Prospettive assistenziali, n. 27, luglio-settembre 1974

 

 

STUDI

 

CLASSE, SALUTE E UNIVERSITÀ

GIULIO A. MACCACARO

 

 

Com'è noto, strettissimi sono i rapporti fra sanità e assistenza. Ma come si vuole una assistenza diversa, così è anche necessario che venga concepita in modo diverso la sanità.

L'articolo di G.A. Maccacaro, che per gentile concessione dell'Autore e dell'Editore abbiamo ripreso da «Notiziario del centro di documentazione» Pistoia, Casella postale 53, n. 2, marzo 1974, indica le basi sulle quali deve poggiare una nuova medicina, realmente a servizio della popolazione. Que­ste basi (ritiro della delega ai tecnici, individuazione di una dimensione «mentale» del proprio benessere-malessere, gruppi dei fattori di nocività, gruppo operaio omogeneo, rapporto fra fabbrica e territorio) non sono tra­sferibili meccanicamente nel campo dell'assistenza, ma possono e debbono costituire un preciso riferimento politico ed operativo per i servizi alternati­vi sanitari, scolastici e sociali in genere.

 

Presentazione

La classe e la salute di -cui vogliamo discutere sono, naturalmente, la salute della classe ope­rala: come problema politico e come problema medico. Vedremo poi come questo problema vie­ne assunto o negato nel tempo e nel luogo del suo diventare scientifico e didattico cioè uni­versitario.

Noi poniamo la salute della classe operaia al centro di ogni problema medico, scientifico e politico; e così proponendo la tesi che nella so­cietà capitalistica la conservazione ed il consu­mo di questa salute - conservazione misurata al consumo programmato - sono la posta di ciò che è politica ed il tema di ciò che è scienza, non crediamo di compiere una forzatura.

Ci riferiamo semplicemente, accettandone tut­te le implicazioni, ad una notissima e limpida frase di Marx «la classe operaia è l'unica che liberando sé libera anche gli altri uomini» per dire - con una piccola ma carretta parafrasi - che «la salute operaia è l'unica che, libe­rando sé, libera anche la salute degli altri uo­mini».

Se questo è vero, come noi crediamo, è allora anche vero -per riassumere brevemente cose già più volte dette e ribadite - che non si può operare per la salute degli uomini se non ponen­dosi dalla parte, ben precisa, di una scelta di classe ed è vero che fin quando si rimane - co­me medici, come politici, o come dissertatori di medicina e politica - nel compromesso fra le parti, non si opera per la liberazione della salute dell'uomo.

Infatti - nel comando capitalista e nell'ege­monia borghese, tanto più aggravantisi quanto più prossimi all'esaurimento del loro compito storico - non è più concessa alla medicina nes­suna neutralità, né l'illusione di averne.

Perdersi con il capitale o salvarsi con il lavoro: è l’unica scelta che rimane alla medicina, non co­me scelta morale, ma come scelta di scienza e di pratica. Pertanto è vero che portare i suoi prota­gonisti «ufficiali», i medici, a prendere coscien­za di ciò, significa indurli a «riconoscere e sce­gliere la propria collocazione di classe». Non ca­pire questa necessità e rinunciare a questo impegno, credere ancora che in medicina ci sia «contraddizione fra cultura e professione, fra scienza e profitto», come se questa scienza non fosse esattamente al servizio di quel profitto e quella cultura non fosse perfettamente strumen­tale a questa professione -, riscoprire l'inter­classismo in patologia ed inventare l'estremismo in medicina: tutto ciò è errato e pericoloso (oltre ogni buona intenzione) perché, di fatto, induce a ripiegare su quel moderatismo riformista cui si aggiorna il disegno non della classe operaia ma del suo antagonista storico, il capitale.

 

Capitale e salute operaia

Data questa premessa - intesa certamente ad aprire e non a chiudere un dibattito costrutti­vo con altre forze della sinistra - possiamo inoltrarci nel vivo del nostro tema rifacendoci ad un altro pensiero di Marx: «ad ogni accumula­zione di capitale corrisponde un'accumulazione di miseria, anche se crescono i salari». Credo che questo sia un corretto punto di partenza per noi, se intendiamo per «miseria crescente» il progressivo «impoverimento di salute» della classe operaia.

Non si vuol dire che questa interpretazione esaurisca il significato, ricchissimo, attribuito da Marx a quel termine ma si vuol dire che in quel termine è contenuto anche questo significato sul quale verte il nostro dibattito.

Infatti, dal suo nascere ad oggi, il capitalismo - giunto a forme più o meno mature secondo i paesi - non è stato che questo: appropriazione privata dei frutti del lavoro sociale come condi­zione necessaria per la riproduzione e l'accumu­lo del capitale stesso attraverso l'espropriazione del plus-valore che il capitalista, cui è concesso trattenere il profitto, opera sul lavoratore cui è imposto di cedere il suo plus-lavoro.

Da qui l'equazione: «plus-valore per il capita­lista = minus-salute per il lavoratore», tanto più valida quanto meno intesa in modo meccani­co e quanto più rivolta ad indicare che la sottra­zione di salute per la addizione di valore non av­viene soltanto nel momento lavorativo del rap­porto di produzione ma nell'imperioso realizzar­si della capacità di tale rapporto ad organizzare secondo la sua logica esattiva tutto il tempo e lo spazio, ogni modo e rapporto della vita dell'uo­mo, nella fabbrica e nella casa, nella città e sul territorio. Ecco perché il problema della salute operaia è così centrale, oggi in termini più ur­genti, ieri in modi forse meno apparenti, nella storia del capitale, nella storia del proletariato, cioè nella storia del loro scontro.

Per quanto riguarda il capitale ed i suoi rap­porti con la salute operaia, bisogna evitare due ingenuità già ricorse in altri dibattiti della sini­stra. La prima consiste nel prendere alla lettera un'altra frase, pure citatissima, di Marx: «il ca­pitale non ha riguardi per la salute e la vita dell'operaio, se non vi è costretto dalla società» per derivarne la conclusione che quanto venga fatto per la salute operaia è fuori degli interessi e della gestione del capitale. Vedremo, invece tra po­co, come il suo interesse a tale gestione sia di­ventato sempre più assiduo ed invadente.

La seconda consiste nel credere che, in ogni caso, un atteggiamento come quello ora detto appartenga al capitalista di un altro secolo, di vecchio stampo mentre il neo capitalista - più illuminato - si sarebbe reso conto che tanto mi­gliore è la salute del lavoratore tanto maggiore è il profitto del padrone, al quale converrebbe, in nome di questo, prendersi cura anche di quella. Se non lo facesse sarebbe per sostanziale arre­tratezza o mancanza di intelligenza capitalistica.

L'errore comune a queste due posizioni - sul­le quali, peraltro, non vorrei soffermarmi di più - è nell'attribuire al capitale una logica quali­tativa - la salute è un bene, la salute non è un bene - mentre la logica del capitale è assoluta­mente quantitativa. Non dimentichiamo, a con­ferma di ciò, che tutta la scienza borghese si è fondata sulla quantificazione della qualità per pri­vilegiarne il valore di scambio e che, se è lecito presentire una nascita della scienza proletaria, questa avrà, tra i suoi temi di fondo, la qualifica­zione della quantità per rivalutarne il valore d'uso.

Al padrone non interessa che la salute operaia sia schiacciata allo 0% o sia alzata al 100% della sua potenzialità: che si realizzi, cioè, come pre­senza o come assenza di qualità. A lui interessa, direi ancora più cinicamente, che si mantenga a quel livello, per quella quantità, cui corrisponde un costo di conservazione vantaggioso rispetto al ricavo di consumo. Infatti il modo di produzione capitalistico - così complesso e molteplice nel­la sua evoluzione e manifestazione - non fa - da sempre - che una semplice cosa: una conti­nua, enorme, programmata trasfusione dalle vene di un corpo sociale, la classe del lavoro, alle vene di un altro corpo sociale, la classe del capi­tale.

Ora il ricevente di questa trasfusione, nella mi­sura in cui è anche il padrone del donatore, non ha interesse né alla sua morte né al suo be­nessere.

Il suo interesse è, semplicemente, tenerlo in vita, a quel livello di «alimentazione» che costa meno del valore del sangue salassato e che può variare da tempo a tempo, da luogo a luogo. In questo senso si capisce come l'organizzazione scientifica del lavoro, (da Bedaux e Taylor, dalla psicotecnica all'ergonomia, dai cottimi ai MAC; etc. etc.) e, in fondo, il lavoro stesso della orga­nizzazione scientifica, sviluppatasi contestual­mente allo sviluppo capitalista, non abbiano avu­to che un tema di fondo: ottimizzare - cioè pro­grammare e gestire quantitativamente - la tra­sformazione del lavoro operaio in capitale varia­bile del padrone.

Nei forni di questa trasformazione brucia la sa­lute operaia, il cui valore è giudicato soltanto in base a parametri di questo tipo: volume della ri­serva, regolabilità del flusso, combustibilità in la­voro, cioè in plus-valore, e analoghi..

Il «nessun riguardo» di cui parla Marx è dun­que, naturalmente, per il valore d'uso che ne fa­rebbe il lavoratore: non certo per il valore di scambio che le assegna il capitale: il flusso del­la sua disponibilità è necessario alla produzione ma purché si disciplini ai programmi del profit­to; la quantità totale e la distribuzione locale di salute possono, anzi debbono, conoscere amplis­sime varianze perché attorno alla domanda me­dia continui il gioco dell'offerta.

 

Salute operaia e classe dominante

Alla luce delle considerazioni che abbiamo sin qui sviluppate si capisce allora abbastanza bene qual è la storia della salute operaia «dalla parte» del capitale.

1) In una prima fase, indifferenza assoluta e sfruttamento spietato fin quando e fin dove «l'ar­mata di riserva della forza lavoro» sembrava in grado di sostituire continuamente le vittime di un lavoro inumano. Erano i tempi in cui anche i bambini venivano calati nelle miniere, le donne si consumavano quattordici ore al giorno nelle filature, i contadini della bassa padana finivano in manicomio con la pellagra e se un operaio co­minciava a sputar sangue a vent'anni si diceva che nella sua famiglia erano deboli di petto. Però c'erano sempre altri uomini, altre donne, altri bambini in attesa davanti ai cancelli della fabbri­ca e a quelli dell'azienda agricola.

2) Contemporaneamente si avviava una secon­da fase corrispondente alla crescita esponenzia­le in estensione, pervasività e completezza del progetto capitalistico.

A questo progetto - alla sua esigenza fonda­mentale di programmare quantitativamente il la­voro ed il prodotto, l'investimento ed il profitto­ erano incompatibili e insopportabili le gravi per­turbazioni demografiche ed economiche prodotte, spesso con selvaggia imprevedibilità, dai morbi infettivi, epidemici ed endemici, nei centri stessi del nuovo sistema produttivo. Nasce così la nuo­va medicina - scientifica, fisicalista e borghese - largamente vittoriosa nelle battaglie impegna­te contro la patologia infettiva e parassitaria, ma soltanto là e dove questa interferisce con lo svi­luppo produttivo; efficacemente capace di tenere il controllo della situazione igienico-sanitaria, ma soltanto nei luoghi e nei tempi che le vengono via via indicati dalle scelte del capitale.

Si tratta di una medicina rivolta ad eliminare più che le malattie la loro irrazionalità, ad au­mentare più che la salute la sua convertibilità, a rassicurare più che a curare.

È una medicina che raggiunge almeno tre scopi:

a) ridurre a disciplina, come si è detto, una delle cause di possibile aleatorietà e perturba­zione del progetto capitalistico;

b) attribuire ad una natura, oscuramente an­tagonista, la causa di malattie pertanto definite ineluttabili e soprattutto «irresponsabili»;

c) affermare la materialità della malattia, di­mostrando la corrispondenza tra la specificità fi­sica della causa e quella dell'organo colpito: il bacillo di Koch produce la tubercolosi nei polmo­ni; la spirocheta luetica produce la sifilide nei ge­nitali; etc. Queste sono vere malattie e le altre, se son vere, devono essere come queste.

In questa fase l'intervento medico, oltreché diagnostico e terapeutico nel senso di una mag­gior sistemazione dell'empirismo tradizionale, è soprattutto igienico, profilattico e di polizia sa­nitaria.

La medicina, ormai egemonizzata dalla borghe­sia, la difende non solo contro la malattia ma an­che contro il malato del quale si ignora ancora la cura ma si certifica e si emargina la sventura che non va mai esente da un sospetto di debolezza o di colpa.

In questa fase l'assistenza è ancora per lo più caritativa, l'ospitale è luogo di derelitti, la salute operaia è un fatto individuale: cioè non esiste an­cora come problema di classe né da una parte né dall'altra: dall'altra esiste soltanto la preoccupa­zione di evitare inopinate calamità sanitarie sulla strada dello sviluppo capitalistico.

3) La fase successiva - che è sviluppo della precedente e vigilia dell'attuale - corrisponde ad una nuova immagine della salute operaia nello sguardo del capitale: non più inesauribile riserva per la sua domanda di forza-lavoro a qualsiasi condizione, e nemmeno più riserva controllabile con misure di polizia sanitaria di un combustibi­le necessario, ma tuttora vile sul metro dei costi di produzione.

La salute operaia diventa materia prima, essa stessa, da lavorare, trasformare, consumare togliendola all'uomo con la esosa attenzione e la razionalità tecnologica che guidano la lavorazio­ne, la trasformazione ed il consumo delle mate­rie prime tolte alla natura. Con l'organizzazione scientifica del lavoro l'operaio non è più soltanto l'utensile versatile ma è a sua volta un pezzo fre­sato, tornito, rettificato da altri utensili. La ca­tena è concepita e messa in moto per due fun­zioni reciprocamente necessarie: il montaggio della macchina e lo smontaggio dell'uomo. Alla completa industrializzazione della salute dell'uo­mo deve corrispondere la promessa che la salu­te dell'uomo è difesa dalla devozione dell'indu­stria. Inizia l'era del farmaco: eziologico prima, soprattutto con i chemioterapici e gli antibiotici, surrogativo poi con gli ormoni e le vitamine, sin­tomatico infine con gli analgesici e gli psicotropi.

Contemporaneamente per quella necessità di governo totale che è propria dello sviluppo capitalistico, il mutualismo passa a forme statali di esercizio che gestiscono la prestazione assicura­tiva con il sistema della capitalizzazione, idoneo ad assicurare un enorme ulteriore prelievo sui frutti del lavoro sociale; l'istituzione medica com­plessiva e l'ospedale generale in particolare ven­gono modellandosi come proiezione sanitaria del­la fabbrica per l'accentramento e la taylorizza­zione degli atti diagnostici e terapeutici; la me­dicina accademica e quella pratica enfatizzano come non mai il momento curativo per privilegia­re ed insieme dissimulare al suo interno il mo­mento riparativo.

Quando poi diventa troppo difficile nascondere la sostanziale e crescente inefficacia medica dell'apparato e dell'atto sanitario, il capitale tra­sforma quello che è il vero problema di funzione in problema di funzionamento da risolvere, natu­ralmente, in chiave di efficienza che, in un siste­ma dato, è sempre una domanda del potere co­stituito. Stabilite tali premesse è ancora il capi­tale che - come negli anni '60 - può chiedere allo Stato riforme, proporre Servizi che assuma­no ad un più alto livello di razionalità il compito di consumare conservandola e conservare consu­mandola la salute della classe operaia.

4) Ciò gli è tanto più necessario nel passaggio ad una quarta fase che è questa - in una società come la nostra - dove e quando si fa chiaro, ad entrambi gli antagonisti storici, che anche la pa­tologia è cambiata e che le nuove malattie non possono più essere viste come perturbazioni esterne e controllabili del progetto capitalistico di produzione o come danni riparabili connessi, per difetto di controllo, alla sua realizzazione: ma sono esse stesse il progetto del capitale così come la salute operaia ne è l'alternativa irridu­cibile.

Ecco perché il capitale che ha sempre fatto i suoi conti sulla salute operaia si trova ora a do­ver fare i conti con la salute operaia: diventata non più oggetto di transazione ma soggetto di contraddizione: di una accusa che, come voleva Marx, nasce dalla classe ma è, oggi, veramente «a nome» di tutti gli uomini. Non basta più op­porle la risposta dei falsi rimedi: occorre impor­le il rimedio del silenzio.

Per questo non basta più il controllo sanitario: occorre il controllo sociale.

Occorre cioè una medicina, questa, disposta a classificare la malattia come ribellione (vedi tut­ta la campagna sull'assenteismo) e la ribellione come malattia (vedi la conversione medica e la gestione farmacologica dei problemi sociali).

La nuova medicina non è, quindi, né curativa né preventiva; è soprattutto, forse soltanto, sedativa ed emarginante. La medicina del silenzio per la voce della sofferenza operaia.

Per tutto questo la medicina, conservando, an­zi magnificando le forme di un sistema assisten­ziale, è diventata di fatto un sistema gestionale.

 

Salute operaia e proletariato

A questo cenno - forzatamente incompleto e schematico - sulla storia della salute operaia nella gestione della classe del capitale, deve se­guire un altro - purtroppo ancora più schematico ed incompleto - sulla storia della salute operaia nell'esperienza della classe del lavoro: avendo del resto ben chiaro che l'una è dialetticamente inseparabile dall'altra.

Anche da questo punto di vista sembrano tut­tavia riconoscibili alcune fasi che in parte coin­cidano e in parte si intrecciano con quelle pre­cedentemente indicate. Le indicherò come: fase di resa, fase di difesa, fase di lotta.

1) alla prima corrisponde per il lavoratore un uso e, quindi, un'immagine della propria salute, anche meramente corporea, totalmente destituita di difesa e di speranza nei confronti del lavoro e del suo sfruttamento.

È la situazione di cui non manca la descrizione in Marx ed in molte altre testimonianze - poli­tiche, sociologiche e letterarie - del passato remoto.

Ma naturalmente non mancano neppure nel passato recente e nel presente: cioè quando e dove il capitalismo, diventato imperialista, non trova nella resistenza dei lavoratori o nella rigi­dità del mercato del lavoro un limite alla sua con­naturata vocazione onnidistruttiva. In queste con­dizioni non conosce né passato né presente, ma soltanto la sua legge senza tempo. Ho letto nella quarta sezione del primo libro del «Capitale» la descrizione delle condizioni di vita e di salute dei minatori inglesi intorno al 1840. Ho visitato il mu­seo delle miniere di salgemma attive nella prima metà del 900 nei pressi di Cracovia in Polonia.

Ho ascoltato dai protagonisti superstiti cosa era la vita e la salute dei minatori cinesi di Tang­shan prima della liberazione. Ho visto cosa è nel 1970 la vita e la salute dell'uomo e dei suoi figli dentro ed attorno le miniere di Lota, in Cile. Nes­suna differenza: quando e dove la classe non ha soggetto la salute operaia non ha alcun valore e nemmeno chiara coscienza di sé. È vissuta, fin­ché dura, come vanto di forza o provvidenziale benedizione: congruamente la malattia è debolez­za e disgrazia - così che all'uomo non rimane, prima o poi, che la resa. Questa situazione ha an­cora oggi una sua attualità locale, come fase sto­rica può dirsi che nel nostro paese si estende fi­no agli ultimi decenni del secolo scorso.

2) La fase di difesa comincia intorno al 1880 quando si costituiscono le prime mutue che si chiamano propriamente «Associazioni di mutuo soccorso».

In una situazione in cui il mercato del lavoro è tutto controllato dalla domanda che ha buon gio­co di fronte a una offerta quasi senza limiti e sen­za condizioni, queste mutue volontarie corrispon­dono al tentativo del lavoratore di non farsi espel­lere da tale mercato per motivi di salute.

La malattia è perdita di lavoro, cioè di salario senza il quale il lavoratore non può curare la malattia. Il salario è misura del lavoro che è inve­stimento di salute senza il quale non si ha diritto ad altro salario.

La circolarità di questa situazione ha le carat­teristiche di un vortice in fondo al quale c'è sol­tanto destituzione ed emarginazione.

Il lavoratore capisce che l'unica mano cui può aggrapparsi per non affondare in questo vortice è quella di un altro lavoratore: in un patto che si chiama, appunto, di mutuo soccorso per fronteg­giare la malattia vista soprattutto come mancato salario e come spesa sanitaria.

Il padrone, naturalmente, avverte subito che con questa forma organizzata di solidarietà ope­raia sul problema della salute nasce e cresce una nuova capacità contrattuale del lavoratore nei suoi confronti.

Pertanto, la minaccia ed osteggia in vari modi fin quando - trovatosi in condizioni di minor fa­cilità sul mercato del lavoro - ne vede i possibili vantaggi per il suo progetto di sviluppo secondo la logica, cui ho già accennato, di ottimizzazione del rapporto «conservazione-consumo» della forza lavoro. Allora chiede ed ottiene, tramite lo Stato, un assetto pubblicistico della mutualità che gliene assicuri - più o meno scopertamen­te - il controllo.

E diventato, nel frattempo, fascista, dettata or­mai la Carta del Lavoro, fondati gli enti che ancor oggi gestiscono le assicurazioni obbligatorie, continua a scagliare contro le mutue volontarie una violenza repressiva che sembra sproporzio­nata alla loro effettiva dimensione ma che è in­vece commisurata alla loro potenziale capacità - ben individuata dal capitale - di far nascere dal problema della salute una solidarietà di classe ed una volontà politica proiettate su altri traguardi. In questa lunga fase che si estende lungamen­te anche nel post-fascismo e che - per quanto attiene alla salute operaia - si può correttamen­te chiamare di difesa, l'operaio prende coscienza di sé come elemento fondamentale del processo produttivo, protagonista dello sviluppo economi­co, soggetto di volontà politica. Non deve più «giustificarsi» ma può affermarsi come lavora­tore ed è noto che a questa affermazione si ac­compagna, nella tradizione socialista nostrana, una valutazione del lavoro come valore: comun­que positivo, garanzia di diritti, testimonianza di moralità.

La positività della salute operaia durante que­sta fase non è, quindi, cioè «non si sente», in contraddizione con la positività del lavoro «in sé», per i suoi contenuti e la sua logica, ma si sente in contraddizione con la negatività dell'am­biente o, si sarebbe detto allora, delle circostan­ze che lo contengono.

Così che questa negatività sembra avere due ulteriori attributi: essere essenzialmente fisica nel senso della materialità delle sue cause e del­la corporeità dei suoi effetti ed essere aggiunta nel senso di non essenziale al compimento dell'atto lavorativo ma imposta dall'insaziata avidi­tà di sfruttamento del padrone.

È come se il lavoratore ed il lavoro fossero in­clusi, da condizioni esterne e non strutturali, in una parentesi di svalutazione del loro rapporto che, tuttavia, si libererebbe in tutto il suo valore se e quando questa o quella delle avverse condi­zioni fosse rimossa.

Così, nella rassicurazione di tale certezza e nella constatazione della sua inattualità, può sembrare una ragionevole alternativa la monetiz­zazione della salute, la cui immagine tutta orga­nicistica e meccanicistica si pone a sua volta fuo­ri parentesi rispetto alla soggettività del rappor­to tra l’operaio ed il suo lavoro.

3) È proprio l'esplosione di questa specifica soggettività - per tutti inattesa e per molti in­desiderata - che segna negli anni '60 il passag­gio dalla fase di difesa alla fase di lotta sul cam­po della salute operaia. Né con questo si vuol dire che quanto la classe aveva ottenuto fino a quel tempo in materia sanitaria ed assistenziale non fosse stato pagato con una lunga vicenda di lotte e di sacrifici; si vuole dire che queste lotte e questi sacrifici erano stati assai più rivolti alla difesa contro le malattie per tutelare la capacità di lavoro che alla lotta contro la nocività del la­voro per tutelare l'integrità della salute.

Con gli anni '60 inizia una svolta storica che è inutile tentare di spiegare usando quello stesso dottrinario della scienza e della politica tradizio­nali che non erano stati capaci di prevederla con nemmeno un giorno di anticipo.

È utile invece cercare di capirne le caratteri­stiche più originali, così come oggi ci è dato ri­conoscerle pur essendo ben chiaro che esse so­no ancora lontane da una definizione come è lon­tano da compimento il processo allora iniziato.

a) Anzitutto il ritiro della delega che ha si­gnificato per la classe operaia non soltanto un mutato rapporto con il tecnico della salute ma la scoperta della propria capacità a parlare final­mente in prima persona della salute e di altre cose.

Con la conseguente scoperta che, mutando il soggetto del discorso, muta il discorso stesso e ne vien fuori un'immagine della salute ben diver­sa da quella propinata fino a quel momento.

b) Da qui l'immediata individuazione di una dimensione «mentale» del proprio benessere­malessere, non più inteso come conformità-dif­formità ai modelli lavorativi ed organizzativi del lavoro proposti dal sistema di produzione, ma come liberazione della soggettività del lavoratore che si pone in un rapporto dialettico con il con­tenuto stesso del lavoro oltre che con le sue cir­costanze.

c) Ed allora il riconoscimento di un quarto gruppo di fattori di nocività che, aggiungendosi a quelli della nocività ambientale generica, della nocività ambientale specifica e della fatica fisica, determina ed autentica finalmente una sofferenza operaia che sta oltre la malattia professionale e l'infortunio di cui alle tabelle assicurative.

d) Ed ancora l'emergenza del gruppo operaio omogeneo come soggetto reale: produttivo, po­litico, scientifico. Per un verso ambito di espan­sione dell'esperienza individuale di lavoro, per l'altro nucleo primo e naturale della classe, per entrambi vero interlocutore di qualsiasi discorso, sulla nocività e sulla salute, che sappia affronta­re la verifica della prassi.

e) Da qui l'inchiesta di fabbrica, nelle diverse forme del questionario e dell’indagine, il con­trollo ambientale e di salute nei diversi tipi di gestione diretta e mediata: in ogni caso come momento di conoscenza e di auto-interrogazione del collettivo operaio, nei casi migliori come mo­mento di mobilitazione e crescita di coscienza politica.

f) Ed infine la nuova consapevolezza del rap­porto tra fabbrica e territorio: cioè l’intelligenza della fabbrica quale luogo di massima concentra­zione di una nocività complessiva, intesa come uso capitalistico dell'uomo e dell'ambiente, che si estende in ogni «dove» sociale. Quindi l'in­chiesta esce dalla fabbrica e con essa i suoi nuo­vi strumenti, i suoi metodi, le sue esperienze per attivare ed arricchire nuovi modi ed altre se­di della soggettività collettiva - dai comitati di quartiere, a quelli di zona, a quelli scolastici, etc. - soprattutto a quelli che si formano non su mo­delli istituzionali o su moduli settoriali ma su reali problemi collettivi.

 

Medicina del capitale e medicina della classe operaia

Queste sono le caratteristiche che mi sembra­no originali dell'attuale fase di lotta della classe operaia per la propria salute, riconosciuta come bene primario ed inalienabile, come misura vera del più largo bene collettivo.

La discussione darà ai compagni presenti l'op­portunità di una illustrazione meno inadeguata di tali caratteristiche soprattutto con riferimen­to a dirette esperienze di base. Ma, nelle intenzioni e nei limiti di questa relazione, mi sembra sufficiente quanto abbiamo visto insieme per ri­conoscere la evidenza e la coerenza di una con­clusione importante: nel passaggio dalla fase di resa, a quella di difesa ed a quella di lotta per la salute, la classe operaia ha maturato non solo la propria coscienza politica generale ma anche quella specifica. E ciò nel senso che revocando la passiva consegna di sé alla malattia ed al medi­co, ovvero rifiutandosi al ruolo di oggetto sanita­rio, è venuta scoprendo ed affermando la propria capacità a porsi come soggetto di una ragione della salute, che è salute della ragione.

Se questa conclusione non è infondata e le analisi che la precedono non sono errate, siamo giunti, convergendo, ad un punto di notevole chiarezza sulle posizioni ed i termini dello scon­tro attuale tra capitale e lavoro intorno ai proble­mi della salute: da una parte la medicalizzazione della politica, come scelta del capitale; dall'altra la politicizzazione della medicina, come scelta della classe.

La medicalizzazione della politica corrisponde alla aumentata necessità o volontà di controllo sociale da parte del padronato, sia esso privato o statale, posto che questa differenza conti ancora qualcosa, mentre la multinazionalità dell'impresa viene mettendo in crisi non solo la geografia del­le nazioni ma anche l'internazionalismo dei popo­li. Questa medicalizzazione si attua con la ridu­zione diagnostica e la contenzione terapeutica - soprattutto ma per nulla esclusivamente in via psichiatrica - della non conformità ai canoni del sistema produttivo, dell'originalità individuale e collettiva, della fantasia sociale e politica. Ma si attua anche con l'esasperata tecnicizzazione dell'atto medico e del sistema sanitario il che signi­fica - inevitabilmente oggi, quando, nel coman­do capitalistico ogni potere della tecnica diventa tecnica del suo potere - consegnare la medicina al controllo industriale. E siccome, abbiamo già detto, questa medicina è sempre meno un siste­ma assistenziale e sempre più un sistema ge­stionale, tutto si risolve, in ultima analisi, in un aumento di capacità del capitale a gestire medi­calmente la società magari fingendo di gestire socialmente la medicina.

In questa luce si vede chiaramente cosa signi­fichino certe anticipazioni di riforma sanitaria, certe grandi manovre delle mutue e dei farma­ceutici nel campo della medicina predittiva gab­bata per preventiva, certe nuove società a capita­le composito per la progettazione di sistemi sanitari e ospedalieri, certa effervescenza di iniziative industriali nei campi dell'automatica e dell'informatica medica: tutte proposte, in ultima analisi, di una delega totale fatta al tecnico per­ché la rimetta nelle mani del padrone.

La politicizzazione della medicina significa esattamente il contrario: soprattutto il ritiro del­la delega non solo per la gestione dell'atto medi­co come complesso di pratiche e di istituzioni ma anche per la definizione della salute e della ma­lattia, per la critica della norma e della devianza. Non si vuol dire che la salute si estingue e la malattia nasce esclusivamente per l'attrito delle forze socia1i che si confrontano ma si vuol dire che non c'è salute o malattia che da questo con­fronto non siano ridefinite nel loro essere tali per l'individuo e per la collettività.

Quindi la tutela dell'una e la lotta all'altra non possono avvenire fuori da questo confronto e devono essere opera dei loro soggetti storici. Se la medicina del capitale serve a gestire la patolo­gia del capitale la salute della classe operaia ri­chiede una medicina della classe operaia: vera­mente non «per la classe» ma «della classe» nel senso che in essa la classe si esprima final­mente come soggetto medico e politico, medico perché politico. Così come essa stessa ci ha in­segnato con le sue lotte degli ultimi anni: primo ma certo inizio di una strada ancora da percor­rere.

 

Università e ideologia del medico

A questo punto, dopo aver cercato di chiarire come sul problema della salute lo scontro tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato, sia anche scontro frontale di due ipotesi alternative e inconciliabili sull'uso sociale della medicina come pratica e come scienza, ci è molto più facile individuare la posizione dell'Università attuale e di quella alternativa sul campo di tale scontro. Va da sé che non ci intratterremo sul funzionamento ma soltanto sulla funzione della Scuola Medica benché ci sia chiara l'interdipen­denza delle due cose. Assumeremo, cioè, che per quanto riguarda le circostanze del suo lavo­ro didattico scientifico la Scuola Medica non tro­vi alcuna difficoltà allo sviluppo del suo proget­to: è questo progetto che ci interessa e che si mostra uno zelante ordinamento al servizio del capitale ed alla produzione di medici che ne con­fermino il comando.

1) Il primo biennio, all'insegna del naturali­smo, deve convincere che l'uomo è appunto un oggetto naturale non un soggetto sociale.

Per conoscerlo bisogna cominciare dal suo ca­davere, cioè dalla forma estrema della sua ridu­zione a cosa: spoglia di nome, di ruolo, di storia.

2) Il secondo biennio è all'insegna del mecca­nicismo: la cosa inerte, risolta in apparati scom­posti in organi, diventa macchina mobile, guasta­bile, riparabile. Lo studente apprende le tecniche dell'oggettivazione e dell'individualizzazione del­la macchina-paziente, cioè della sua desocializzazione.

3) Il terzo biennio è fondamentalmente dia­gnostico-terapeutico, ma soprattutto riduttivo. Diagnosticare vuol dire ridurre il malato alla ma­lattia, la malattia a un organo colpito, l'organo al segno del suo danno ed il danno alla sua misura. Curare vuol dire, simmetricamente: correggere il segna per nascondere il danno, far tacere l'orga­no per fingere la sconfitta della malattia, coprire la malattia per simulare la salute.

Così il giovane medico impara la sua funzione di guastatore della classe operaia nel senso che il suo intervento tende sempre ad estrarre il la­voratore malato dalla sua classe, recidendone i rapporti con essa, riducendolo ad un caso. Ed inoltre impara a ridurre in un ambito di gestibili­tà medica tutti i problemi umani peri quali non occorre la soluzione se basta la sedazione. Ciò che non impara è la prevenzione primaria: quella che, per la patologia oggi dominante, chiamereb­be in causa il sistema di produzione e lo sma­schererebbe come principale agente patogeno dell'uomo e devastatore dell'ambiente.

È, dunque, evidente che la funzione della no­stra università, indipendentemente da ogni disfunzionamento, è di preparare medici pronti al progetto sanitario del capitale; pronti, come ave­vamo previsto, ad operare - anche con la vio­lenza della scienza - per la medicalizzazione del­la politica, contro la politicizzazione della medici­na. Ad ulteriore conferma si aggiungono: 1) la minaccia di numero chiuso per aumentare una selettività che nel nostro Paese è sempre di clas­se; 2) l'abbandono di qualsiasi riforma per impo­verire ulteriormente il contenuto didattico della scuola medica; 3) il conseguente riconoscimento dell'insufficienza formativa della scuola medica ,e consegna, per un 7° ed 8° anno, del neolaureato al conio delle corporazioni professionali.

A questo punto il medico può dirsi formato co­me pezzo semilavorato la cui finitura avverrà in una o più scuole di specializzazione che, dando­gli ulteriori titoli e nessuna reale competenza, tranquillizzeranno la crisi di identità che potreb­be derivargli dall'essersi creduto un operatore sanitario e dall'essersi trasformato in un gestore sociale, gestito a sua volta: cioè gestore per con­to terzi, per conto del potere, senza fascino e senza discrezione, della borghesia.

A questo potere appare, dunque, interamente asservita tutta l'istituzione medica universitaria che quindi si pone oggi obbiettivamente sul cammino della liberazione operaia come un ulteriore e certo non trascurabile ostacolo.

Un ostacolo che non può essere - a breve o a medio termine - né abbandonato aggirandolo né distrutto. Che bisogna invece prendere, occupa­re, espugnare. Per distruggerne gli attuali occu­panti, cioè la ideologia e la pratica che vi signo­reggiano.

Dovremo, dunque, rinnovare il nostro impegno contro i provvedimenti che minacciano un'ulte­riore selettività di classe e corporativizzazione professionale: alludo al numero chiuso ed al 7°-8° anno.

Dovremo soprattutto impegnarci a batterci per:

1) un diverso piano di studi che parta dalla realtà sociale per raggiungere l'uomo nella realtà dei nessi di cui è nodo e dai quali derivano o so­no modulate la sua salute e la sua infermità.

2) un diverso metodo di studio che parta dalla pratica e vada verso la teoria come sintesi criti­ca dell'esperienza. Bisogna demistificare lo slo­gan che «si diventa medici studiando» per sosti­tuirlo con quello ben più onesto e profondo che «si studia diventando medici».

3) un diverso tempo di studio che riduca il periodo di propedeuticità deformativa e spoliti­cizzante per aprire, nell'ambito dei sei anni, un sesto anno di effettivo tirocinio come medico ospedaliero, ambulatoriale e di comunità, per l'esperienza globale di base e che in ogni anno, fin dal primo, riservi un numero fisso di ore gior­naliere per la pratica sanitaria, in collaborazione col personale paramedico, al servizio effettivo del malato.

4) un diverso contenuto dello studio, orien­tato ai reali bisogni e ad efficaci interventi: con ampio spazio, dunque, per le discipline preventi­vistiche, per l'epidemiologia, l'igiene del lavo­ro etc.

5) un diverso obbiettivo di formazione che non sia più quello di fare un laureato, portatore di un titolo senza competenza, ma un operatore preparato e pronto ad essere efficace nella real­tà sociale che gli si affida.

 

Considerazioni conclusive

Naturalmente obbiettivi come questi, la cui portata è definita dalla volontà politica che li moltiplica, se da una parte impegnano studenti, docenti, infermieri e medici che abbiano fatto una scelta di classe congruente, non sono «i loro obbiettivi» né possono essere raggiunti con le loro sole forze: sono obbiettivi della classe operaia, di forze di lavoro, delle masse popolari che - nelle varie forme delle loro avanguar­die e nell'esperienza delle loro lotte - possono rivendicare il diritto di imporre questo rinnova­mento e di guidare il progresso. Ed il diritto di decidere che il primo obbiettivo da raggiungere è la libertà di cercare ed individuare autonoma­mente i propri obbiettivi.

Per questo ogni nostra proposta, oggi, non può essere che indicativa e, a mio sentire, ogni ul­teriore pretesa di definizione non è che la fine di un esercizio accademico o l’inizio di un'altra pretesa. La classe operaia è sempre stata troppo «pensata», da chi ha finito per sorprendersi di trovarla così vigorosamente, originalmente, luci­damente «pensante» sul finire degli anni '60. Oggi si può e si deve puntare su tutte le forme di appropriazione e di autogestione che possano mettere la classe a soggetto di una lotta per la salute che non cessi mai di essere, in quanto tale, una lotta contro il sistema. È falso il di­lemma che viene proposto alla classe operaia: o le conquiste oggi o la rivoluzione un'altra volta. Per la classe operaia contano quelle conqui­ste che fanno parte di una strategia per la rivo­luzione, perché ciascuna di esse - se, oltre il suo valore attuale, non fosse anche un accelera­tore del processo di crisi strutturale del sistema capitalistico - sarebbe soltanto apparente e, al­la fine, perdente.

Occorre, dunque, assecondare - ognuno all'interno del suo ruolo che è pur sempre un ruo­lo interno - il processo di appropriazione da parte della classe operaia degli strumenti di co­noscenza dei meccanismi di profitto e di sfrutta­mento del capitale e degli strumenti di autocon­trollo e di autogestione della salute.

Occorre dare ogni appoggio, ogni contributo - di forze, di idee, di critiche - ai consigli di fabbrica, ai consigli di zona, ai comitati di quar­tiere, ai collettivi infermieri-malati, ai movimen­ti studenteschi, cioè alle forme nelle quali si esprime la volontà di base delle masse.

Così si delinea un corretto rapporto dei tecni­ci con la classe: essere non «il» ma «nel» pen­siero della classe operaia, perché questo pen­siero si liberi e si esprima nella sua capacità di essere non pensiero separato, come è quello borghese, ma pensiero reintegrato, cioè capace di pensare insieme la società e la natura, il la­voro e la salute.

Di questa capacità, la conquista delle 150 ore di studio è un'altra prova ed un'altra possibilità di espansione: è l'inizio di un processo che può andare molto lontano e che mi auguro passi an­che attraverso la conquista di 150 ore di lavoro in fabbrica per i professori, gli studenti ed i medici.

Non lavoro «sulla fabbrica» o «per la fabbri­ca» ma lavoro «in fabbrica» e «di fabbrica». Ma fin da ora le 150 ore rappresentano, per quanto riguarda i problemi della salute, la possi­bilità di un ingresso dei lavoratori nelle Facoltà e negli ospedali con una domanda di studio che diventa immediatamente proposta di insegna­mento, comunque ipotesi di ricerca comune - tra lavoratori, studenti ed operatori sanitari - per proseguire e sviluppare quel processo di ap­propriazione operaia della medicina come prati­ca e come conoscenza che è già iniziato e che, esso solo, può portarci a ritrovare una nuova sa­lute dell'uomo e a fondare una nuova scienza della salute.

 

 

Per la preparazione di questa relazione mi è stata parti­colarmente utile la lettura di:

AA.VV., La salute e il potere in Italia, De Donato, Bari, 1971.

G. BERLINGUER, Medicina e Politica, De Donato, Bari, 1973.

S. DE LOGU, Sanità pubblica, sicurezza sociale e program­mazione economica, Einaudi, Torino, 1967.

G. JERVIS, Condizione operaia e nevrosi, Inchiesta, n. 10, 1973.

I. ODDONE, La difesa della salute dalle fabbriche al terri­torio, Inchiesta, n. 8, 1972.

R. ROZZI, Prefazione a A. KORNHAUSER, Lavoro operaio e salute mentale, Franco Angeli, Milano, 1973.

 

 

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