Prospettive assistenziali, n. 23, luglio-settembre 1973

 

 

ATTUALITÀ

 

DUE FAVOLE CONTRO L'ADOZIONE

SALVATORE SETTIS

 

 

Da dove vengono le idee sull'intoccabile vinco­lo del sangue, l'artificiosità del rapporto adozio­nale e così via? Pregiudizi così arcaici e incolti non li trovi soltanto in qualche sentenza di Tri­bunale (come quella, recentissima, del Tribuna­le Civile di Firenze), ma li ascolti, ripetuti mille volte, dalla voce del «buon senso», di «amici» che ti mettono in guardia dai pericoli dell'adozio­ne, e ti richiamano ai sacri e ancestrali meccani­smi della generazione fisica e dell'eredità. Ma per che vie si propagano e si perpetuano que­ste idee?

Le favole, per esempio. Le favole offrono al bambino (prima lette dai genitori, poi da lui stesso) una prima immagine del mondo, che si integra con la sua esperienza di vita e gli offre alcune linee di una struttura sociale «esempla­re» (nel bene o nel male), che il bambino tente­rà poi di ritrovare nel mondo intorno a sé; e dunque quella struttura delle favole gli offrirà modelli e schemi interpretativi della sua espe­rienza di essere umano. Le favole di una volta presentavano un mondo popolato di mamme tut­te stucchevolmente buone e di matrigne tutte pervicacemente perfide. Ma quelle di oggi? Ecco due favole italiane, stampate l'una nel 1968, l'al­tra nel 1973: due favole dopo la legge sull'adozio­ne speciale. S'intende, di matrigne non si parla più. Ma l'attacco all'adozione come tale è molto più diretto e violento.

La prima è la storia di una famiglia di caprioli (Il piccolo capriolo, Fratelli Fabbri Editori, 1968), firmata da M.P. Pezzi. lI personaggio principale, col quale il bambino è condotto a identificarsi, è un capriolo chiamato Reuccio. La storia, in bre­ve, è questa: si sparge fra i caprioli la notizia che una grande valanga ha travolto la zona dei grandi pascoli; Reuccio teme per la sorte del pa­dre, che lì era andato a pascolare. Lo consola un amico, il capriolo Gentile: e infatti presto si sco­prirà che il padre si è salvato, riportando indie­tro dalla zona dei grandi pascoli anche un caprio­lino ferito, rimasto senza famiglia. La madre di Reuccio lo accoglie, e Reuccio felice veglia per tutta la notte «il nuovo fratellino», dandogli del suo fieno. Ma non ne riceve in cambio che sgar­berie e silenzi. Tutti decidono di chiamare «So­litario» il nuovo venuto. Reuccio lo colma di gentilezze, fino a dichiarargli che gli vuole bene come a un fratello. A questa parola, «si voltò e vide con spavento l'espressione degli occhi di Solitario: due punti neri, insofferenti, senza af­fetto». Ne segue una crisi di sconforto di Reuc­cio, che si confida con l'amico Gentile, il quale lo esorta ad amare il fratello nonostante la sua indifferenza, anche se «non è un buon fratello». Passa il tempo, e «Solitario si staccava sempre più da Reuccio». Nasce dalla mamma di Reuccio un nuovo capriolino, ma Solitario si rifiuta persi­no di vederlo, proclamando: «io non ho fratelli».  Ormai Reuccio non poteva neppure più gustare la gioia di avere un fratello. Quello che era venu­to dalla montagna non accettava il suo amore e riempiva il suo cuore di amarezza: il fratellino lo consolava, ma non era tutto». Un giorno, Solita­rio e il capriolino neonato spariscono: si scopre che Solitario ha trascinato a bella posta il picco­lo in una zona infestata da vipere, e Reuccio fa appena in tempo a salvarlo, mentre Solitario «era più scorbutico che mai». Quando Solitario s'impegna in una lotta con un altro capriolo, Reuccio fa il tifo per lui, ma, vinto lo scontro, So­litario dichiara che tornerà ai grandi pascoli, per­ché «quella è la mia vita». «Detto questo, si voltò, e se ne andò. Non un cenno di saluto per papà e mamma, non un addio a Reuccio». «Reuc­cio corse all'impazzata. E mentre scendeva a valle sentiva la gioia di rivedere i suoi cari, papà, mamma, il Piccolo, tutti per lui, senza più ostaco­li. Una vita lunga, serena e dolce come il tiepido, imminente autunno sull'abetaia». Fine.

Il bambino vive questa favola attraverso gli oc­chi di Reuccio (ma se è adottivo e lo sa, si iden­tificherà piuttosto con Solitario). Ne consegue che trarrà dalla storia i seguenti insegnamenti: 1) i fratelli adottivi ricevono molto e danno po­co; sono un «ostacolo» fra i figli «veri» e i genitori; 2) si ha un bel volergli bene come a fra­telli «veri», sono loro che non lo vogliono; 3) gli amici della stessa razza (o tribù) sono buoni, come Gentile; i fratelli adottivi, che vengono da un'altra razza o tribù (o classe?) sono cattivi; 4) uno può essere gentilissimo con un fratello adottivo che viene da un'altra classe sociale, e cercare di integrarlo nel proprio ambiente fami­liare; ma quando sarà cresciuto, quello lì se ne tornerà fra la sua gente rozza e dura, e per giun­ta senza nemmen salutare. Conclusione: se si vuole una vita «lunga, serena e dolce», meglio non adottare.

Se il bambino si è identificato in Solitario, im­parerà che: 1) tutto quello che riceve dalla fa­miglia adottiva non gli è dovuto, e perciò sarà meglio avere l'animo permanentemente traboc­cante di gratitudine; 2) in lui albergano cattivi istinti, dovuti alla sua origine bassa e oscura, che possono condurlo ad azioni ignobili, come la tentata uccisione di un fratellino neonato (ma non un fratellino «vero») ; 3) nella nuova fami­glia, egli è un elemento di disturbo, un «ostaco­lo» nei rapporti fra i fratelli e i genitori; solo quando se ne sarà andato via, la loro vita potrà tornare serena; 4) giunto all'adolescenza, niente da fare: non essendosi potuto adattare alla nuo­va «gente», non potrà che mettersi in cerca della sua «gente» di origine, e pianterà tutti senza un saluto: altro gesto assurdo e riprove­vale, ma, dato il marchio d'origine, inevitabile.

 

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Prendiamo la seconda favola. Si intitola Il car­bonaio e la principessa, ed è pubblicata nel se­condo numero di un sofisticato giornale per bam­bini, «Il Giornalone» (maggio 1973, pag. 3), che si era presentato con lo slogan «il giornale da leggersi sulla moquette». Un carbonaio si inna­mora di una pastorella, e i due si vogliono spo­sare. Ma il padre della pastorella rivela loro un terribile segreto: la figlia è adottiva! Gliel'ha affi­data il re, piccolissima, in una notte di tempesta. Pastorella e carbonaio sono solleticati e compia­ciuti della cosa, e si apprestano a sposarsi. Ma il padre del carbonaio, «lavoratore solido e senza grilli pel capo», si ribella: non vuole che il figlio sposi una ragazza che è in realtà la figlia non dell'onesto pastore, ma «di un fanigottone e scellerato» come il re. Pianti e disperazione. Ma arriva la Maga dei Boschi, e spiega che il re ave­va dato sì la bambina al pastore, ma dopo averla trovata egli stesso nel bosco, dove, guarda caso, l'aveva smarrita proprio lo stesso pastore! A questo punto il pastore piange di felicità, «come pure la ragazza che aveva ritrovato il suo vero padre, proprio due minuti dopo che aveva saputo di essere figlia adottiva e trovatella». Matrimo­nio finale.

La favola - firmata, dispiace dirlo, da Umberto Eco - è costruita su un capovolgimento del meccanismo tradizionale delle favole, per cui mi­serrime e cenciose pastorelle si ritrovano all'im­provviso figlie del re: qui il re è meritoriamente presentato come uno sfruttatore delle classi in­feriori. E fin qui d'accordo. Ma proprio perché la favola contiene questo insegnamento bisogna a più alta voce protestare per il modo come è pre­sentato il rapporto fra la pastorella e i suoi geni­tori. Il personaggio più positivo della storia, il padre del carbonaio, non accetta che il figlio spo­si la pastorella non perché ella voglia trasferirsi, farsi riconoscere dal Re, supposto suo padre; ma semplicemente perché crede che ella sia figlia carnale del re. Se ne deduce che essere vissuta poveramente e onestamente fino all'età del ma­trimonio non conta nulla; quel che conta è il san­gue che si ha dentro.

Quando poi si riesce a scoprire che il padre carnale della ragazza è lo stesso che l'ha alleva­ta, ne conseguono esplosioni di gioia, perché la ragazza non è più «adottiva e trovatella». Se ne conclude che essere figlio adottivo è una condi­zione inferiore e degradante, da nascondere co­me un segreto. Il pastore che non è ancora il pa­dre della ragazza dopo vent'anni o giù di lì che la segue e la cura, diventa di colpo il vero padre dopo che la Maga dei Boschi ristabilisce l’esatta e tranquillizzante situazione anagrafica.

 

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Le due favole, profondamente diverse, hanno in comune un punto, quello essenziale: i vincoli del sangue e l'eredità familiare che si trascinano seco, sono più forti del legame d'affetto che con­segue da una vita vissuta insieme. Brutalmente messa in esclusivo risalto nella goffa storia del capriolo adottivo, questa «verità immortale» è più pericolosa nella pagina di Umberto Eco, per­ché vi si trova intrecciata con un tema positivo e lodevole, «che è meglio esser figli di un pastore onesto che di un re furfante». Come potrà un bambino districare questo tema dall'altro, «che una persona è quello che è a seconda di chi lo ha generato, non di chi lo ha educato»? Giriamo questa domanda a Umberto Eco, tante volte acu­tissimo e meritorio esegeta degli altrui errori educativi.

 

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Molto più aperto e civile di questi moderni fa­volisti appare Fedro (sec. I d.C.): Un cane dis­se ad un agnello che camminava fra le capre: «Sciocco, ti sbagli, tua madre non è qui» e gli mostrò delle pecore che erano a una certa di­stanza. L'agnello rispose. «Oh, no, io non cerco una madre che concepisce quando le pare, poi porta per quei tanti mesi un peso sconosciuto, e infine lo dà frettolosamente alla luce; cerco quel­la che mi ha nutrito offrendomi la sua mammella, e togliendo latte ai nati da lei». «Ma tuttavia è pur sempre più importante chi ti ha partorito». «No proprio. Che gran regalo mi ha fatto metten­domi al mondo perché aspettassi il beccaio a ogni momento! Che ne sapeva, se sarei stato ne­gro o bianco? E che poteva scegliere se farmi na­scere maschio o femmina? Quella non ha fatto alcuna scelta nel generarmi, la capra che mi ha allevato, sì: ha avuto pena di me vedendomi solo e affamato, e mi ha donato il suo affetto senza es­servi costretta. Perché chi mi ha generato do­vrebbe essere più importante per me di chi mi ha amato? Non è il legame naturale, ma la bontà e l'affetto, che rende degni del nome di genitori». (Libro III, 15).

 

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