Prospettive assistenziali, n. 26, aprile-giugno 1974

 

 

ATTUALITÀ

 

SENTENZA SULL'OBBLIGO SCOLASTICO DEGLI HANDICAPPATI

 

 

Riportiamo la sentenza della causa penale contro la preside V. A., im­putata nella sua qualità di preside della scuola media statale L. di Venezia di non aver accettato le iscrizioni di due ragazzi De R. N. e F. I., impedendone l'ammissione a scuola (1).

Ci uniamo all'A.I.A.S. di Venezia che, nella persona del suo presiden­te, ha voluto con la pubblicazione della sentenza ribadire essere stata «l'assoluzione (della preside) un atto di ingiustizia sociale». Ingiustizia sociale che lascia anche noi sdegnati per i protagonisti: due ragazzi esclu­si perché handicappati e la preside V. assolta pur avendo mancato nel suo dovere di osservare la legge, oltre che nel suo compito di docente della scuola dell'obbligo.

Qui non preme ripetere il discorso già molte volte fatto, anche in questa sede, di una scuola che non è neppure arrivata alla dignità della scuola moderna giacché il criterio selezionatore è la clientela, la parente­la, la raccomandazione, una scuola che proprio con questo caso denuncia una situazione di estrema arretratezza e la sua tendenza innata alla con­servazione, quanto di precisare il ripetersi di una selezione di alcuni a danno di altri.

Questa preside, che scopre la faccia discriminante dell'emarginazione, fa parte di quella società «integra» che ha costantemente applicato prassi discriminanti contro i deboli, i minorati, contro i «diversi».

«Sulla scorta di voci percepite al proposito»... «perché proviene da una scuola di minorati», così si difende l'imputata per aver allontanato i due alunni. Non c'è in lei preoccupazione se essi vengono abbandonati a loro stessi o emarginati in istituti segregativi.

Non vogliamo quindi sottolineare tanto l'ingiustizia per cui il colpevo­le non viene condannato (anche se poi non ci dovremo stupire se la fiducia nel ricorso alla legge tende a diminuire), quanto l'aspetto globale del pro­blema. Ci preme infatti rilevare come in questa sentenza il giudicante, dal dettato della norma dell'art. 28 della legge 30-3-71 118, che dice: «l'i­struzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pub­blica salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intelletti­ve o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette scuole», ritiene di dover dedurre (in totale contrasto con quanto ritenuto dalla preside) che «il legislatore abbia voluto affermare il principio di profonda validità etico-­sociale, che mutilati e invalidi civili devono essere inseriti nelle normali classi della scuola dell'obbligo, tranne nei casi di abnormi infermità».

Notiamo ancora che sempre da parte del «giudicante» ci si chiede se spetti al capo di istituto valutare se la infermità abbia le caratteristiche escludenti sopra menzionate. La risposta è negativa: «né ovviamente la V. poteva pretendere che i bambini corredassero la domanda di iscrizione con una cartella clinica: ciò non è richiesto dalla legge e non lo poteva ri­chiedere l'imputata».

Se ne deduce che, anche là dove le leggi ci sono, la minoranza handi­cappata viene spodestata dai suoi diritti, in quanto l'accesso ai processi educativi le resta impossibile o perlomeno fortemente limitato. Si tratter­rà cioè, ancora una volta, di un problema di volontà politica. Se avremo questa volontà gli impulsi di avversione od intolleranza (come nel caso della preside di Venezia) si trasformeranno non già in manifestazioni di pietismo (come in certa stampa), ma in una scelta civile che risolva i pro­blemi dell'assistenza all'handicappato, al suo recupero e alla sua socializ­zazione.

 

 

Sentenza nella causa penale contro V. A. in P. n. Taranto 15-4-1916 - domiciliata presso avv. Sto­chino, libera contumace.

Imputata

del reato di cui all'art. 81 cpv.. 328 C.P. perché nella sua qualità di Preside della scuola media statale «Longhena» del Lido - Ca' Bianca non accettava le iscrizioni alla sezione staccata ospe­daliera «Stella Maris» dei due ragazzi De R. N. e F. I. disponendo che non fossero accolte le due distinte domande.

Venezia fine settembre - inizio ottobre 1972

 

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Con atto depositato in data 18-11-1972 l'As­sociazione Italiana per l'Assistenza agli Spastici, Sezione di Venezia, denunziava la professoressa V. A., preside della scuola media statale L. di Venezia, ravvisando a carico della predetta quan­tomeno il reato di omissione di atti di ufficio. I denunzianti esponevano infatti che la V. aveva respinto le domande di iscrizione alla sezione ospedaliera del predetto istituto di due ragazzi spastici, De R. N. e F. I., impedendone l'ammis­sione a scuola. Questi due sventurati giovani erano ospiti dell'istituto elioterapico «S. Ca­millo» di Malamocco quando il 20 settembre 1972 padre S. presentò alla segreteria dell'Isti­tuto L. le domande di iscrizione alla sezione ospedaliera. Mentre sulla «cartellina» relativa al De R. la segretaria apponeva la annotazione «spastico non può scrivere» su quella del F. veniva trascritto che detto ragazzo proveniva da un istituto di riabilitazione per minorati. I due ragazzi, infatti, erano dolorosamente segnati dal­la malattia per cui entrambi erano costretti su una carrozzella; inoltre il De R. era ostacolato anche nei movimenti fini delle mani per cui trovava gran difficoltà nello scrivere, difficoltà peraltro ovviata nei precedenti anni scolastici in altri istituti con l'uso di una macchina da scri­vere. A sua volta il F. era praticamente immo­bilizzato anche agli arti inferiori. Le due domande rimanevano così depositate in segreteria finché la preside, esaminatele decideva di «sospen­dere» quella del De R. in attesa di accertamenti di natura sanitaria e di  respingere» quella del F. a causa della macroscopica infermità che non ne consentiva un inserimento in una classe di «normali». Mentre i genitori di quest'ultimo ac­cettavano anche quest'ultima sofferenza, non così avveniva per il De R. Anzi era proprio que­sti che scriveva una lettera-supplica al Provve­ditore agli Studi ed interessava l'A.I.A.S. Il Pre­sidente di detta associazione non lasciava nulla di intentato e più volte sollecitava la V. a ritor­nare sulle sue decisioni; ma invano per cui si vedeva costretto presentare la già citata de­nunzia.

Si procedeva quindi a sommaria istruzione, a seguito della quale si elevava a carico della V. la imputazione indicata in epigrafe, non avendo ritenuto questo Giudice di promuovere l'azione penale anche in ordine ad un altro episodio de­nunziato (relativo al minore P.) per l'assoluta carenza di elementi da porre a sostegno dell'accusa. L'imputata respingeva decisamente l'ad­debito proclamandosi innocente. Chiusa la fase istruttoria la V. veniva tratta a giudizio per ri­spondere del reato di cui in rubrica: all'udienza dibattimentale la predetta, peraltro, non compa­riva per cui veniva dichiarata contumace. In li­mine veniva respinta, come da ordinanza allegata al verbale, una serie di eccezioni proposte dalla difesa della prevenuta in ordine alla regolarità e, quindi, alla ammissibilità della costituzione delle parti civili De R. e F.

Si procedeva quindi alla escussione di nume­rosissimi testi e, dichiarato chiuso il dibatti­mento, le parti civili, il P.M. e la difesa conclu­devano come in atti.

La linea difensiva della V. è articolata su vari punti e si può riassumere per sommi capi come segue: Il F. apparve all'imputata, in base all'ap­punto «proviene da una scuola per minorati» e sulla scorta di «voci» percepite al proposito, quale un caso disperato al quale - tenuto conto che il ragazza aveva già quasi 16 anni - doveva applicarsi il disposto dell'art. 5 R.D. 4-5-1925 n. 653 che conferisce al capo dell'Istituto la fa­coltà di allontanare gli alunni «affetti da malat­tie contagiose ripugnanti». Per quanto riguarda il De R., giusta l'annotazione «spastico non può scrivere» e considerato che il predetto, pur avendo già 18 anni, si iscriveva alla terza media, la V. ritenne di non accettare subito la domanda ma di acquisire prima notizie di carattere me­dico sulla natura, entità della infermità del De R. Per entrambi i giovani l'imputata faceva notare come le domande fossero comunque tardive, essendo state presentate dopo la scadenza dei termini fissati per la iscrizione, circostanza della quale, peraltro, non si era avvalsa e ciò a dimo­strazione dell'assoluta mancanza da parte sua di ogni prevenzione nei confronti dei minorati in ge­nerale e degli spastici in particolare.

Le considerazioni della V. sia in mero punto di fatto che sotto il profilo giuridico della appli­cabilità di determinata normativa alla fattispe­cie, non appaiono meritevoli di pregio.

Infatti va osservato che al momento della de­cisione presa il 30-9-1972 la preside non aveva mai visto i due ragazzi, né ritenne di doverlo fare: peraltro se si fosse attivata in tale senso si sarebbe astenuta, molto probabilmente, da un provvedimento così restrittivo e, come più avanti precisato, sbagliato. Si sarebbe accorta, infatti, che la infermità dei due giovani, lungi dal costi­tuire un motivo di ripulsa, non aveva minima­mente intaccato le loro facoltà intellettuali e di comunicativa, rendendoli perfettamente idonei alla vita di relazione. Infatti il De R., ragazzo di bell'aspetto, aveva sempre superato brillante­mente ogni prova scolastica raccogliendo plauso e ammirazione da parte degli insegnanti e dei compagni di scuola; inoltre la sua infermità che lo costringeva sulla carrozzella, non gli aveva im­pedito di servirsi degli arti superiori, sia pure con l'ausilio di una macchina da scrivere, per superare la difficoltà nella scrittura. Comunque il De R. era un giovane autosufficiente alle cui particolari necessità si poteva ovviare con estre­ma facilità. Quanto al F., più crudelmente col­pito dall'atroce morbo (lo sventurato è deceduto pochi mesi dopo i fatti di cui trattasi) si deve precisare con fermezza che le asserite «voci» d'una sua «ripugnant » infermità erano total­mente destituite di ogni fondamento: infatti il ragazzo, sia pure alquanto grasso, non era certo deforme, non aveva spasmi impressionanti, non sbavava, non aveva la lingua penzoloni, non aveva cioè, alcuno di quei sintomi che la V. ri­tenne sussistere per l'applicazione dell'art. 5 R.D. 4-5-1925 n. 653. Ciò è stato inequivocabil­mente provato dalla istruttoria dibattimentale nel corso della quale anche la teste De C., teste a favore della prevenuta, ha escluso d'aver de­scritto con termini così crudi l'aspetto del F.

Quindi si deve subito concludere, che per quanto attiene a quest'ultimo infelice ragazzo la reiezione della domanda fu illegittima, infondata, e, comunque, non giustificabile. Ma lo stesso può affermarsi anche per il De R. Invero la V. ha giustificato la «sospensione» dell'iscrizione in forza dell'art. 28 della legge 30-3-1971 n. 118 che così recita «l'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pub­blica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fi­siche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette scuole». È di tutta evidenza che la ap­plicazione di detta norma alla fattispecie in esa­me ad opera della V. è fondata su presupposti di fatto e di diritto del tutto errati: invero - esclu­so in limite ogni deficienza intellettiva - è stato inequivocabilmente provato che la «menoma­zione fisica» del De R. era ben lungi da impedire o rendere «difficoltoso l'apprendimento o l'inse­rimento» nelle classi normali della scuola pub­blica. Al proposito la carriera scolastica del De R. prima e dopo i fatti de quibus non lascia adito a dubbi alcuni.

Ritiene il giudicante, per contro, che dal det­tato della suindicata norma si debba dedurre, in totale contrasto con quanto ritenuto dalla V., che il legislatore abbia voluto affermare il principio, di profonda validità etico-sociale, che mutilati e invalidi civili devono essere inseriti nelle nor­mali classi della scuola dell'obbligo, tranne che nei casi di abnormi infermità. Principio che, d'al­tra parte, già il legislatore di mezzo secolo fa aveva affermato proprio con il R.D. 4-5-1925 n. 653, prima invocato dalla V., all'art. 102.

A monte di questi problemi, peraltro, ve ne è uno ben più importante, e, comunque, pregiudi­ziale. Ci si deve chiedere infatti, se spetti al capo di istituto valutare se la infermità abbia le caratteristiche escludenti sopramenzionate: la risposta non può che essere negativa. Tali accertamenti e le conseguenti valutazioni non possono che essere di competenza dei servizi di medicina scolastica istituiti dal D.P.R. 11-2­1961 n. 264 e dal successivo regolamento D.P.R. 22-12-1967 n. 1518: da tale disciplina legislativa si evidenzia come i controlli e l'assistenza del medico scolastico si esplichino sugli scolari, cioè sui minori iscritti! Il che, d'altra parte, ap­pare pienamente logico. Ogni ragazzo ha il diritto (oggi anche l'obbligo) di scriversi a scuola e nessuno può precludergli ciò se non nei casi di macroscopica ripugnanza o in quelli in cui si evi­denzia la necessità di evitare pericolo di con­tagio o simili gravi conseguenze. Solo in tali casi il capo d'istituto deve o può intervenire (a se­conda dei casi), ma in tutti gli altri egli dovrà accogliere le iscrizioni e segnalare, se neces­sario, i singoli alunni al medico scolastico per le decisioni da prendere. È quindi preclusa al preside ogni indagine di carattere sanitario da effettuarsi dopo l'iscrizione ed, a maggior ra­gione, prima della stessa. Per cui appare del tutto inammissibile la «sospensione» dell'iscri­zione del De R. in attesa di indagini sanitarie poste come condizione per l'accettazione! Né, ovviamente, la V. poteva pretendere che il De R. corredasse la sua domanda di iscrizione con una cartella clinica: ciò non è richiesto dalla legge e non lo poteva richiedere l'imputata! Per cui ci sarebbe molto da ridire sulla prassi che la pre­detta ha istituito nella sezione ospedaliera del suo istituto laddove tutti i ragazzi che si vanno ad iscrivere corredano la loro domanda con un certificato medico!

V'è ora da esaminare l'ulteriore assunto difen­sivo proposto dalla imputata relativo all'asserita tardività delle domande dei due ragazzi: tale tesi è infondata. La V. infatti ha ricordato che ai sensi dell'art. 131 L. 1-7-40 n. 899 «i presidi hanno facoltà di accogliere domande presentate fuori termine o in soprannumero» per far rile­vare come essa non si sia avvalsa di detta fa­coltà nei confronti delle due domande tardive del De R. e del F. Tuttavia è agevole rilevare come né la legge 1-7-40 n. 899 istitutiva della scuola media né quella 31-12-62 n. 1859 (scuola media dell'obbligo) prevedano dei termini per l'iscrizione. Il termine di scadenza del 25 luglio, indicato dalla V. era fissato (unitamente a quello del 25 settembre) dalla legge 9-6-61 n. 478 solo per le iscrizioni dei licenziati dalla scuola ele­mentare e quindi non è applicabile ai casi in esame laddove si richiedeva l'iscrizione alla se­conda ed alla terza media.

Comunque anche i suindicati termini non pos­sono avere che mero carattere ordinatorio e non certo perentorio: in caso contrario si verifiche­rebbe che un ragazzo che fosse iscritto alla scuola dell'obbligo dopo i termini, magari a causa di contrattempo o per forza maggiore, non po­trebbe beneficiare del diritto all'istruzione ga­rantito dalla Costituzione e realizzato con la legge del '62 e nel contempo i suoi genitori vio­lerebbero un obbligo sanzionato penalmente. Che ciò sia vero lo si ricava con assoluta cer­tezza anche dalla deposizione del dr. L., funzio­nario del Provveditorato agli Studi, secondo il quale mai si verificò in tutte le scuole della pro­vincia di Venezia una reiezione di domande di iscrizione per decorrenza dei termini.

Se tutto quanto sopra esposto risponde al vero ne consegue anche l'infondatezza della ulte­riore tesi proposta, sia pure in via subordinata, dalla difesa dell'imputata, rivolta a dimostrare come l'accettazione della iscrizione da parte di un capo di istituto nei casi come quelli di specie costituisce un atto amministrativo discrezionale.

Infatti non si può parlare di discrezionalità pro­prio perché, per quanto già ricordato, per i casi in esame non è applicabile la normativa dell'articolo 5 R.D. 4-4-25 n. 653 (relativa ai casi di malattie ripugnanti e contagiose), né quella dell'art. 28 II° co. L. 30-3-71 n. 118 (relativa alle de­ficienze intellettive o alle menomazioni fisiche di abnorme gravità e comunque impedenti), né, infine, quella dell'art. 131 L. 1-7-40 n. 899 (rela­tiva alla asserita iscrizione fuori termine). Per­tanto anche nei casi del De R. e del F. l'accetta­zione della iscrizione era un atto dovuto. Invero l'accettazione da parte del capo d'istituto con­siste nel mero controllo dei requisiti formali delle domande d'iscrizione oltre che di quelli richiesti ad substantiam (superamento degli esa­mi previsti, ottenimento della licenza ecc.) senza alcuna valutazione di merito. L'accettazione del­le domande di iscrizione è, quindi, sempre un atto dovuto sussistendo i presupposti di cui sopra.

Ciò appare inequivocabilmente comprovato anche dall'esame dell'art. 5 R.D. 4-5-25 n. 653 relativo ai casi di alunni affetti da malattie con­tagiose e ripugnanti laddove è prescritto che il «preside deve allontanare... gli alunni»; dal che si deduce che al preside non è concesso di precludere l'iscrizione a quegli sventurati, ma solo di non consentirne la frequenza scolastica, naturalmente dopo l'intervento del medico sco­lastico siccome sopra già ricordato. Tutto ciò premesso, si deve concludere che è stato pro­vato che l'imputata, rifiutando le iscrizioni del De R. e del F., ha pienamente realizzato, sotto il profilo materiale, il reato di omissione di atti di ufficio.

Tale certezza, invece, non può prospettarsi per quanto attiene la sussistenza dell'elemento psi­cologico qualificante la fattispecie delittuosa in esame.

Giova, infatti, osservare come dopo lungo tra­vaglio giurisprudenziale la Suprema Corte sia giunta definitivamente a stabilire che il reato p. e p. dall'art. 328 è punibile a titolo di dolo generico; tuttavia «... occorre che il pubblico ufficiale non solo abbia la consapevolezza e la volontà di omettere, rifiutare e ritardare un atto del proprio ufficio, ma abbia la consapevole vo­lontà, così operando, di agire indebitamente e cioè in violazione dei doveri imposti dall'ordi­namento giuridico» (v. Cass. 3-12-68 in Giust. pen. 70-11-64-134, massima ribadita nella sen­tenza 12-6-69 ibidem 70-II-676 laddove si ipo­tizza che un medico condotto si sia rifiutato di recarsi a visitare un ammalato per animosità contro lo stesso!).

Ciò detto, si deve convenire che da tutto il comportamento della V. come sopra descritto si può trarre il convincimento della sua ferma vo­lontà di agire «indebitamente». Si pensi, infatti, che la predetta decise i provvedimenti de quibus senza nemmeno preoccuparsi di vedere di per­sona i due sventurati ragazzi ma basandosi sulle annotazioni delle domande di iscrizione.

È pur vero che l'indagine in ordine alla sussi­stenza del dolo deve effettuarsi per il momento in cui si consumò il reato (che nel caso in esame si identifica col rifiuto di accettare le domande) , pur tuttavia per la esatta identificazione dell'ele­mento psicologico non si può omettere l'esame del comportamento dell'imputata prima e dopo la consumazione del reato. Pertanto, al fine di sostenere la dolosa volontà della V., appare indi­spensabile ricordare come la stessa rimase sorda a tutte le disperate e pressanti richieste dell'AIAS perché riesaminasse la sua decisione a carico del De R., né ritenne di dar valore alle numerose spiegazioni - anche di mero carat­tere giuridico - che all'uopo le vennero fornite. Ancora giova ricordare come la V. non ritenne di dover modificare i suoi ordini nonostante che il Provveditore agli Studi avesse dato il suo «nullaosta» alla iscrizione del De R.; non solo, ma l'imputata rinnovò il suo perentorio ed indi­scutibile ordine di vietare l'ingresso a scuola al De R. ed al F. quando seppe che costoro il 3-10-72 si erano recati a salutare i loro «man­cati» compagni di classe.

Da tutto ciò si evidenzia un comportamento autoritario e antidemocratico che la V. ha man­tenuto con assoluto rigore senza cedere a nes­suna pressione, forse nella presunzione di essere la sola ad interpretare esattamente le norme di legge applicabili al caso in esame.

Ma a tutte queste considerazioni se ne pos­sono opporre delle altre, parimenti valide, a fa­vore dell'imputata.

Invero non si può ignorare che le domande vennero sottoposte all'esame della V. solo il 30-9-72, cioè un giorno prima dell'inizio delle le­zioni (né v'è prova contraria). Ciò, indubbia­mente, ha reso più difficile per la prevenuta il dover decidere con rapidità onde evitare incon­venienti non più rimediabili dopo sole 24 ore; d'altra parte non si può dimenticare che le domande di iscrizione dei due ragazzi portavano le annotazioni «spastico non può scrivere» e «proviene da una scuola per minorati», anno­tazioni che, sia pure generiche, rivelano pur sem­pre delle situazioni obiettivamente patologiche che la V. non poteva ignorare sic et simpliciter. Ed ancor più, sempre in riferimento a dette me­nomazioni fisiche, va osservato, per quanto si riferisce al F., che l'imputata aveva già sentito delle «voci» in ordine all'aspetto particolar­mente «ripugnante» del suddetto ragazzo. E che ciò sia vero lo si deduce anche dal fatto che l'insegnante De C., nel descrivere alla V. l'aspet­to del F. il giorno 3-10-72, anche se non parlò di «mostro» o di «ripugnante», usò senza altro dei termini impressionanti ed indubbiamente preoccupanti. Per quanto attiene al caso del De R., sempre in ossequio al principio sopra espo­sto di esaminare il comportamento del preve­nuto sia antecedente che successivo, si deve ri­cordare che in effetti la V. non si limitò ad ordi­nare la «sospensione della iscrizione», ma si attivò per accertare la natura e l'entità della malattia del ragazzo. A tal fine diede un incarico, sia pur generico, alla prof.ssa De C. che cercò, invano, di acquisire notizie sanitarie al propo­sito. questo Pretore ha motivo di ritenere la teste De C. compiacente se non addirittura falsa.

D'altra parte la deposizione della De C. e le affermazioni della V. sono state confermate dalla dr.ssa P. del servizio medico del Comune di Venezia.

La teste ha infatti ricordato che verso il 15-10­-1972 il medico scolastico dr. A. le telefonò dall'ufficio della V. dicendo d'esser stato incaricato di esaminare la posizione del De R. ma di tro­varsi in difficoltà. A tal fine la dr.ssa P. assunse informazione nella scuola frequentata dal ra­gazzo l'anno precedente riferendone poi alla pre­side. Tutto ciò evidenzia un indubbio interessa­mento della imputata che contrasta con l'accusa mossale di voler deliberatamente sbarazzarsi dei due ragazzi spastici con una scusa (infondata) qualsiasi.

D'altra parte è necessario ricordare a tal pro­posito che la V. ha accolto nella sua scuola altri ragazzi impediti agli arti ed obbligati su una car­rozzella e che anche ora detti sventurati frequen­tano le normali classi. Si potrebbe ancora obiet­tare che il «nulla osta» del Provveditore e le spiegazioni dell'AIAS dovevano indurre l'impu­tata a mutare le sue decisioni ma, a prescindere dalla natura «pilatesca» dell'intervento del Prov­veditore e dalla non vincolatività delle pressioni dell'AIAS, non per questo ci è consentito di dover giungere a sostenere la sussistenza del dolo. Infatti «... a dimostrare la sussistenza del dolo non basta la semplice constatazione della mancata adesione del pubblico ufficiale alle sol­lecitazioni degli organi ministeriali, perché la riluttanza ad adeguarsi ad un invito degli organi di vigilanza o di controllo può essere sorretta dal convincimento di non agire contra legem» (Cass. 14-12-68 in Giust. pen. 69 - II - 853-1601).

Tutto quanto ora esposto a favore della pre­venuta non è certo sufficiente a legittimare il comportamento, come già in precedenza si è dimostrato, ma tuttavia non consente al giudi­cante di escludere che la stessa abbia agito in buona fede. «In tema di reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio, il dolo può ritenersi esclu­so se il rifiuto sia stato opposto in buona fede» (Cass. 24-1-70 in Cass. pen. Mass. Amm. 70­-1667-2506).

, in ultima analisi, si può addebitare con tutta tranquillità alla V. l'accusa di non aver interpretato esattamente una pletora di leggi - l'una sull'altra accavallantesi ed escluden­tesi - alla luce del dettato costituzionale! E ciò, badisi bene, con riferimento alla indecorosa situazione in cui versa la scuola italiana soffo­cata, come se non bastasse, anche da una con­gerie di «circolari ministeriali» ben più incom­prensibili delle norme di legge!

Comunque sia, non è assolutamente possibile sostenere, al pari dei difensori di p.c., che è stato provato il fondamento «razzista» del com­portamento della V.: tale accusa non è stata cor­roborata da alcuna valida prova. Ed è ben com­prensibile come la parte civile si sia battuta per sostenere tale principio: invero se fosse stato provato l'intendimento razzista della V., si sa­rebbe fornita anche la prova della «consape­vole volontà di agire indebitamente e cioè di vio­lazione dei doveri imposti dall'ordinamento giu­ridico».

Infine, solo incidenter tantum, va ricordato che gli assunti difensivi dell'imputata - non del tutto infondati sotto il profilo psicologico, come si è precisato - sono rivolti a dimostrare che le decisioni - illegittime - della V. furono prese sulla base di una errata valutazione dei dati di fatto in suo possesso, e cioè la menoma­zione del De R. e la deformità del F. Per cui, anche sotto questo aspetto, non è possibile escludere aprioristicamente l'applicabilità alla fattispecie della scriminante di cui all'art. 47 C.P.

Alla luce di tutto quanto ora esposto, sussi­stendo un contrasto, allo stato irresolubile, tra elementi probatori a favore sia dell'accusa che della difesa in ordine alla sussistenza dell'ele­mento psicologico del reato in esame, appare inevitabile concludere per una assoluzione della imputata per insufficienza di prove sull'elemento intenzionale.

 

P.Q.M.

 

Assolve l'imputata per insufficienza di prove sull'elemento psicologico.

 

Venezia, 18-1-1974

Il Pretore Pisani

 

 (1) Il testo della denuncia penale è stato pubblicato sul n. 21 di Prospettive assisten­ziali, pag. 30 e segg.

 

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