Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo 1975

 

 

ESPERIENZE

 

ANALISI DI ESPERIENZE DI INTEGRAZIONE SCOLASTICA

M. AMMANITI, F. ANTONUCCI, A. GIORDANO

 

 

Nella nostra relazione cercheremo di fornire una panoramica delle esperienze di integrazione di bambini handicappati nella scuola, realizzate a livello nazionale negli ultimi anni.

Queste esperienze hanno come retroterra co­mune, riconosciuto o meno, la critica sviluppata­si, intorno agli anni 1968-69, alle prassi tradizio­nalmente svolte nell'assistenza agli handicappa­ti, al ruolo selettivo che assume la scuola emar­ginando ampie fasce di bambini in difficoltà e alle funzioni e agli strumenti operativi delle équipes medico-psico-pedagogiche.

Da queste premesse si è sviluppato un dibat­tito che non solo ha coinvolto operatori scolastici ed assistenziali, ma ha interessato, anche, forze sociali, politiche e sindacali, nelle quali si sta sviluppando una precisa consapevolezza sulla necessità di ristrutturare e riformare profonda­mente i servizi scolastici, sanitari e sociali.

Questi momenti di convergenza fra forze poli­tiche ed operatori tecnici hanno significato una ampia verifica politica ed operativa nel settore dell'assistenza all'infanzia, che ha comportato, soprattutto in alcune Regioni, un nuovo orienta­mento.

Questo nuovo orientamento si è andato sem­pre più delineando in termini teorici ed opera­tivi, attraverso esperienze inizialmente parziali e contraddittorie, che hanno assunto successiva­mente una maggiore estensione ed organicità.

È interessante rilevare che i nuovi modi di operare, il collegamento e il dibattito con le for­ze politiche e sindacali, la riflessione e la veri­fica sul lavoro svolto, i contatti e i confronti in­formali fra gruppi di operatori costituiscono un sapere ancora non codificato e, soprattutto, un metodo di lavoro che riteniamo essenziale alla formazione dell'operatore sociale.

È chiaro che la nostra relazione non può riflet­tere, che in modo parziale, il complesso travaglio degli ultimi anni, ancora scarsamente elaborato sul piano teorico, ed il policentrismo di iniziative e di esperienze, di cui molte sono rimaste poco conosciute o addirittura sconosciute.

Il materiale a cui ci riferiamo è costituito dalle pubblicazioni e dalle relazioni di gruppi di opera­tori (ancora molto ridotte su un piano quantita­tivo e fortemente condizionate da un atteggia­mento attivistico, non sufficientemente analiti­co), da incontri informali con gruppi di operatori di altre sedi ed infine dalla nostra esperienza di­retta effettuata a Roma, a vari livelli.

l'analisi ci mostra che, dopo una prima fase di critica o di negazione del ruolo che gli operatori dell'assistenza o della scuola avevano tradizio­nalmente assunto, intorno al 1970 è sorta in vari gruppi l'esigenza di verificare nella pratica le po­sizioni teoriche, acquisite spesso attraverso un dibattito ideologico.

Questi gruppi, inizialmente poco numerosi, avevano tutti un retroterra politico-culturale che faceva riferimento alle tematiche veicolate dal Movimento Studentesco sull'autoritarismo, sulla selezione e sulla emarginazione e alle esperien­ze antistituzionali, sia nell'ambito della scuola che dell'assistenza psichiatrica.

Questa iniziale connotazione ideologica e la profonda inversione, che comportano queste esperienze, provocano forti reazioni ed ostacoli a vari livelli, sia nella scuola sia fra gli operatori dell'assistenza, sia infine in alcune forze poli­tiche.

Tale indirizzo, realizzato in questa fase con un apporto decisivo degli operatori, si amplia suc­cessivamente per le adesioni che riesce a deter­minare e per l'impegno crescente da parte degli Enti Locali, in particolare della Regione Toscana ed Emilia-Romagna, che si assumono dei precisi impegni nella riorganizzazione e nella gestione dei servizi per l'infanzia.

In qualche caso, tuttavia, all'impegno promo­zionale delle forze politiche non ha corrisposto una partecipazione degli operatori tecnici, anco­rati a posizioni tradizionalistiche o a privilegi personali.

Una prima valutazione delle linee di sviluppo, che si sono venute delineando, ci mostra che il processo di integrazione scolastica si è progres­sivamente esteso a livello nazionale, pur con momenti di pausa o di parziale arretramento. A questa estensione non ha corrisposto sempre una sufficiente chiarezza del problema, affrontato spesso in modo tecnico e circoscritto senza voler prendere in considerazione la struttura della scuola.

Molte ambiguità e molte contraddizioni pe­sano in questo processo di integrazione, anche perché alcune forze tentano di ricondurlo ad un ambito tecnico, privandolo della sua potenzia­lità provocatoria e di rinnovamento nell'ambito della scuola e dell'assistenza.

Riguardo alla distribuzione territoriale di que­ste esperienze si nota una certa prevalenza nelle Regioni settentrionali, pur con delle zone asso­lutamente immobili.

L'analisi dei vari interventi e piani regionali nell'Italia settentrionale dimostra la coesistenza di programmi tecnicistici, che non modificano so­stanzialmente la gestione dell'assistenza, e di linee più avanzate basate sulla gestione sociale dei servizi, sulla dimensione territoriale, sulla pubblicizzazione dei servizi e sul rifiuto di ogni intervento segregante (linee che si stanno realiz­zando in Toscana e in Emilia). In ogni caso si nota una presenza attiva e stimolante dell'Ente Locale (Provincia, Comuni, Consorzi di Comuni) con una tendenza al progressivo decentramento dei ser­vizi.

Nell'Italia centrale e meridionale si nota al contrario un'assenza dell'Ente Locale, se non ad­dirittura una sua posizione di freno rispetto alle iniziative di trasformazione, sollecitate per lo più da gruppi di operatori che spesso si pongono in contrasto con la Direzione dell'Ente da cui dipen­dono, stabilendo a volte dei rapporti di alleanza con alcuni gruppi di familiari o con forze politi­che e sindacali. È quanto si è verificato in alcuni Centri di riabilitazione gestiti da associazioni di famiglie di bambini handicappati (come ad esem­pio l'AIAS), in cui gruppi di operatori hanno intra­preso queste nuove esperienze, spesso senza un appoggio effettivo del Consiglio direttivo se non addirittura con una sua opposizione. Questi con­trasti e queste difficoltà spiegano lo sviluppo contraddittorio di queste esperienze, che a volte vengono addirittura soppresse per la convergen­za di forze contrarie sia all'interno che all'ester­no dei Centri.

Il versante della scuola è più difficile da ana­lizzare sia per il nostro ruolo di neuropsichiatri infantili, che ci lega maggiormente alla struttura assistenziale, sia perché solo da breve tempo gruppi di operatori scolastici come ad esempio il Movimento di cooperazione educativa stanno af­frontando, in modo approfondito, l'inserimento del bambino handicappato.

Riteniamo in ogni caso che gli operatori scola­stici costituiscono uno dei momenti centrali non solo della trasformazione della struttura scola­stica, ma del processo di inserimento del bam­bino handicappato, finalmente enucleato da una dimensione medica e ricondotto ad una gestione educativa-sociale.

Gli interventi iniziati direttamente nella Scuo­la, nel senso di un progressivo inserimento di bambini handicappati oppure di un rovesciamen­to istituzionale della scuola speciale nella sua organizzazione e nelle sue finalità, sono piuttosto frammentari e difficilmente a livello di un intero plesso scolastico. Crediamo che ciò sia da adde­bitare all'organizzazione gerarchica della scuola che tende a scoraggiare, se non ad ostacolare, nuove iniziative, quantunque in alcune circolari del Ministero della Pubblica Istruzione si accetta l'inserimento del bambino handicappato, tuttavia più in un modo formale che in modo sostanziale.

Nella nostra relazione non possono essere do­cumentate le iniziative spontanee portate avanti da una insegnante o da un gruppo di insegnanti, che, nonostante difficoltà ed ostacoli, sono riu­sciti ad intraprendere un diverso lavoro di orga­nizzazione della classe, aperta anche ai bambini in difficoltà.

In ogni caso gli operatori della scuola, al con­trario di quelli dell'assistenza, hanno affrontato in modo indiretto il problema del bambino handi­cappato solo dopo che si sono posti il problema di una diversa organizzazione pedagogico-didat­tica, non selettiva ed emarginante, in grado di rispondere ai bisogni di ogni bambino.

Quantunque isolate queste esperienze hanno un loro valore perché esse mettono in discus­sione l'organizzazione cristallizzata della scuola sollecitando un dibattito ed una dialettica, su­scettibili di confronti più ampi.

Con preoccupazione guardiamo quelle situa­zioni nelle quali l'intervento nei confronti della scuola rimane esterno, legato a dei servizi terri­toriali, senza saldarsi a fermenti che si sviluppi­no nella scuola stessa. Infatti si corre il rischio di creare una contrapposizione fra gli operatori della scuola e quelli del territorio, radicalizzando le posizioni di contrasto senza la possibilità di un superamento dialettico.

Sulla base di queste considerazioni appare chiaro che il processo di integrazione assume strategie operative a seconda delle sue premes­se ideologiche e teoriche. Ugualmente determi­nante è l'ambito da cui partono tali esperienze, ossia dal versante scolastico, assistenziale e so­ciale e il tipo di collaborazione che si instaura fra gli operatori tecnici e le forze sociali.

Anche il ruolo assunto dall'Ente locale condi­ziona in modo determinante le esperienze, nel senso di ostacolarle o di assumerne la gestione collegandole al problema più generale dei ser­vizi per l'infanzia in un ambito territoriale esteso. L'assenza dell'Ente Locale è, in qualche caso, par­zialmente sostituita dall'iniziativa di operatori e famiglie dei Centri di riabilitazione, che hanno svolto una importante funzione di stimolo e di sollecitazione, quantunque in molti casi ancorata ad una visione assistenziale e ad interessi piutto­sto settoriali. D'altra parte la stessa collocazione privata di tali Centri di riabilitazione limita, in modo determinante, la possibilità di un interven­to organico, troppo condizionato dal rapporto economico con il Ministero della Sanità (che punta alla capitalizzazione delle rette e non a garantire un servizio organico).

Ci sembra utile suddividere le esperienze di integrazione, tenendo presenti le diverse strate­gie operative e le linee di intervento:

a) interventi che si sono sviluppati in Centri di riabilitazione gestiti da associazioni (come ad esempio si è verificato a Cutrofiano (Lecce), Ba­ri, Cosenza, Catania, Torino, Empoli, Roma ecc.);

b) interventi realizzati da servizi gestiti dal­l'Ente Locale (servizi di diverso carattere come ad esempio Centri di igiene mentale, Centri di riabilitazione, Equipes medico-psico-pedagogiche, Servizi ambulatoriali infantili) realizzati in varie zone (ad esempio Parma, Reggio Emilia, Bologna, Sesto S. Giovanni, Modena, Milano ecc.);

c) trasformazione realizzata nell'ambito di una struttura scolastica nel suo complesso attra­verso iniziative intraprese direttamente dagli operatori della scuola (ad esempio a Moncalieri, a Monte S. Savino (Arezzo), a Milano, a Roma ecc.);

d) inserimenti di singoli bambini handicap­pati in una classe, per iniziativa di operatori sco­lastici o dell'assistenza, tuttavia in assenza di un lavoro organico nel territorio o nel plesso scola­stico. Queste situazioni, difficilmente documen­tabili, sono più frequenti in quelle zone, come a Roma, dove non si è realizzata una linea organi­ca gestita dall'Ente Locale ma ogni iniziativa è legata alle scelte del singolo operatore o di grup­pi di operatori.

 

Analisi critica delle esperienze

Il punto di partenza delle diverse esperienze è rappresentato dal rifiuto di soluzioni segreganti (come ad esempio le scuole speciali, i Centri di riabilitazione e gli Istituti medico-psico-pedago­gici) in quanto esse oltre a determinare una gra­ve deprivazione sia di ordine socializzativo che in relazione allo scambio di informazioni e di espe­rienze, si ripercuotono negativamente sulla strut­turazione della identità personale del bambino handicappato. La percezione di sé e degli altri avviene in modo distorto con forti sensi di ina­deguatezza e di colpa che limitano le possibilità maturative e relazionali. Il processo di esclusio­ne, d'altronde, coinvolge anche il nucleo familia­re nel quale si rafforzano eventuali atteggiamenti iperprotettivi e di rifiuto nei confronti del bam­bino, spesso con un estraniamento dello stesso nucleo dal contesto sociale.

Queste considerazioni cominciano a filtrare e a prendere corpo sia nell'ambito degli operatori che dei familiari, fra questi ultimi in modo com­plesso e ambivalente, come riflesso di un rap­porto coinvolgente, e fortemente caratterizzato su un piano emotivo.

È così che sorgono le prime riflessioni e i primi progetti fra gli operatori dei Centri di riabi­litazione o di alcune scuole speciali, dove il pro­blema dell'handicappato è vissuto giornalmente, spesso con la frustrazione di non acquisire risul­tati significativi o addirittura di osservare dei regressi.

In queste situazioni l'eccessiva focalizzazione del problema dell'handicappato non sempre ha permesso di prendere in considerazione l'orga­nizzazione delle strutture scolastiche normali e si è ritenuto sufficiente il superamento del Cen­tro di riabilitazione o della scuola speciale.

Fin dai primi passi il processo di integrazione scolastica ha comportato complesse lacerazioni e conflitti sia fra gli operatori tecnici, che dove­vano rimettere in discussione una ideologia scientifica ormai acquisita ed uno strumentario tecnico, sia fra gli operatori della scuola, sia in­fine nelle famiglie, per le quali l'ingresso del figlio deficitario nella scuola normale comporta­va una crisi del ruolo di minorato ormai asse­gnato al figlio. Nelle famiglie, infatti, l'inserimen­to nella scuola normale comportava l'emergenza della complessa trama di iperprotezionismo, col­pevolizzazione rifiuto disperazione e sfiducia che caratterizza le relazioni intrafamiliari.

Nel 1970 iniziano contemporaneamente alcune esperienze (a Roma Scuola materna integrata P.za della Scala, a Cutrofiano [Lecce], a Monca­lieri), ancora a carattere sperimentale, inevitabil­mente ancorate e condizionate dalla struttura da cui sorgono.

Analizzando più a fondo la situazione che si è sviluppata a livello di alcuni Centri di riabilita­zione, come ad esempio quello di Cutrofiano, si nota una progressiva apertura della struttura tra­mite rapporti con le Direzioni didattiche più vi­cine al Centro.

In una fase iniziale si intraprende una integra­zione di zona, nelle scuole vicino al Centro, con­centrando lo sforzo in alcuni plessi scolastici in cui vengono immessi bambini handicappati con lievi deficit. È chiaro che l'integrazione di zona costituisce una tappa iniziale, che deve essere necessariamente superata perché rischia di crea­re situazioni innaturali nella scuola con una im­missione troppo numerosa di bambini handicap­pati, i quali d'altra parte si trovano a vivere in un contesto sempre artificioso, non corrispondente territorialmente al proprio quartiere.

In una fase iniziale tale scelta offre maggiori garanzie perché permette di concentrare le forze limitate di un Centro di riabilitazione, in modo da garantire un intervento più incisivo e, nello stesso tempo, svolgere un lavoro di riqualifica­zione del personale assistenziale per le nuove finalità dell'intervento.

L'apertura all'esterno del Centro di riabilita­zione è avvenuta anche per altre vie, ad esempio organizzando dei soggiorni, estivi integrati con i bambini dei quartieri circostanti, oppure realiz­zando dei rapporti di gemellaggio (come hanno effettuato i Centri Abetina di Milano) con alcune scuole del circondario, in modo da creare dei momenti comuni sul piano ricreativo, socializza­tivo ed espressivo, per qualche ora alla setti­mana.

Alcuni Centri di riabilitazione (Cosenza, Bari, ecc.) hanno lavorato maggiormente in alcune scuole del circondario, mentre altri centri, come ad esempio Cutrofiano, stanno cercando di af­frontare un inserimento a livello del quartiere di appartenenza di ogni singolo bambino. Crediamo che questa ultima scelta sia senz'altro da privi­legiare, tuttavia essa richiede un impegno gra­voso, spesso superiore alle capacità del centro, e contemporaneamente una destrutturazione del Centro di riabilitazione con un decentramento territoriale dei servizi riabilitativi. Alla destruttu­razione del Centro deve corrispondere una pub­blicizzazione dei servizi riabilitativi, gestiti diret­tamente dagli Enti Locali, con la creazione di Uni­tà riabilitative territoriali.

La linea di riorganizzazione dei servizi riabilita­tivi rimette in discussione la validità e la legitti­mità della permanenza dei Centri di riabilitazione, la cui persistenza può essere giustificata soltan­to con interessi estranei a quelli degli assistiti.

Nel processo di apertura il centro modifica la sua fisionomia tradizionale assumendo carattere e finalità differenti. Il centro può essere utilizzato in modo integrativo rispetto all'inserimento sco­lastico, soprattutto quando quest'ultimo copre solo alcune ore della giornata fornendo anche dei servizi riabilitativi ambulatoriali. In qualche situa­zione si è ristrutturata l'organizzazione interna in modo da realizzare dei servizi per la popola­zione infantile dei quartieri circostanti (ad esem­pio Scuola materna, Centri ricreativi, Servizi di igiene mentale ecc.).

Tale operazione richiede una grande flessibi­lità ed un continuo adeguamento ai bisogni emer­genti, tuttavia l'obbiettivo di fondo dovrebbe es­sere quello di abolire i Centri di riabilitazione.

Il materiale che noi abbiamo consultato ci fa credere che non tutte le esperienze si pongono in questa direzione, e che per molti Centri l'inte­grazione dell'handicappato nella scuola è previ­sta solo per i bambini con lievi difficoltà (di ordine intellettivo e a volte di ordine motorio), mentre per i bambini più impegnativi su un piano riabilitativo viene giustificata la persistenza dei Centri di riabilitazione.

Ogni distinzione relativa al grado del deficit, che pregiudichi l'inserimento sociale del bam­bino, e la discriminazione fra i bambini scolariz­zabili e non, è funzionale al permanere dei Centri riabilitativi o di scuole speciali, la cui esistenza costituisce sempre una minaccia ed un ricatto a cui la scuola può continuamente ricorrere.

In questa operazione di apertura dei Centri il personale ha avuto un ruolo estremamente im­portante, sia partecipando alle attività scolasti­che nel senso di fornire un contributo sul piano educativo, assistenziale e riabilitativo, sia orga­nizzando nel Centro dei Servizi ambulatoriali per i bambini inseriti.

L'inserimento del personale dei Centri nella scuola non viene visto in modo univoco, ossia se deve partecipare più direttamente alle attività di­dattiche o se la sua specifica competenza è quel­la assistenziale e riabilitativa. Questo ha ripro­posto il rapporto fra momento educativo e didat­tico e quello riabilitativo, che in alcune situazio­ni, nonostante l'inserimento del bambino nella scuola normale, ha mantenuto la tradizionale se­parazione. In questo caso la riabilitazione funzio­nale mantiene il suo carattere ripetitivo, passiviz­zante e privo di motivazioni.

Altrove si è cercato di impostare un diverso rapporto fra questi due momenti; a tal proposito il lavoro svolto a Cutrofiano ha dimostrato che i bambini inseriti in un ambiente più ricco e moti­vante rifiutano inizialmente la fisioterapia, in quanto vissuta in modo passivizzante. La fisio­terapia, infatti, può determinare una fissazione della minorazione a livello del corpo, che rimane sempre qualcosa di estraneo affidato e gestito dal tecnico. Il nuovo ambiente ricco di interazio­ni, di scambi comunicativi e di esperienze corpo­ree pone il bambino, in modo diverso, di fronte al proprio corpo e alla propria minorazione; la cui riacquisizione è la premessa necessaria per ricercare ed utilizzare esperienze ed interventi tecnici, che ampliano la sua autonomia personale e sociale. Si delinea, pertanto, una globalità edu­cativo-sociale che diviene il fine principale dell'intervento, nel cui ambito si inseriscono gli in­terventi di carattere più propriamente riabilita­tivo.

Questa nuova prospettiva ha ribaltato il ruolo e le funzioni del personale dei Centri di riabilita­zione che ha dovuto confrontarsi con le strutture scolastiche rispondendo in modo più flessibile ed articolato, se non si voleva riproporre il la­voro interno dei centri.

Tale riconversione funzionale del personale pone dei complessi problemi risolvibili solo se l'apertura del Centro corrisponde a una reale ma­turazione di un folto nucleo di operatori e se in ogni caso il processo di trasformazione viene ge­stito collettivamente, con una prima responsa­bilità di tutti.

Nell'incontro con la scuola ci sembra negativo il fatto che il personale del Centro assuma una funzione direttiva e di egemonia rispetto agli in­segnanti come d'altra parte affidare la gestione esclusivamente alla scuola limitandosi soltanto a proporre il problema del bambino handicappato. Ci sembra interessante la posizione degli opera­tori dei Centri Abetina di Milano che si propon­gono, con l'inserimento dei bambini handicappati, di fornire una proposta di sperimentazione didat­tica che modifica profondamente la rigidità dell'organizzazione didattica stessa, in modo da vi­vacizzare la classe ed impostare un lavoro per piccoli gruppi in cui ogni bambino trovi più facil­mente il proprio spazio all'interno di proposte di lavoro motivate dalle esigenze e dai desideri dei bambini stessi.

Una delle carenze maggiori della documenta­zione, intenzionale o no, riguarda una analisi approfondita della risposta della scuola all'inte­grazione dell'handicappato. C'è da premettere che la risposta della scuola è diversa a seconda delle caratteristiche culturali, sociali ed econo­miche della zona e se avviene in una zona rurale od urbana. Una maggiore accettazione si verifica nelle zone rurali, dove esiste una maggiore tol­leranza del personale scolastico e delle famiglie, anche per il carattere meno competitivo e meri­tocratico della scuola. Altrove la situazione ap­pare più rigida e selettiva, resa ancora più pre­caria dall'alto numero dei bambini per ogni clas­se. In queste scuole l'inserimento del bambino handicappato appare più problematico e la sua presenza suscita tensioni e forti tendenze espul­sive.

L'inserimento del bambino handicappato in una struttura scolastico tradizionale, quantunque po­sitivo rispetto alla permanenza nel Centro di ria­bilitazione, può significare l'adattamento del bambino ad una organizzazione che non si pone l'obbiettivo di rispondere ai suoi bisogni. La rela­zione del Centro di Bari conferma tale orienta­mento con l'affermazione che «la scuola a tem­po pieno è oggi la struttura più idonea per favo­rire la formazione globale dell'individuo, non per­ché utilizza nuove metodiche, ma perché, dispo­nendo di un tempo più lungo, consente una più valida integrazione».

Queste considerazioni ci sembrano inaccetta­bili perché riconfermano e valorizzano l'attuale struttura scolastica, che può utilizzare la pre­senza dell'handicappato, anche grave, come alibi per non rimettere in discussione la propria orga­nizzazione. Ciò è riconfermato dal fatto che in alcune situazioni si verifica una maggiore accet­tazione dell'handicappato, che ha difficoltà a por­re in modo attivo i propri bisogni, mentre il bam­bino cosiddetto «caratteriale», in cui si verifica una domanda urgente e a volte esplosiva, viene più facilmente espulso. Si corre il rischio che la selettività della scuola rimanga invariata e che sia mascherata da una accettazione dell'handi­cappato, mentre il bambino proveniente dalle classi sociali più disagiate sia oggetto di selezio­ne e di emarginazione.

In altre situazioni (come l'esperienza positiva dei Centri Abetina di Milano) l'inserimento dell'handicappato ha comportato un rapporto dialet­tico fra scuola normale e Centro di riabilitazione che «fin dall'inizio si pregni di contenuti che via via si confrontano, si verificano, si sviluppano su obbiettivi sempre più precisi». L'inserimento del bambino handicappato ha significato un'ope­ra di sensibilizzazione degli insegnanti al pro­blema dell'esclusione, a cui è conseguito uno sforzo di strutturare in modo meno selettivo l'at­tività della classe.

A questo punto ci sembra opportuno introdur­re le esperienze partite direttamente dalla scuo­la proprio perché ripercorrono alcune tematiche che abbiamo affrontato, ossia il rifiuto della selet­tività e la ricerca di una didattica alternativa.

Numerosi gruppi di insegnanti, come ad esem­pio quelli del Movimento di Cooperazione Educa­tiva, partendo da queste premesse hanno cercato di realizzare un gruppo-classe non selettivo e in grado di accettare i diversi livelli espressivi e maturativi individuali, compreso il bambino con handicap o il bambino con difficoltà psicologiche.

In questa direzione si è cercato di limitare al massimo le incentivazioni esterne (voti, giudizi ecc.) favorendo l'accettazione nei gruppi dei di­versi risultati ed evitando ogni spirito competi­tivo. D'altra parte si è cercato di impostare il lavoro in modo da accogliere i diversi dislivelli sul piano intellettivo o comportamentale, senza che la presenza del bambino handicappato inci­desse negativamente sullo sviluppo delle classi (esperienza delle classi sperimentali della Scuo­la Regina Margherita di Roma).

Si sono elaborati dei piani di lavoro non rigidi, articolati in modo da offrire degli stimoli e dei contenuti che potessero, a vari livelli, essere re­cepiti anche dai bambini deficitari.

Questo diverso modo di operare suscita anche un diverso rapporto fra gli operatori, un «col­lettivo di lavoro» (Scuola elementare di Monte S. Savino, Arezzo), nel quale le diverse e reci­proche competenze si integrano in un modo nuovo di gestire la scuola.

Questo diverso modo di concepire e fare la scuola ha comportato inevitabili contrasti ed at­triti fra il personale insegnante, soprattutto in quelle situazioni in cui si contrapponevano grup­pi diversi. Nell'esperienza di Prato il contrasto nella scuola si è evidenziato fra le insegnanti statali dei turni del mattino e quelle del dopo­scuola, inviate dal Comune, in merito agli obiet­tivi pedagogici e al diverso modo di porsi riguar­do agli alunni.

Tali contrasti ci sembrano vitali per ampliare il dibattito nella scuola, aperto anche alle com­ponenti sociali, fermo restando il fatto che oc­corre tener conto dei molteplici condizionamenti, sia di ordine formativo che operativo che limi­tano l'azione degli insegnanti.

La presenza di operatori assistenziali può for­nire un utile contributo al superamento di tali problemi se si integrano nel lavoro con gli inse­gnanti e riescono così a sostenere le diverse ini­ziative. In questo clima di collaborazione posso­no essere superate le reazioni degli insegnanti all'inserimento del bambino handicappato, sia che riguardi il timore di non essere adeguati su un piano didattico, sia che riguardi la difficoltà ad accettare i comportamenti insoliti o inade­guati del bambino, sia infine la preoccupazione di doversi occupare esclusivamente di questo, tra­scurando il gruppo scolastico.

Un dato comune di tutte le esperienze di inserimento riguarda gli effetti positivi verificatisi nei bambini handicappati, anche nei casi di mag­giore compromissione personale e sociale, come nell'esperienza di Cutrofiano. In particolare nelle situazioni in cui si era creato un nuovo clima educativo l'approccio alla nuova realtà della scuola ha comportato un radicale mutamento del­le condizioni di vita del bambino handicappato. Mentre nel centro l'adulto aveva un ruolo premi­nente di guida e di mediazione dei rapporti, nel gruppo-classe il bambino si è inserito in una rete di relazioni e in un campo di esperienze, nel quale la presenza di altri bambini assumeva una importanza decisiva. Anche la fase iniziale di di­sorientamento e di frustrazione è stata utilmen­te superata con il sostegno del gruppo e dell'in­segnante, creando un vivace rapporto di stimolo e di confronto.

La presenza di bambini deficitari nel gruppo­classe ha naturalmente sollecitato interesse fra i bambini, le cui domande hanno trovato delle esaurienti risposte, qualora il problema del de­ficit è stato affrontato in termini realistici e non valutativi. La presenza del bambino diverso può essere uno stimolo importante sui piano socia­lizzativo per l'intero gruppo-classe. Non solo per l'accettazione e la collaborazione con il bambino handicappato ma anche per il riconoscimento del­la diversità e della legittimità delle esigenze di ogni componente del gruppo.

Un ultimo aspetto che ci interessa sollevare riguarda la risposta delle famiglie e più in gene­rale della comunità all'inserimento dell'handicap­pato. È difficile darne una valutazione esauriente, tuttavia ci sembra che quanto più questo proces­so ha comportato un coinvolgimento delle strut­ture democratiche di base o dei comitati scuola-­famiglia tanto più si è riusciti a superare perples­sità ed ostilità iniziali, evidenziando la sostanzia­le identità dell'obbiettivo di ottenere una scuola diversa.

Una maggiore solidarietà si è costruita nei quartieri popolari, come ci hanno riferito anche gli operatori di Livorno, perché fra la popolazio­ne era più matura la coscienza riguardo ai pro­blemi dell'infanzia e della scuola.

Anche le famiglie dei bambini handicappati si sono spesso modificate nel rapporto con la scuo­la, perché è avvenuta una rottura dell'isolamento della famiglia ed il problema del bambino si è socializzato, perdendo una connotazione privata ed assumendo una dimensione più reale.

Le dinamiche intrafamiliari si sono modificate, con una maggiore consapevolezza dei conflitti e delle ambivalenze, che avevano ulteriormente li­mitato le possibilità di esperienza autonoma da parte del bambino.

Dopo aver trattato gli interventi dei Centri di riabilitazione e della scuola, entrambi condizio­nati dalla settorialità o dalla limitazione spaziale dell'esperienza, ci interessa affrontare le espe­rienze svolte a livello di un territorio gestite di­rettamente da un Ente Locale.

Le caratteristiche di queste esperienze, per lo meno quelle più significative (Reggio Emilia, Arezzo, Sesto S. Giovanni, Sassuolo ecc.), sono:

a) gestione da parte della struttura demo­cratica dell'Ente Locale (Comune, Consorzio di Comuni o Provincia) in grado di esprimere i bi­sogni della popolazione del territorio;

b) intervento complessivo su un ambito ter­ritoriale riguardante tutti i problemi dell'infanzia in modo da garantire il pieno sviluppo e l'inseri­mento sociale di ogni bambino, compreso quello handicappato, evitando ogni forma di esclusione e di istituzionalizzazione;

c) programmazione e gestione pubblica dei servizi, non condizionati da una conduzione privatistica dell'assistenza.

In queste situazioni si sono verificate delle convergenze importanti fra gli amministratori de­gli Enti Locali e gruppi di operatori, spesso sol­lecitati, come si è verificato nel comune di Bolzano, dalle forze sindacali e da gruppi di familiari.

L'esperienza effettuata a livello della Provincia di Reggio Emilia ha comportato la creazione di Consorzi intercomunali territoriali socio-sanitari, articolati nei servizi di medicina scolastica, di igiene mentale e del lavoro, nel cui ambito ope­rano specificamente équipes territoriali che in­tervengono su tutto l'arco dei problemi dell'in­fanzia (dagli istituti agli asili-nido e alle scuole).

Queste équipes hanno svolto un lavoro positi­vo contro l’istituzionalizzazione infantile stimo­lando la creazione di servizi aperti per l'infanzia, in grado di rispondere ai diversi bisogni emer­genti, evitando ogni forma di psichiatrizzazione del bisogno. Anche a livello di scuola si è espli­cato l'intervento, quantunque la convenzione con il Ministero della Pubblica Istruzione limita in modo evidente i servizi territoriali, cercando al contrario di privilegiare i servizi interni alla scuola.

In questo ambito le équipes dipendenti dall'En­te locale possono svolgere una efficace azione preventiva sull'intera popolazione infantile e so­stenere l'inserimento degli handicappati sia met­tendo a disposizione dei propri operatori educa­tivi o assistenziali, sia creando dei servizi inte­grativi sia infine istituendo servizi territoriali (co­me ad esempio centri ricreativi o sociali di quar­tiere) maggiormente flessibili. Questi interventi hanno portato in molti Comuni a ridurre in modo considerevole il numero dei bambini ricoverati in Istituti (spesso anche al di fuori del proprio ter­ritorio), a chiudere Scuole speciali o Centri di riabilitazione, utilizzando e riqualificando il per­sonale per i servizi territoriali.

È quanto si è verificato ad esempio nel Comu­ne di Sassuolo (Modena) dove sono stati reinse­riti 54 bambini handicappati, di cui 33 provenienti da istituti medico-psico-pedagogici, oppure a Se­sto San Giovanni dove la Scuola speciale si è ridotta da 139 alunni a 35 nella prospettiva di chiudersi definitivamente.

A Reggio Emilia il 90-95% dei bambini handi­cappati del territorio sono stati inseriti nelle scuole normali, oppure a Livorno dove 40 bam­bini delle Scuole speciali sono stati reinseriti.

I dati da noi forniti, quantunque parziali, sono indicativi di una situazione che si sta muovendo in vari Comuni italiani in modo sempre più con­sistente e significativo.

Rimane tuttora il problema dell'Italia centrale e meridionale dove i tentativi effettuati in questa direzione sono tuttora scarsi e poco incisivi, sia per l'arretratezza degli Enti locali sia per gli in­teressi privatistici nel settore dell'assistenza.

Dobbiamo ricordare che il meridione dell'Italia costituisce ancora oggi il serbatoio della isti­tuzionalizzazione infantile, che avviene al di fuori dei confini meridionali in molti istituti del nord o dell'Italia centrale.

 

Considerazioni conclusive

La serie di documenti sulla integrazione scola­stica di bambini handicappati, presentata come nostro contributo alla tavola rotonda sul «Ri­schio psicopatologico e la scuola», ha voluto porre in evidenza sia i nuovi orientamenti della scuola e le difficoltà e le chiusure rilevate nelle varie situazioni e nell'incontro, non sempre fa­cile, tra utenti, operatori tecnici e scolastici, sia la funzione degli Enti locali, come indispensabili interlocutori per la programmazione ed il coor­dinamento dei servizi scolastici, assistenziali e sanitari.

Nell'ambito scolastico le esperienze positive già ottenute in questa fase iniziale riguardano indubbiamente i bambini handicappati, rispetto alla precedente segregazione nella scuola spe­ciale, ma soprattutto la scuola stessa e gli inse­gnanti, che sono stati sollecitati alla presa di co­scienza di istanze di rinnovamento metodologico per tutti i bambini e del nuovo ruolo che loro compete nell'ambito di una più ampia politica di prevenzione e di sicurezza sociale. Inoltre la ve­rifica, nella prassi, della correttezza delle linee proposte nella lotta contro l'emarginazione eser­cita un'azione di volano per moltiplicare le espe­rienze fino alla completa accettazione di esse e per combattere le resistenze manifestate da par­te di un sistema repressivo e di conservazione, di cui l'istituzione scolastica rappresenta uno de­gli strumenti più validi.

Sarebbe tuttavia ingenuo e pericoloso fermar­si - con un atteggiamento acritico e trionfali­stico - all'analisi delle esperienze positive, sen­za porre in evidenza, per analizzarle fino in fon­do, le molteplici contraddizioni che fin d'ora si rilevano ed il pericolo che una istituzione totale, quale è la scuola, metta in opera - per salvare i suoi tradizionali principi selettivi - i ben noti meccanismi di assorbimento di ogni istanza in­novativa, che presenti dei valori che non posso­no più essere direttamente rifiutati.

Ci sembra dunque importante elencare alcuni dei pericoli che si profilano nella lotta contro l'emarginazione del bambino «diverso», nell'am­bito della scuola, intesa come agenzia sociale primaria, o come «fabbrica di disadattati», se­condo una definizione ormai nota nel nostro paese.

Un primo pericolo è costituito dalla strategia dei rinvii, imputati ad intralci burocratici, ad esi­genze di bilancio ed a carenze di strutture e di personale, che esprimono solamente il potere della burocrazia a difesa di se stessa e di un certo sistema. Questa strategia viene facilitata dalla carenza di una corretta programmazione dei servizi scolastici, che sia collegata ai reali biso­gni di tutta la popolazione infantile, dalla mancanza di ogni controllo sociale sulle strutture autoritarie e centralizzate della scuola, dal di­stacco di tali strutture dall'Ente locale, che finora è stato delegato soltanto a fornire servizi esecu­tivi (edilizia scolastica, personale subalterno) e non ad esprimere le scelte politiche e culturali emergenti dalla collettività, che costituiscono la base di ogni vera riforma scolastica ed il conte­nuto di ogni didattica alternativa.

Un secondo pericolo sta nella accettazione for­male dell'handicappato in una scuola, la cui or­ganizzazione, non adeguata ai bisogni di ogni bambino, di fatto lo escluda, isolandolo nella stessa classe, oppure, attraverso un alibi razio­nalizzante e caritativo, lo «accetti», mantenen­do però inalterata la sua struttura selettiva e se­gregandolo nuovamente nelle «classi sperimen­tali (ex differenziali)», secondo una dizione assai significativa, ancora usata nelle circolari del Mi­nistero della Pubblica Istruzione, a livello di scuo­la media, o nelle «classi di rotazione» delle ele­mentari.

In tale ambito si inserisce la tendenza assi­stenzialistica e razionalizzatrice della scuola, quando si insiste su generici momenti di inte­grazione apparente, come la ricreazione e la refe­zione, che possono essere accettati solo se co­stituiscono le tappe programmate di un inseri­mento globale. Anche il criterio dell'età crono­logica costituisce un sottile argomento di poten­ziale esclusione, finché la scuola regola i suoi parametri sulla selezione meritocratica, secondo i tradizionali programmi nozionistici. Così l'han­dicappato rischia di rimanere «parcheggiato» nelle scuole materne, considerate ancora come pre-scuola e non come prima scuola dell'infan­zia, per esserne poi «rigorosamente» escluso quando supera i sei anni, come sancito anche da una recentissima circolare ministeriale - che, per la verità, ha già suscitato energiche prote­ste a livello locale e parlamentare - in cui si parla testualmente «della presenza nelle sezio­ni speciali di scuola materna di soggetti di età a volte notevolmente superiore ai sei anni, per lo più non suscettibili di trattamento pedagogico neanche a livello di scuola materna». Ma, per evitare l'accusa di un rifiuto di assistenza, la cir­colare si affrettava a precisare che occorre evi­tare «il determinarsi di situazioni per le quali l'attività propriamente didattica della scuola spe­ciale si appalesi del tutto secondaria rispetto al­le attività strettamente terapeutiche».

Questa chiamata in causa dei tecnici delle cu­re mediche in contrasto con «l'attività didatti­ca» introduce un terzo pericolo, rappresentato dalla tendenza ad aumentare il numero dei tecni­ci specializzati nell'ambito della scuola, senza fornire contemporaneamente un numero suffi­ciente di insegnanti, di terapisti e di personale ausiliario, che rappresentano la premessa indi­spensabile per una positiva integrazione dell'handicappato. Tale carenza costituisce una sor­ta di «barriera» nel rapporto interpersonale, as­sai più grave della più grossolana evidenza delle «barriere architettoniche», sulle quali tanto si insiste, almeno a parole.

L'aumento nelle scuole di figure come lo psi­chiatra, lo psicologo e l'assistente sociale ri­sponde, in sostanza, più al tentativo di trasferire su di esse la responsabilità di eventuali esclu­sioni o fallimenti che all'esigenza di una assi­stenza più qualificata e dell'apertura di un più ampio confronto con gli operatori della scuola, che viene invece spesso apertamente ostacolato.

Un quarto pericolo consiste nel sostenere il primato della riabilitazione come premessa in­dispensabile ad una successiva socializzazione. Tale impostazione ha già fornito la giustificazio­ne scientifica e ideologica delle istituzioni se­greganti (scuole e istituti speciali, centri di ria­bilitazione, laboratori protetti) ma rischia ancora di avere un certo credito tra gli stessi sosteni­tori della integrazione dell'handicappato, quando sono posti di fronte a difficoltà che, il più delle volte, sono non «obbiettive» ed insuperabili ma presentate come tali per un'abile manipolazione preliminare o perché derivano, appunto, diretta­mente dalla separazione dei momenti riabilitativo e socializzante, i quali non possono che essere strettamente contestuali, per evitare che l'inse­rimento sociale venga rinviato sine die, sotto la falsa copertura di una riabilitazione permanente.

 

 

Bibliografia

1) AMMANITI M., L'istituzionalizzazione del ragazzo defi­citario, Sussidi tecnici dell'A.A.I.

2) BALSARINO T., CONDORELLI M., Inserimento di sog­getti spastici nelle scuole pubbliche normali di Catania, in Atti del Convegno «Dalla scuola speciale alla scuola pubblica integrata», Cosenza, 18-20 giugno 1973

3) BONAIUTI R., Una alternativa all'esclusione: l'espe­rienza di Monte S. Savino, in Fogli di informazione 7, 199, 1973

4) CANCRINI L., Le difficoltà di una profonda inversione, in Riforma della Scuola n. 1, 23, 1974

5) D'AMATO N., Esperimento pilota di scuola integrata con inserimento di bambini spastici, in Atti del Con­vegno «Dalla scuola speciale alla scuola pubblica inte­grata», Cosenza, 18-20 giugno 1973

6) D'ALFONSO L., Esperienza di inserimento di ragazzi handicappati in scuola normale, in Fogli di informazio­ne 7, 238, 1973

7) DI GENNARO C., Esperienze di scuola integrata, in At­ti del Convegno «Dalla scuola speciale alla scuola pubblica integrata», Cosenza, 18-20 giugno 1973

8) DE LUCA G., Al comune di Sesto S. Giovanni, in Ri­forma della Scuola n. 1, 32, 1974

9) DINELLI S., Al Centro di Cutrofiano, in Riforma della Scuola n. 1, 24, 1974

10) Documento In provincia di Modena, in Riforma della Scuola n. 1, 34, 1974

11) Articoli sull'inserimento di bambini spastici nella scuo­la pubblica effettuati dalle sezioni Aias di Empoli, Firenze, Milano e Prato dal documento Inserimento di bambini spastici nella scuola pubblica, Roma 1973

12) Documento I centri per subnormali dell'Abetina a cura degli operatori del centra di Via Ravenna, Via Adriano e Via Salieri Milano, in Fogli di informazione 15, 265, 1974

13) Documento Scuola e doposcuola a Prato, in Riforma della Scuola n. 1, 29, 1974

14) GINZGURG A., AMMANNITI M., Una esperienza di In­tegrazione di bambini deficitari in una scuola materna, in Assistenza d'oggi, 3, giugno 1971

15) MAURO F., Un esperimento di scuola integrata, in Pro­mozione Sociale 12, 9, 1973

16) MEO SOSSO J., Una esperienza di scuola integrata, in Prospettive assistenziali n. 22, aprile-giugno 1973

17) RICCI G., Considerazioni dell'inserimento dei bambini spastici nella scuola pubblica, in Atti del Convegno «Dalla scuola speciale alla scuola pubblica integrata», Cosenza, 18-20 giugno 1973

18) RICCI G., SPALLINA RICCI R., Una esperienza di inte­grazione nella scuola normale di bambini con esiti di cerebropatie infantili

19) SCALFARI V., ZIRILLI M., Bambini handicappati a scuo­la con gli altri, in Inchiesta n. 13, 61, 1974

 

www.fondazionepromozionesociale.it