Prospettive assistenziali, n. 21, gennaio-marzo 1973

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

COGESTIONE E CONTROLLO DEMOCRATICO (1)

 

Mi sembra sia di notevole interesse il tentativo di distinguere la ge­stione degli strumenti sanitari dal controllo politico degli strumenti stessi. Questo discorso vale naturalmente per gli ospedali come in genere per le strutture sanitarie e in particolare per quelle di base.

In sostanza, la gestione può essere affidata ad organismi espressi da­gli enti locali interessati in modo prevalente e il controllo politico invece dovrebbe essere riservato a organismi espressi direttamente dai cittadini.

Qui le posizioni non sono molto unanimi: le organizzazioni sindacali in modo particolare hanno continuato più o meno apertamente a sostenere il tipo di esperienza che esse hanno condotto fino ad oggi anche nel siste­ma mutualistico. Si partì dal presupposto che la presenza delle rappre­sentanze di categoria o sindacali nell'ambito dei consigli di amministrazio­ne o di gestione degli enti mutualistici, rappresentasse una forma di parte­cipazione. La verità è che, malgrado talune esperienze positive, malgrado anche taluni apporti personali considerevoli, inevitabilmente chi viene in­serito nell'ambito di un consiglio di amministrazione di un ente non può che assumere la mentalità - e anche, diciamo così, ne ha il dovere - dell'amministratore dell'ente e quindi di una sorta di controparte rispetto all'utente. È inevitabile, direi che è anche doveroso, perché altrimenti il discorso della buona amministrazione nel senso più proprio, nel senso ve­ro, non avrebbe più possibilità di realizzarsi. Ora, sotto questo aspetto, l'inserimento nell'ambito del Consiglio di amministrazione più che essere un elemento di partecipazione è diventato un vincolo, è diventato un lega­me, è diventato un processo di integrazione nel sistema e di sostegno del sistema e di resistenza al cambiamento del sistema. È così, anche se taluni dei miei amici sindacalisti tentano sempre a questo punto di fare un di­scorso di difesa. Intendiamoci, non è una accusa nei confronti di quelli che sono andati ad assumere delle responsabilità di questo tipo, ma è una cri­tica al tipo di approccio al problema che si è ritenuto potesse dare dei ri­sultati che non poteva dare, perché segue una logica diversa. Ora, è pro­prio per questo e da questo che parte l'esigenza - secondo me - di di­stinguere i due momenti e di creare, di inventare, un nuovo momento che non abbiamo nella nostra tradizione, cioè quello del controllo, della propo­sta, della iniziativa di carattere politico che nasce da un organismo che non è direttamente impegnato dal punto di vista amministrativo, che però ha una funzione riconosciuta ufficiale, che assolve per un mandato che ha esplicitamente ricevuto attraverso una forma elettiva di base: una forma elettiva di base che tanto più sarebbe valida, secondo me, quanto più pre­scindesse dagli schemi e dalle formule tradizionali, cioè non espressa at­traverso liste presentate dai partiti o dalle categorie, ma espressa da par­te di cittadini o di gruppi di cittadini su una lista unica nell'ambito della quale i cittadini scelgano coloro che possono essere i loro rappresentanti. Ciò non toglie che in questo tipo di rappresentanza possa essere inserita anche qualche forma di partecipazione organizzata di categorie, oppure si possano inserire di volta in volta degli elementi che sono mandati con un compito specifico per problemi che attengono ad alcuni gruppi o ad alcune categorie di cittadini, ecc.; va fatto uno sforzo di fantasia in questa direzio­ne che può trovare utili riferimenti ad esempio in esperienze tedesche.

 

Da FRANCO FOSCHI, Nuovi rapporti fra ospedale e comunità (unità sanitaria locale, servizi aperti, forme di partecipazione, ecc.), in Servizio sociale in campo sanitario nella prospettiva dell'unità locale dei servizi, Ed. Fondazione Zancan, Padova, 1972, pag. 64 e 65.

 

(1) Un esempio concreto di controllo democratico è costituito dalla commissione di controllo di cui ampiamente viene riferito nel libro della Sezione di Torino dell'Associazione per la lotta contro le malattie mentali, La fabbrica della follia, Serie politica 26, Einaudi, 1971, pagg. 163, L. 1000.

 

 

LA STATIZZAZIONE DI SCUOLE PER NON VEDENTI E PER SORDOMUTI

 

«La battaglia per l'integrazione nella società normale incomincia alle elementari» scrive sul Corriere della Sera (22 gennaio 1973) Giuliano Zin­cone in un articolo che riporta i penosi pregiudizi che ancora circondano i non vedenti: «Dalla famiglia superprotettiva e quindi involontariamente segregante si passa all'ostilità della scuola, all'atteggiamento di una so­cietà che non si aspetta niente... ed è pronta a considerare il minimo bene­ficio come una esagerata generosità». Ed ancora «gli istituti, la solitudi­ne, il naufragio dell'autostima, diventano abitudine ad affidarsi alla carità e alla commiserazione del prossimo».

Questo restare indietro, sempre più indietro degli handicappati rispet­to agli altri è la discriminazione di una società che trova comodo, dal mo­mento che il mercato del lavoro è incapace di offrire a tutti occupazione e retribuzione egualmente dignitosa, escludere e scoraggiare subito coloro che offrono minore garanzia di efficienza.

In questa lotta contro la statizzazione di scuole per handicappati sen­soriali si è ora affiancata l'associazione per i bambini sordi (Roma, Via della Scrofa 64) di cui volentieri riproduciamo un appello.

 

- Ai Senatori e Deputati componenti il «Gruppo Interparlamentare Amici dei Sordomuti»

- Ai Deputati firmatari della proposta di legge per la statizzazione delle Scuole per sordomuti

- e p.c. agli Assessorati regionali dell'assistenza, della Sanità, dell'istruzione e dei Servizi Sociali.

Vogliamo anzitutto ringraziarVi del Vostro impegno per la causa delle persone sorde al quale intendiamo corrispondere affinché ne sia dato il giusto riconoscimento da parte di chi vede così considerate le sue ne­cessità.

Queste, oltre che urgenti, sono molte - differiscono con l'età, la con­dizione economica, l'eventuale esistenza di altre menomazioni - ma tut­te riconducibili a quelle della prevenzione delle conseguenze della sordità, nei casi numerosi di sordi nati, e della integrazione morale, sociale, econo­mica della persona sorda.

Prevenzione da realizzarsi mediante l'azione di idonei presidi che agi­scano sui bambino sordo sia direttamente che tramite la famiglia e la scuola normale. «Prevenzione» che significa anche soddisfare la vitale necessità del bambino sordo di compensare con la vista e la partecipazio­ne diretta ciò che perde in comunicazione per la mancanza di udito, con­sentendogli di stare e di svilupparsi nel suo ambiente che è quello dove stanno i suoi genitori e i suoi fratelli.

Integrazione come effettiva possibilità della persona sorda di stare nella società, che può essere conseguita con il necessario livello di cultu­ra, con una sufficiente autonomia economica e con un minimo di compren­sione e di assistenza dagli udenti che compensi il precipuo svantaggio.

Ma tutti gli elementi di cui sopra, atti ad assicurare il necessario li­vello di prevenzione e di integrazione sono, in questo nostro Paese, tal­mente scarsi e difettosi, che il destino di una persona che nasca sorda è, nella maggior parte dei casi, quello di diventare un sordomuto e, quello di un sordomuto, l'essere sostanzialmente un emarginato.

Le cause, in genere, sono quelle comuni alla maggior parte dei proble­mi sociali del nostro Paese e, in questo campo, trovano nell'esistenza dell'Ente Nazionale Sordomuti le condizioni per resistere e permanere. Nato, l'E.N.S., in tempi in cui la segregazione costituiva la normale risposta della società in queste situazioni, sviluppatosi successivamente nel caos degli enti e delle leggi sull'assistenza, conserva di quei tempi mentalità, strut­ture e sistemi, insensibile al mutare delle condizioni sociali e all'acquisi­zione delle nuove conoscenze scientifiche. Anziché agire per responsabi­lizzare la società ai problemi delle persone sorde, che con presagio chiama «sordomuti», ha preferito «gestirli in esclusiva» cosicché l'opinione pub­blica continua ad ignorare detti problemi con le conseguenze che ben si conoscono. A conferma di ciò, riferendosi ad esempi più facilmente verifi­cabili, basta citare il caso della legge 30-3-71 118 per gli invalidi civili che escludeva specificatamente i sordomuti dal beneficio della pensione di L. 18.000, nell'ovvio presupposto di un trattamento uguale o migliore per effetto di «altre leggi» che stabilivano invece detta pensione in L. 12.000. C'è voluto più di un anno e la fortunosa occasione della nuova legge sulle pensioni (26-8-72 222) per eliminare tale sperequazione. Quale altro esempio, valga la proposta di legge 665 per la statizzazione delle scuole per sordomuti - sulla quale vogliamo richiamare l'attenzione -: quando è più che accertato il danno che la permanenza in istituto arreca al bam­bino sordo; audiologi, psicologi e pedagogisti sono da anni concordi su questo; quando, dalle riserve generiche di un tempo, tutta l'opinione pub­blica ormai decisamente respinge quel tipo di scuole, l'E.N.S., in collabo­razione con gli istituti per sordomuti, propone di statizzarne a decine. L'E.N.S. ignora, d'altra parte, il concetto stesso di prevenzione.

La nuova dimensione sociale acquisita, anche per merito del Parla­mento, da questi problemi ha favorito il formarsi in tutta Italia di forze, di cui questa Associazione costituisce espressione, che perseguono un di­verso modo di affrontare i problemi della sordità e delle sue conseguen­ze: genitori di bambini sordi, sordi adulti, medici, assistenti sociali, ortofo­nisti, insegnanti ecc., tutte persane che vivono questi problemi, che sof­frono questa situazione, che non intendono lasciare, come l'hanno trovata, alle future generazioni di sordi e loro famiglie.

Noi insistiamo affinché la collettività faccia definitivamente propri i problemi delle persone sorde e organizzi, nell'ambito delle strutture pub­bliche normali, legate alle comunità locali, quei presidi sanitari e sociali di prevenzione e d'integrazione.

Consistenti sono già i risultati di questa azione sia nei confronti delle famiglie stesse, ulteriormente responsabilizzate nel processo di recupero del bambino sordo, sia nei confronti dei Comuni, delle Province e adesso delle Regioni perché creino idonei strumenti e condizioni.

Ma nessun risultato durevole potrà essere ottenuto se il Parlamento, che ha certamente presenti le linee dello sviluppo legislativo in campo assi­stenziale e la conseguente accresciuta necessità di discernere sull'impiego delle relative risorse, non approfondisce adeguatamente i molteplici aspet­ti del problema e, lungi dal considerare l'E.N.S. l'unico interlocutore, non utilizzi adeguatamente il contributo delle forze sociali interessate.

 

 

COERENZA CATTOLICA (1)

 

Caro Direttore,

La «Voce del Popolo» pubblicava il mese scorso una nota sulla chiusura della Fondazione D. Carlo Gnocchi avvenuta il 18-7-'72. Quei «no» della Direzione milanese rappresenta una chiusura in tutti i sensi, in quan­to ha delle implicazioni pastorali, che suscitano almeno perplessità.

Un ciclostilato a cura del Comitato sindacale dell'Istituto informa:

«I 58 dipendenti della Pro Juventute Don Carlo Gnocchi di Torino sono stati licenziati con la generica giustificazione di “strutturazione del Centro di Torino”. Ciò ha determinato:

- il trasferimento in altri Centri della Pro Juventute (e per alcuni l'allontanamento dall'Istituto) di circa 250 ragazzi tra poliomielitici, spasti­ci, distrofici ecc...;

- il disagio e lo scompiglio tra numerose famiglie dei ragazzi;

- 58 lavoratori, di punto in bianco, messi in mezzo alla strada senza lavoro.

«Da rilevare che il “Don Gnocchi” ha preso questa decisione: sen­za consultare le famiglie dei ragazzi ospiti; senza tener conto delle conse­guenze psico-pedagogiche nei confronti dei minori trasferiti o allontanati; in dispregio ad ogni norma contrattuale e legislativa che tutela i diritti dei lavoratori; nel modo più inumano che un Ente morale (sovvenzionato dallo Stato e dagli Enti locali) potesse agire, se si tiene anche conto che il prov­vedimento è stato preso nel momento in cui i ragazzi ospiti erano assenti per il periodo estivo ed il personale in ferie».

A seguito di un fatto come quello citato, ecco alcuni interrogativi e riflessioni:

1) Si constata con amarezza come si illustrino in sede teorica i vantaggi umani e cristiani della partecipazione a tutti i livelli e poi si usi tranquillamente il metodo della esclusione (il fatto ricorda molto da vicino lo stile delle Cartiere Italiane Riunite!).

2) Quando ricerchiamo i modi nei quali s'incarna il peccato dell'uo­mo d'oggi, parliamo sempre più di disimpegno, di omissione. Non c'è in tutta questa vicenda una radice di peccato, collocabile là dove si prende l'occasione per liberarsi di un fastidio?

3) Le opere assistenziali della Chiesa devono essere esemplari per la società civile. Questo comporta la croce continua di indagare, di discu­tere, di mettersi in crisi, di rimetterci anche finanziariamente. Come si può pensare che questo sia stato fatto dai responsabili dell'Opera che, a mag­gio prospettano contatti con la Regione, per concordare la costituzione di «focolari» e ad agosto chiudono i battenti? La direzione del personale (il capo è un religioso) si era rivolta al gruppo degli assistenti per avere nuo­vi programmi e relazioni sullo stato del Centro e forse disposta a ricevere un aiuto a concretare, con maggior aderenza ai tempi, il carisma tipico dei religiosi. Ma poi la richiesta, che doveva essere finalizzata alla conversione dei richiedenti è diventata la causa della chiusura.

4) È stato fatto partecipe il Vescovo o il Consiglio pastorale dioce­sano o il Vicario Episcopale dei Religiosi o la Commissione Diocesana di Assistenza di una decisione così importante e impegnativa?

5) Quale conto è stato fatto delle scelte pastorali della Diocesi, in­dicate nella «Camminare insieme»? È accettabile che in nome della va­rietà dei carismi e del pluralismo si facciano o si tollerino le scelte più con­trastanti, che poi qualcuno, da qualche parte, nella Chiesa pagherà?

6) Ci sono i 300 utenti dell'Opera, per giunta minori, in situazione di vero bisogno; inoltre ci sono i 58 adulti, implicati in questa chiusura. Nessuno ha dialogato con loro; anzi, ad una precisa richiesta di dialogo, si è risposto, prima con assicurazioni che impedissero di parare il colpo e quindi col provvedimento. Lo stile è quello violento, tipico del sistema ca­pitalistico. Il denaro c'era e c'è tuttora: lo testimoniano le liquidazioni di­scretamente elevate, di cui sono stati gratificati i licenziati.

I responsabili della Fondazione possono contare su di una reazione molto modesta: alcuni assistenti hanno trovato una sistemazione diversa e finanziariamente migliore; altri hanno acquistato l'auto sportiva, giudicata fino a ieri un sogno proibito.

Se cade la solidarietà, si placa anche la fame e sete di giustizia. Dun­que c'è speranza di ritornare alla «normalizzazione».

DON PIERO GALLO

 

da La Voce del Popolo, n. 46, del 26 novembre 1972

 

(1) In queste ultime settimane la «Pro-Juventute» ha deciso di istituire centri per spastici ad Alessandria e a Cuneo. Vedasi al riguardo in questo numero la rubrica «Noti­ziario dell'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore e per la lotta contro l'emarginazione sociale».

 

www.fondazionepromozionesociale.it