Prospettive assistenziali, n. 27, luglio-settembre 1974

 

 

ATTUALITÀ

 

ESPERIENZE DI INSERIMENTO DI HANDICAPPATI

 

 

Come si legge nella pubblicazione dell'Amministrazione provinciale di Parma «L'inserimento sociale degli handicappati», 1974, ebbe inizio nel 1971 l'impegno per una soluzione nuova al problema dell'inserimento nella società di ragazzi che comunemente vengono classificati subnormali, handi­cappati psichici, mongoloidi, disadattati, ritardati, caratteriali, minorati, ecc. L'indirizzo perseguito dall'Amministrazione provinciale è stato quello, verificato continuamente dalle esperienze concrete che via via venivano at­tuate, di orientare gli interventi in una direzione di rottura e di alternativa ai contenuti di emarginazione e di segregazione che rappresentano l'unica prospettiva assegnata ai minori in istituto.

Sono stati tolti dagli istituti oltre 350 ragazzi, sono stati evitati molti altri ricoveri, si è provveduto all'inserimento scolastico di minori subnor­mali e al collocamento lavorativo di 61 ragazzi handicappati: 36 in ditte private e 25 in aziende pubbliche.

Tra i giovani che sono stati regolarmente assunti dalla ditta Salvarani, ce n'è uno di cui la diagnosi dell'istituto era di totale irrecuperabilità. Nella cartella clinica era infatti scritto: «È perciò necessario prorogare il rico­vero ai fini della tutela, della contenzione, oltre che far ottenere un miglio­ramento della condotta».

Afferma l'Assessore all'assistenza della Provincia di Parma, Tommasini: «L'inserimento di questi giovani rafforza, dunque, la nostra profonda con­vinzione che la fabbrica debba sempre più decisamente assolvere una fun­zione sociale di promozione dei momenti di solidarietà concreta che la qua­lificano - anche in questo settore - essere una delle principali compo­nenti del processo di sviluppo democratico» ... «Uno degli aspetti princi­pali che il movimento operaio e democratico dibatte, riguarda l'estensione di nuovi spazi di democrazia e di progresso anche dentro i luoghi di lavoro, cioè la creazione di nuove condizioni, di nuovi rapporti, di un controllo diretto dei lavoratori sulle condizioni di salute e la creazione di una organiz­zazione produttiva commisurata ai bisogni dei lavoratori e alle loro reali possibilità produttive».

Quando c'è la volontà politica, possono essere vinte anche difficoltà che a prima vista sembrano insormontabili: la testimonianza che riportiamo è un esempio.

 

 

DESCRIZIONE DI UN'ESPERIENZA

 

Quindici mesi fa, io e mia moglie cominciam­mo un nuovo genere di lavoro e prendemmo in casa sei ragazzi che erano provvisori all'istituto «Montagnana» e provenivano da un cronicario dell'istituto di Sospiro in Cremona.

Erano ragazzi che non avevano mai avuto una famiglia e una casa. I primi giorni erano imba­razzati nel vedere l'arredamento ed avevano pau­ra di romperlo o di sporcarlo. Non avevano mai avuto un vestito nuovo perché si diceva che se li sarebbero strappati da dosso e li avrebbero sporcati. Non li lasciavano mai uscire dall'istitu­to perché giudicati pericolosi e incapaci di com­prendere qualcosa. Non sapevano lavarsi e man­giavano con le mani.

Insomma si diceva di loro che non c'era niente da fare e che erano irrecuperabili. La madre di uno di questi ragazzi, una povera vecchia che vi­ve tuttora in un ricovero, ricevette una lettera dal direttore dell'istituto di Sospiro, in cui si af­fermava che suo figlio doveva essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché gravemente ammalato. (Il ragazzo aveva appena 13 anni ed erano 10 anni che era a Sospiro).

Per noi invece questa affermazione risultava negativa: le cartelle cliniche con tanto di quo­ziente intellettivo bassissimo non corrispondeva­no alla realtà. Noi abbiamo offerto anche a lui dal primo giorno una vita normale e libera, come tutti i figli di famiglia, ed è stato sufficiente qual­che mese, a lui come agli altri, perché imparasse a lavarsi, a usare le posate e andare vestito in ordine.

Per uscire poi in città, nei primi mesi, i ragazzi restarono tutti insieme. Insegnammo loro a cono­scere e distinguere i vari punti della città, i ne­gozi, a servirsi dell'autobus, a recarsi al cinema. Da noi hanno appreso a conoscere il valore del denaro (piccole somme che facevamo loro spen­dere di proposito per comperare il gelato, pagare l'autobus e il cinema).

Dopo poco tempo non hanno più avuto bisogno di noi. Perché si sentissero più liberi, abbiamo dato loro le chiavi di casa, così potevano entrare e uscire quando volevano, senza nessun con­trollo.

Prima di venire con noi prendevano dei tran­quillanti e altri psicofarmaci, noi invece abbiamo sostituito agli psicofarmaci un trattamento più idoneo, più umano e distensivo che abolisse le cause del ricorso a tali medicamenti. Così da due anni, questi ragazzi non hanno più avuto bisogno di psicofarmaci. Ci avevano detto che uno aveva delle convulsioni, ma a noi non risulta.

Dopo tre o quattro mesi abbiamo pensato di in­serirli nell'ambiente di lavoro.

Pensammo di trovare dei compagni che ci des­sero un aiuto nelle fabbriche: trovammo per pri­mo R.B., operaio in una fabbrica di S. Ilario d'En­za (Reggio E.) e gli spiegammo le condizioni di questi ragazzi e il bisogno di inserirli nella vita normale.

Lui parlò con il datore di lavoro. Costui rispo­se che li avrebbe presi in prova uno alla volta, per vederne il rendimento. Se rendevano li tene­va altrimenti tornavano a casa.

Guglielmo G. fu il primo ragazzo ad essere in­serito in fabbrica e venne assegnato al reparto maniglie (nella fabbrica della latta). Avete pre­sente le tipiche latte da olio da 5 chili, munite ai fianchi di due manettine? Lui prendeva queste maniglie e le teneva al loro posto, mentre un al­tro operaio le saldava. Guglielmo dette subito buona impressione. Ma aveva paura: c'erano le macchine con i loro rumori infernali e molta gen­te. Agli operai sembrava che arrivasse da un al­tro pianeta. Dopo 3 o 4 giorni gli andò via la ti­midezza. Cominciò a comunicare con i compagni, ad osservare meglio le macchine.

Io avevo già parlato con i compagni di lavoro perché dessero il loro contributo morale e ma­teriale a questo ragazzo. Spiegai che era povero come noi, che non aveva nessuno, che i dottori avevano detto che era irrecuperabile. Ricordo di avere anche detto: «Se va bene con questo pro­viamo con un altro più difficile». Guglielmo dette dimostrazioni positive, imparò a parlare, imparò a ridere, fece progressi in tutto. Svolse il suo la­voro per filo e per segno, era rispettoso, esigen­te verso se stesso, preciso.

Tutti sono recuperabili, chi più chi meno. Ba­sta che li lascino vivere insieme agli altri. Guglielmo passò ad altri lavori. Era andata bene.

Dopo 15 giorni chiedemmo che ne assumesse un altro, e anche questo fu assunto in prova, Giorgio A., che giocava con un trenino, con le fi­gurine, aveva una assoluta paura di tutto.

In fabbrica non sapeva più dove guardare, dove fare il nido, era spaventato dal baccano, dal mar­tellare continuo delle presse in azione.

La fabbrica della latta consiste in questo: ci sono tante linee con delle presse enormi; ci so­no degli stampi che premono contro dei fogli di latta secondo lo spessore del tipo che va fatto: esce un coperchio ad una velocità incredibile, circa 5.000 coperchi al minuto.

Non c'è una sola macchina ma una linea intera, la FA.BA ne ha 8, e se 8 di queste macchine fan­no impressione a uno di noi, figuriamoci ad un ra­gazzo in quelle condizioni di paura.

I coperchi bisogna prenderli, deporli sopra un pancale, piegarli dentro un foglio, stringerli be­ne, depositarli dentro una cassettina di cartone, incollarli e fare dei pancali per portarli via. Solo che Giorgio non sapeva fare i movimenti.

Si vedeva che le sue mani sfuggivano alla ne­cessaria coordinazione, insomma era sbalestrato. Noi lo tenevamo sempre d'occhio, perché, per i primi giorni, nemmeno una persona normale che sia inesperta ai lavori alla catena riesce a svol­gere un determinato compito.

Il padrone lo sospese, non lo voleva più. Giorgio andò a casa a piangere e a giocare col solito trenino. Noi proponemmo al padrone che gli des­se un altro lavoro, più semplice, ma il padrone si rifiutò: o quel lavoro oppure metteva quel ragaz­zo fuori dalla fabbrica. «Dategli una scopa, se gi­ra qua e là arriverà a capire qualcosa. Il lavoro alle presse è difficile per un elemento normale» facemmo notare. Il padrone alla fine ci domandò se eravamo disposti ad insegnargli. Ci riunimmo e decidemmo che non avremmo abbandonato Giorgio a se stesso. Allora andai in fabbrica in­sieme all'assistente sociale Angela G. e all'ami­co B. Discutemmo a lungo col datore di lavoro che voleva licenziarlo a tutti i costi e riuscimmo a fare proseguire il periodo di prova ancora per qualche settimana a condizione che io andassi in fabbrica ad insegnare al ragazzo, poiché loro non avevano tempo.

Il ritorno di Giorgio fu accolto con gioia da tut­ti gli operai. Gli cambiarono lavoro assegnandolo al forno. Dopo che i coperchi escono dallo stam­po, passano sotto una macchina che spolvera una specie di colla. Sempre il medesimo lavoro; bisogna prendere i coperchi e fare il lavoro che ho spiegato. Giorgio lavorò al forno con piacere e volontà: lavorò alla pressa a pedale e svolse tutte le altre mansioni che gli si chiedeva di fare. Noi e il padrone dicevamo che il ragazzo andava meglio, che migliorava di giorno in giorno. La mia presenza in fabbrica non fu più necessaria, ma chiesi agli operai di stargli vicino. In un me­se imparò da solo a riconoscere i guasti delle macchine, a portare i pezzi di ricambio adatti al caso. Ripeto: dopo un mese!

Gli operai gli insegnarono le prime parole che riguardavano la sua vita di operaio: frigor, fab­bro, barattoli, ecc.

Imparò da solo a timbrare il cartellino. Prima erano i compagni a farlo, ma poi capirono che ci restava male e allora lo lasciarono fare e lui sep­pe arrangiarsi anche in questo.

Gli affidarono le chiavi degli armadietti. Gli pia­cevano molto il giubbotto da operaio, la tuta e la borsa con il cibo da mostrare. Era sempre in movimento felice e contento del proprio lavoro come un manovale generico promosso alla quali­fica di operaio specializzato.

Accorreva tutte le volte che un compagno si procurava una ferita dicendo che lui stava atten­to e che non si sarebbe mai tagliato. (Ma poi an­che lui si ferì leggermente, e volle assicurare i compagni dicendo che lui non si era distratto nel lavoro).

Tornando dal lavoro in corriera con gli altri operai Giorgio imparò anche a cantare e a rac­contare le sue confidenze.

Disse che in istituto gli facevano picchiare gli altri compagni. Ora è cambiato molto.

Gli operai non sono capaci di misurarlo come un professore, ma per tutti loro, compagni di fab­brica, Giorgio è uno come loro. Giorgio ha capi­to che il mondo è bello anche se è molto difficile. Il ragazzo ha fatto molti lavori diversi e li ha fatti con sforzo, con la lotta, con la tensione; nelle cose metteva molta passione, si impegnava al massimo, di sua volontà. Ha sbagliato diverse volte, ma si è carretto, è sbagliando che si im­para.

Ma quello che gli è servito di più è l'essersi li­berato dall'istituto e di avere trovato dei compa­gni e delle compagne di lavoro che lo hanno aiu­tato tutti i giorni, sgridandolo e scherzando con lui, considerandolo in una parola un essere uma­no uguale agli altri. Oggi a distanza di dieci me­si, i ragazzi sono in grado di svolgere qualsiasi ti­po di lavoro.

Per quanto riguarda la retribuzione, dal primo giorno che sono entrati in fabbrica sono stati pa­gati con le tariffe sindacali.

Così continuammo anche per gli altri 4 ragazzi; ma anche con questi trovammo difficoltà coi da­tori di lavoro.

Per trovare chi assumesse i nostri 6 ragazzi abbiamo dovuto interpellare più di 20 datori di lavoro.

Quando sentivano che provenivano da istituti (spiegavamo le loro condizioni e il loro bisogno di inserirsi nella società), tutti trovavano delle scuse, rispondendo che non ne avevano bisogno.

Dopo averli inseriti nel lavoro, i ragazzi comin­ciavano a fare la loro esperienza e dopo quasi un anno di attività due di loro si sono messi per con­to proprio in un appartamento, si sono acquistati i mobili nuovi e ora pagano l'affitto, il vitto, la la­vanderia e gli altri fabbisogni personali, con i soldi che guadagnano lavorando.

Il perché dei cambiamenti dei ragazzi è dovuto sia al trattamento normale che hanno ricevuto da noi in famiglia, che tra gli operai che sono stati loro molto vicini e li hanno aiutati fin dai primi giorni e li hanno considerati come veri e propri compagni di lavoro.

Dobbiamo però tenere conto, per tutto questo, della politica svolta dall'Amministrazione provin­ciale e in particolare dell'impulso dato dall'asses­sore Mario Tommasini, perché il loro aiuto è sta­to essenziale. Prima di concludere voglio fare presente che io non sono un tecnico, sono un im­migrato meridionale, venuto a Parma in cerca di lavoro. Ho fatto il contadino, ho fatto l'operaio, poi l'infermiere. Ciò di cui io e mia moglie ci sia­mo preoccupati è di fare tutto quello che poteva­mo per aiutare questi ragazzi, senza alcun in­teresse.

Non è vero che chi è stato in istituto non sarà mai in grado di inserirsi nella società. Il nostro lavoro ci ha dimostrato chiaro e tondo il contra­rio. Quello che affermavano certi tecnici e certi medici pervasi da scetticismo, ossia che con questi ragazzi non c'era niente da fare, non è ve­ro. Questi ragazzi, se volete, potete visitarli in borgo Parente n. 33, a Parma. Chiedete spiegazio­ni a loro, non a me, perché non sono chiacchiere.

Dobbiamo trovarci tutti d'accordo sopra un pun­to, indipendentemente da qualsiasi tipo di ideo­logia politica. La nostra politica è quella di aiuta­re la povera gente, non è quella di vedere se un intervento è stato fatto dal comunista, dal socia­lista o dal cattolico, ma dobbiamo essere maturi, dobbiamo avere il coraggio di aiutare questa gen­te operando tutti insieme.

 

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