furono
dei miglioramenti, dall'altra posero in luce abbastanza presto i limiti e le
difficoltà, scaturite peraltro, dall'impostazione
stessa di questa esperienza.
Via Compagnoni
In primo luogo si cercò un alloggio
sostitutivo di quello di via de Castillia, date le
sue scarse possibilità abitative.
L'unico appartamento che si riuscì a
reperire fu in via Compagnoni, situato quindi nella
zona
1. Nella zona che fa parte del
centro di Milano il fenomeno della devianza è un
problema poco sentito o per lo meno non viene vissuto in prima persona dagli
abitanti;
2. Non esistono le possibilità di
incidere nella zona sulle cause strutturali che
producono il gesto deviante.
La conseguenza più grossa fu
l'impossibilità di aprirsi al quartiere e quindi di non riuscire ad instaurare il necessario confronto su questi temi con le
forze sociali operanti nel territorio e relegando i ragazzi in un ambito
privato e chiuso.
Convenzione
Inoltre, analizzata la condizione di
precarietà in cui viveva la comunità-alloggio e data l'urgenza di risolvere in
qualsiasi modo (purché non fosse quello volontaristico e di beneficenza) il
problema finanziario, condizione indispensabile non
solo per superare la precarietà dell'esperienza, ma soprattutto per poter
impostare un più globale programma di intervento, si giunse alla decisione di
coinvolgere l'Ente Nazionale Acli per l'istruzione
Professionale (E.N.A.I.P.), e di ottenere,
attraverso questo ente, già da tempo impegnato nel settore della c. d. rieducazione e nel progetto e nella realizzazione di piccole
comunità come alternativa all'istituzionalizzazione, una convenzione con il
Ministero di Grazia e Giustizia (Direzione Generale Istituti di Prevenzione e
Pena - Centro di Rieducazione Minorenni, Milano) per una comunità alloggio in
cui siano ospitati «n. 10 giovani di sesso maschile dei quali
La risoluzione immediata di questo
problema, fu coscientemente ottenuta in termini politici di compromesso e di ambiguità in quanto l'ENAIP è sostanzialmente una
struttura inaccettabile (assistenza privata) anche se gestita in modo accettabile.
D'altra parte la scelta risultava obbligata data l'irrilevanza dell'esperienza che
non consentiva la richiesta di gestione da parte dell'ente locale.
Se questa scelta ha permesso da un
lato la continuità dell'esperienza, dall'altro l'ideologia assistenziale
chiusa ed arretrata del MGG ha pesato fortemente sulla comunità-alloggio.
Infatti un'attenta
lettura della convenzione rivela tra le righe qual è la politica del Ministero
di Grazia e Giustizia (nella fattispecie del Centro di Rieducazione per i
Minorenni di Milano) e la sua reale posizione rispetto a esperienze nuove di
rieducazione come le comunità-alloggio. In modo particolare si evidenzia come:
1.
Essa sia concepita essenzialmente come un piccolo istituto più efficace dove le
piccole dimensioni, il basso numero dei ragazzi e la
mancanza di controlli rigidi rendono meno evidente la finalità repressiva e custodialistica dell'istituzione
rieducativa. Una razionalizzazione, quindi, un
mutamento formale che lascia tutto inalterato: infatti
non si fa nessun riferimento alla necessità che la comunità si apra al quartiere,
o più in generale alle forze sociali.
Al
Ministero basta che:
ART. 3 «... si provveda alla
rieducazione e al progressivo riadattamento sociale del minore... in
particolare a far loro seguire i corsi scolastici d'obbligo... favorendo
soprattutto l'inserimento lavorativo esterno...».
2.
Come viene sottolineato il legame e il controllo alle
strutture istituzionalmente preposte alla rieducazione, cioè, per esempio, il
Tribunale dei Minorenni.
ART. 1 «... si obbliga ad ospitare nella
comunità maschile di Milano n. 10 giovani ... per i quali
la competente autorità giudiziaria abbia disposto tale misura rieducativa».
ART. 5 «la comunità non riceverà minori di diversa provenienza».
Si possono fare due considerazioni:
a) si
riconferma la specificità della comunità come servizio per soli minori
disadattati e già segnalati in Tribunale, quindi non una comunità aperta a
tutti i minori che ne abbiano bisogno per motivi diversi, che si configuri come
servizio aperto e sul quale non cada nessuna stigmatizzazione
giuridico-punitiva;
b) come conseguenza del punto
precedente si chiarisce come si è ancora lontani da una gestione pubblica e
collettiva di questi problemi che restano ancora sotto l'incontrastato controllo dell'apparato giuridico che non intende spartirli
con nessuno.
Ruolo degli educatori
Un altro grosso fattore determinante dell'andamento dell'esperienza è stato il
ruolo che gli educatori si sono trovati a rivestire. Il MGG parla chiaro: nella convenzione a proposito degli educatori si
limita a definire la specificità del ruolo in questi termini:
«gli educatori sono tenuti a
trasmettere al Tribunale dei Minorenni... informazioni sulla condotta del
minore, sulle sue relazioni con la famiglia,... sul
profitto scolastico e il grado di riadattamento sociale ottenuto».
Come tutto ciò avvenga, quali siano gli strumenti e le condizioni attraverso le quali un
reale inserimento sociale possa avvenire non si dice. Nel
contempo però il MGG eroga rette che risalgono a dieci anni fa, non si
fa carico in nessun modo della formazione degli educatori, esclude, come
abbiamo visto, una qualsiasi apertura al territorio, che non sia solo affidata
alla discrezione della «buona volontà» degli operatori, senza contare che non
si accenna neppure per sbaglio a un benché minimo piano educativo.
La diretta conseguenza è che gli
educatori assumono un ruolo custodialistico in forma attenuata (mistificato cioè dalla caratteristica
di libertà della comunità e dalle sue piccole dimensioni) e quindi
riconducibile più che altro alle figure parentali.
Anche l'Ente gestore, l'ENAIP, parla
chiaro: d'accordo sul progetto politico nel complesso, nei fatti la comunità
non può avere più di due educatori in quanto i finanziamenti dell'MGG
sono scarsi e non li si vuole integrare. L'unico rimedio che viene proposto è l'utilizzo di obiettori di coscienza come
forza lavoro non considerando che il volontariato è incompatibile coll'ipotesi di intervento. La conseguenza di questa linea
è stata che la professionalità degli educatori si riduceva a percepire lo
stipendio, mentre, per le esigenze interne, ci si trovava
a coprire tutto l'arco della giornata e della notte vivendo in comunità ventiquattr'ore su ventiquattro, assumendo praticamente il
ruolo di tuttofare e supplendo, con la propria persona alla mancanza di personale
di servizio e di mezzi economici adeguati.
Altre difficoltà:
l'isolamento dal territorio con la
conseguenza diretta che le tensioni generate da problemi reali (per esempio la
mancanza di posti di lavoro) convergevano tutte all'interno della comunità,
appesantendone l'andamento, rendendo difficile la convivenza e soprattutto
facendo sì che gli educatori fossero nella scomoda e deleteria posizione di
mediazione tra i ragazzi e la realtà;
la conseguente non definizione del
ruolo degli educatori come lavoratori a tutti gli effetti che lasciava spazio
alle riproposizioni della figura paterna e materna;
l'inesperienza degli educatori in
alcun caso sorretta da momenti di formazione ma solo dall'«amicizia» di alcuni
esterni;
l'immissione di ragazzi attuata non
tenendo conto della capacità della comunità delle esigenze dei singoli o
peggio ancora degli operatori che avevano seguito i singoli ragazzi fino a quel
momento e che si trovavano nell'impossibilità di fare proposte concrete e
complessive;
il rapporto della comunità con il
gruppo che nell'ipotesi avrebbe dovuto prendersi carico dei problemi interni
il cui coinvolgimento invece fu sempre parziale e privatistico
poiché in questo ambito più che negli altri violentemente emerse il limite
strutturale del gruppo cioè il volontariato (limitata disponibilità di tempo e
partecipazione subordinata agli impegni di lavoro);
mancanza come gruppo di una precisa identità
professionale e quindi anche scarsa incisività e forza a livello di contatti e
richieste.
L'intreccio di tutti questi fattori
fu la causa per cui nella comunità si crearono
dinamiche fra i ragazzi e fra questi e gli educatori non gestibili solo sulla
base delle capacità personali o peggio della «buona volontà» degli educatori.
Veniva riproposto nei fatti ai ragazzi un
misto di piccolo istituto (con caratteristiche proprie ma pur sempre nella
stessa logica) e di una famiglia.
Questo non permetteva né l'attuarsi
di un progetto di deistituzionalizzazione né, a
livello educativo, la possibilità di aiutare i ragazzi a superare
la dipendenza e la passività a cui sempre sono soggetti a tutti i livelli per
arrivare invece alla gestione in prima persona della loro vita.
Infatti è nostra convinzione che la
comunità alloggio ha una funzione oggettiva di stimolo sia alla
sensibilizzazione su questo grave problema sociale sia alla presa in carico e
alla lotta alle cause del disadattamento, nella misura in cui a livello
soggettivo, cioè di ciascun ragazzo che della comunità fa parte, risponde alle
esigenze di configurarsi a pieno diritto come uomo e come soggetto politico,
imparando quello che al di là di mistificazioni di sorta, la nostra società non
solo non insegna ma non permette, imparando cioè a compiere una scelta di vita,
a gestire le proprie carenze e a «costruire insieme agli altri», in una
visione collettiva di cambiamento della società, acquisendo a questo scopo
quegli strumenti di lettura dei meccanismi della realtà che a questi ragazzi
sono sempre mancati e la cui mancanza molto ha contribuito a portarli al «gesto
deviante», come ribellione individualistica e non cosciente e per questo
distruttiva più ancora che degli altri o delle cose, di se stessi.
Concretamente perché questo approccio diretto e costruttivo colla realtà possa
avvenire positivamente, occorre individuare e favorire momenti fondamentali
di socializzazione (attività scolastiche, gestione del tempo libero ecc.) attraverso
i quali il ragazzo acquisti una dimensione collettiva dei suoi problemi e la
coscienza che per la maggior parte solo collettivamente si possono risolvere e
la collettività d'altra parte riconosca come suoi i problemi del ragazzo, non
considerandolo più un «diverso».
L'integrazione della Comunità nel
territorio, indispensabile dal punto di vista politico, veniva
così riproposta come indispensabile dal punto di vista educativo.
Si può dire comunque
che questo fatto ha permesso un maggiore approfondimento dell'analisi dei
settore assistenziale e ha dato vita ad alcune iniziative di sensibilizzazione
nel quartiere (per esempio tramite l'allestimento di una mostra fotografica
sull'emarginazione).
Da questa esperienza
abbiamo ricavato il convincimento dell'importanza fondamentale del rapporto
can il gruppo ACLI come un tramite non solo per conoscere realisticamente le
caratteristiche del quartiere, ma per aggregare intorno al progetto i
lavoratori e le forze sociali presenti in esso.
Conseguenze
verificatesi all'interno della comunità
Il mancato reperimento dell'alloggio
così come è stato determinante per la definizione
dell'intervento a Baggio ha anche fatto emergere la
contraddizione tra la conduzione della comunità e l'ipotesi di lavoro a Baggio, nella quale gli educatori, assieme al gruppo (2),
erano assorbiti.
Rispetto alle condizioni in cui
viveva la comunità che abbiamo esaminato sopra, in questo periodo si
aggiungono una serie di elementi nuovi:
1) Gli educatori devono affrontare
due tipi di lavoro nettamente differenziati, l'uno
interno l'altro esterno alla comunità, con l'aggravante della distanza tra i
due posti di lavoro posti, rispettivamente, ai lati estremi della città (città
studi-Baggio);
2) Si aggrava il problema della
formazione degli educatori che risulta sempre più
inadeguata rispetto al nuovo ruolo che essi vanno acquisendo;
3) Emerge sempre più pesantemente il limite del gruppo che via via
va scomparendo;
4) I ragazzi risentono negativamente
della presenza, quasi dimezzata, degli educatori. E si
trovano a:
5) Dover assumere maggiori
responsabilità, bruscamente e al di fuori di una loro scelta, per es., nella conduzione della casa;
6) In una situazione già precaria
vengono immessi nuovi ragazzi senza una presenza costante degli educatori che
servisse ad affrontare positivamente le dinamiche
conflittuali che si venivano a determinare.
Appare evidente la profonda
diversità con la quale gli stessi problemi si sarebbero
affrontati nella situazione del trasferimento della comunità a Baggio.
La possibilità di rendere partecipi
in prima persona i giovani dello sviluppo del progetto iniziale, avrebbe, se
non altro permesso di affrontare i problemi, che si sarebbero
egualmente creati, ma non come conseguenza da subire, bensì come
difficoltà da affrontare, e superare, in una dimensione non angustamente
limitata all'ambito chiuso della comunità, ma in un confronto con la nuova
situazione ambientale ed eventualmente con le forze sociali attive.
Non crediamo che il trasferimento a Baggio avrebbe automaticamente e miracolosamente risolto
ogni problema, siamo certi che ne avrebbe mutato profondamente
la qualità, permettendo ad educatori e ragazzi, ciascuno conservando la
propria soggettività, esigenze e problemi, di porsi concretamente nella realtà
uscendo dal semplice rapporto interpersonale, e creando le premesse di un
lavoro comune.
Precisazioni riguardo
al carattere dell'intervento sul territorio
Si può dire
che l'ottobre '74 inizia una nuova fase caratterizzata dalla scelta della zona
in cui spostare la comunità e dai collegamenti che si instaurano con le forze
in essa presenti ed operanti.
Infatti, come abbiamo
visto, sia i problemi strutturali della comunità sia i problemi pedagogici
di rapporto con i ragazzi e di definizione del ruolo degli operatori interni,
misero all'ordine del giorno il trasferimento della comunità-alloggio in una
zona realizzabile nei termini sopra esposti, cioè nel duplice senso di
responsabilizzazione del quartiere al problema della devianza minorile e
possibilità di rapporti diretti con la realtà da parte dei ragazzi.
Scelta della zona: Baggio
La scelta fu per la zona 18 Baggio, in base ad alcune caratteristiche in essa presenti:
1) Tipica stratificazione sociale
della zona (rilevante presenza proletaria);
2) Quartiere dormitorio;
3) Zona nella quale il fenomeno della
«devianza» si presenta in modo massiccio;
4) Possibilità di collegamento con
un gruppo di operatori sociali dipendenti da vari enti
che già lavorano all'interno del territorio su un'ipotesi di collegamento e
coordinamento.
Scelta la zona, vengono
affrontati i seguenti problemi:
1° Ricerca dell'appartamento in cui
inserire la comunità-alloggio a Baggio: questa
ricerca era rivolta, ovviamente, all'interno dell'edilizia pubblica, per due
motivi di fondo: uno di carattere economico e l'altro
di carattere politico. Solo l'edilizia pubblica, infatti, permette o può
permettere, che, date certe condizioni e certi rapporti di forza, possa
esistere un «prezzo politico» per l'affitto (nel bilancio della
comunità-alloggio, in base alle rette pagate dal M.G.G., non era, come non è, possibile stanziare per l'affitto
che una somma assai esigua, praticamente formale, come lo era per
l'appartamento di V. Compagnoni, ceduto da un'istituzione cattolica al
Cappellano del Beccaria) e, nel contempo, è
l'edilizia pubblica che, in primo luogo, deve farsi carico, in base al suo
specifico, di una serie di problemi quale quello dell'emarginazione, che sono
propri della collettività in questo momento storico.
A livello di zona ci si è rivolti al
consiglio di zona, in forma del tutto strumentale, perché si prendesse carico,
attraverso lo IACP del nostro problema.
Mentre il presidente del C.d.Z. era
interessato alla nostra proposta e quindi riteneva valido portare all'interno
del quartiere un discorso sull'emarginazione, i capi-gruppo di
altri partiti e i membri del suo stesso partito (
2° Conoscenza e
contatti con tutte le forze politiche presenti nel quartiere. Attraverso tentativi diretti di
contatti in zona siamo venuti a conoscenza di varie
realtà, diverse tra loro e tutte significative quali un gruppo di insegnanti
democratici della scuola media Mattei, una scuola
popolare, un gruppo spontaneo di giovani attorno all'obiettivo di intervento
sul problema della droga, il gruppo di operatori sociali di vari enti di cui
sopra, il circolo ACLI di Baggio.
Con i primi abbiamo avuto rapporti
di scambio di informazione ed esperienze che ci sono
stati utilissimi per l'inserimento nel quartiere e che peraltro hanno dato
luogo a momenti di collaborazione significativa ma episodica.
Diverso il rapporto col circolo
ACLI:
L'intenzione di questo gruppo di
farsi carico del problema dell'assistenza in generale come terreno di iniziativa politica sul territorio ci ha permesso di
avere un rapporto continuativo teso all'elaborazione di un comune progetto di
intervento.
L'ipotesi fondamentale sulla quale
ci muoviamo è quella del passaggio delle strutture della rieducazione all'ente
locale, che riteniamo complessivamente più idoneo del
M.G.G., a rispondere alle reali esigenze dei giovani
posti sotto il suo eventuale intervento.
Sviluppi del rapporto
con l'assistenza
Il rapporto con l'ente locale lo vediamo nell'effettivo collegamento della comunità-alloggio
con gli altri servizi sociali, quindi come una delle strutture necessarie per
portare avanti un discorso sui servizi decentrati territorialmente a gestione
democratica, non emarginanti.
Consideriamo importante questo,
poiché se pur siamo convinti della necessità di combattere tutte le strutture
private o privatistiche e quindi siamo fautori della pubblicizzazione, non crediamo che sia sufficiente un
semplice cambio di forma o di facciata.
In questo senso vediamo il passaggio
alla gestione pubblica di tutte le strutture private (quindi anche della
nostra), solo come il primo passo verso la costruzione di servizi che siano reale risposta ai più elementari diritti popolari,
principalmente il diritto di ogni individuo ad una vita sana, integra e
cosciente. In tal senso consideriamo i migliori garanti di questa
effettiva trasformazione: i lavoratori degli enti, che da anni lottano
per la trasformazione degli istituti nei quali lavorano, i lavoratori ed il
popolo in generale, che da anni subisce la miseria di una organizzazione
sociale, che sa solo reprimere ed isolare coloro che obbliga a condizioni di
vita emarginanti.
Noi consideriamo molto importante il
contributo che può venire da una cosiddetta «esperienza alternativa»
rispetto all'elaborazione dell'intervento sopradetto.
A nostro avviso non sarebbe inutile
l'ipotizzare un rapporto, da vedersi in qual modo e su quali discorsi, tra la cosiddetta
«rieducazione» ed i «lavoratori dell'assistenza» sulle semplici ed ovvie considerazioni che:
a) entrambi intervengono su
condizioni che sono conseguenti alle medesime cause emarginanti;
b) anche la rieducazione, a più o meno breve scadenza, dovrebbe passare almeno in parte
sotto la programmazione regionale e la gestione dell'ente locale minore:
Provincia e Consorzi di Comuni, in ogni caso al di fuori delle competenze del M.G.G.
Data la necessità dei contatti
esterni sopraindicati, e data l'esigenza di non contrapporli all'ipotesi
educativa interna che abbiamo elaborato ed alla organizzazione
interna che consegue, è utopistico credere che ancora per lungo tempo questa
doppia azione parallela possa essere compiuta soltanto dalle nostre due persone,
e nelle stesse condizioni nelle quali abbiamo operato finora.
Nuova ipotesi
educativa
Crediamo che per andare avanti si
debba uscire dall'ottica assistenziale, come unica
ipotesi a cui finalizzare il «servizio
comunità-alloggio, cioè ci si debba porre il problema di capire cosa significhi
avere un "rapporto rieducativo", con giovani
che escono dall'esperienza del disadattamento, dell'emarginazione e
dell'istituzionalizzazione non volendo più limitarci al semplice "parcheggio"
delle loro vite, all'interno di una struttura valida comunque».
Prima ancora ci si deve chiedere chi
siano questi giovani?
Dove andranno dopo la cosiddetta
esperienza rieducativa?
In definitiva consideriamo che il limite fondamentale della nostra esperienza sia stato
quello di considerare la finalità del nostro intervento, limitata alla semplice
compensazione affettiva di «carenze umane» che i giovani si portavano dietro,
ed al generico «sostegno ambientale» necessario per non lasciarli sulla strada.
Probabilmente per la sperimentalità iniziale della stessa esperienza non ci si
poteva proporre niente di più, ma crediamo che, oggi, vi siano abbastanza
elementi conoscitivi per farci uscire
dall'improvvisazione e dall'empirismo, per cominciare ad elaborare un discorso
realmente alternativo alle cause che creano l'emarginazione.
Alcune considerazioni
I giovani che fruiscono, o
dovrebbero fruire, delle comunità-alloggio convenzionate con il M.G.G., rappresentano la «sintesi»
di tutte le possibili emarginazioni attuate dall'organizzazione sociale nella
quale viviamo: dall'immigrazione, (con il suo significato di sradicamento
culturale, isolamento ecc.) all'espulsione scolastica, allo sfacelo dei
rapporti affettivi e del nucleo familiare per le miserabili condizioni di vita
di larghi strati popolari, sotto il peso di una organizzazione economica che
impoverisce di più chi vive esclusivamente del proprio lavoro, e che via via attraverso tutte le tappe dell'esclusione, sino alla
impossibilità di inserirsi nella produzione, ormai divenuta cronica nei nostri
tempi.
In ultima analisi gli emarginati
rappresentano la miseria materiale e culturale di una società che ha scaricato
su di essi la propria incapacità cronica di dare ad
ogni uomo, nella collettività, un ruolo in base alle proprie capacità e
rapporti sociali non competitivi.
Da una parte questi giovani
rappresentano la sintesi dell'esclusione, dall'altra, principalmente per
questo, sono divenuti o rischiano di divenire i migliori rappresentanti e
difensori della logica su cui si basa l'attuale organizzazione sociale:
attraverso l'accettazione completa del consumismo e
delle merci che lo rappresentano degnamente, mediante l'utilizzo del proprio
corpo e della propria intelligenza, per conquistare più o meno lentamente lo status
sociale di coloro che li hanno esclusi.
E allora, l'individualismo, la
competitività, la lotta contro il resto dell'umanità, oppure l'apatia, la
volontà di emergere per conquistare ciò che il sistema, attraverso i suoi mezzi
di comunicazione, fa credere necessario per
considerarsi «realizzati» attraverso la forza fisica ed il culto, molte volte
parolaio, della violenza fisica e della supremazia.
Ma oltre a ciò che essi
rappresentano, rispetto alla propria carriera di esclusi,
e quindi al significato di un rapporto «rieducativo»
nei loro riguardi ciò che deve essere problema da approfondire, è il
significato del futuro all'interno del quale li si vuole inserire, cioè la
proposta di vita sulla base della quale pensiamo di dare un significato al nostro
intervento e credibilità al nostro ruolo.
Da queste brevi considerazioni
escono già alcuni dei compiti che, secondo noi, la comunitàalloggio deve
affrontare:
1) elaborazione di una ipotesi educativa attraverso la quale, da una parte ci
sia il riappropriarsi della storia individuale da parte dei giovani per
scoprire insieme i risvolti di similitudine e quindi di riconoscimento,
certamente con le persone con cui vivono, e dall'altra una ricomposizione del
rapporto di questi giovani con la realtà, ma non con una realtà generica bensì
una prospettiva di reale e collettiva risoluzione dei loro problemi.
In questo senso non vediamo il ruolo
degli educatori semplicemente come riempitivo delle carenze affettive dei
giovani, rischiando in questo modo di proporsi in un ruolo statico, sulla base di un modello familiare ripetitivo di se stesso,
bensì quello di un «tramite» tra la storia individuale dei giovani stessi e la
realtà, all'interno della quale come comunità e come operatori ci si inserisce
attivamente.
2) l'inserimento effettivo della
comunità nel territorio per rompere, da una parte l'isolamento dei ragazzi
attraverso la sensibilizzazione e la ricomposizione di
rapporti solidali tra il popolo e i suoi figli esclusi, dall'altra con
l'inserimento della comunità all'interno di un programma per servizi decentrati
e non emarginanti e all'interno di un movimento che vada contro le cause
dell'emarginazione stessa.
E allora anche se la comunità è ubicata all'interno di un caseggiato in un appartamento non
vi debbono essere confusioni con il modello familiare, introducendo in questo
modo una logica privatistica nella definizione della
comunità sul territorio. Come già detto, secondo noi, la comunità alloggio
deve essere un servizio sociale collegata ad altri
servizi socio-sanitari, atti al soddisfacimento dei più elementari bisogni
popolari.
(1) In corsivo abbiamo
citato stralci dell'elaborato finale dell'anno scolastico 1974-75 del gruppo
interclasse R DEVIANZA » della scuola ENSISS. Tale elaborato è l'analisi
dell'esperienza di tirocinio svolta in stretta collaborazione con la comunità.
(2) Si intende un
gruppo di lavoro, costituito da operatori della rieducazione, e la cui funzione
è specificata nella prima parte del documento.
www.fondazionepromozionesociale.it