Prospettive assistenziali, n. 21, gennaio-marzo 1973

 

 

LIBRI

 

 

GREGORIO BERMANN, La salute mentale in Cina, Edizioni Einaudi, Nuovo Politecnico 49, 1972, pag. 379, L. 1800.

 

Il libro «La salute mentale in Cina» vuole col­mare un vuoto di informazioni sul modo di cura­re i malati mentali in Gina, e dimostra come in quel paese lo studio della psichiatria e della sa­lute mentale in genere sia penetrato nell'intera problematica della società e della persona. Ci troviamo di fronte ad un mondo nuovo che tende a rompere i sistemi vecchi, consapevole dei gros­si mutamenti che stanno avvenendo e che esigo­no un rinnovamento radicale dei problemi umani proprio per creare all'uomo la possibilità di una vita migliore.

Certo l'esperienza cinese appare interessante, e anche se il suo modello non può essere imita­to «una copia ne sarebbe solo una caricatura condannata al fallimento», quell'esperienza ser­ve a dimostrare come un popolo povero si sia ispirato alle sue più urgenti necessità ed alle sue risorse per tentare di risolvere i difficili pro­blemi della salute mentale, partendo dalla com­plessità globale della realtà umana secondo un movimento dialettico e non statico. In una bella prefazione Franca Basaglia ci presenta il libro chiarendone la sua importanza per tutti, dal mo­mento che la psichiatria di tutto il mondo è or­mai giunta ad un momento di riflessione e nel suo passaggio dall'uomo malato ad ogni uomo ci ha fatto entrare direttamente «nella problematica dell'uomo contemporaneo, e di ciò che lo condi­ziona non solo sul piano della psicologia umana, ma su quello delle relazioni interpersonali, di tutto ciò che si riferisce alla sua situazione nel mondo, alle sue condizioni di esistenza, ai pro­blemi economici, culturali e politici».

L'autore del libro dal 1957 al 1967 è venuto rac­cogliendo una documentazione sulla salute men­tale in Cina, prima e dopo la rivoluzione cultura­le, e ci porta passo passo a constatare come la medicina in Cina sia uno strumento al servizio del popolo, sia una risposta ai suoi bisogni im­mediati: «l'esempio della casa per convalescen­ti di Pechino ci può dare la misura di che cosa significhi un intervento tecnico sostenuto da e per il popolo, e quali siano i risultati reali di un servizio che, via via, riduce il bisogno, risponden­dovi in modo immediato e trovando la comunità pronta a continuare l'azione di riabilitazione e di recupero. Se, come si afferma, l'eccezionalità della rivoluzione cinese sta nell'essere una rivo­luzione permanente della sovrastruttura, cioè del­le istituzioni (una volta trasformata la struttu­ra), in nessun luogo come in Cina è possibile «verificare praticamente la necessità per ogni intervento tecnico che voglia essere efficace, di una coincidenza fra la funzione delle istituzioni e la struttura sociale».

«Dare la preminenza alla politica anche in me­dicina significa questo: riconoscere che la stra­tegia, la finalità primaria di ogni azione è l'uomo, i suoi bisogni, la sua vita, all'interno di una col­lettività, che si trasforma, per raggiungere la sod­disfazione di questi bisogni e la realizzazione di questa vita per tutti. Il che significa capire che il valore dell'uomo, sano o malato, va oltre il valore della salute e della malattia; che la malattia, co­me ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento di appropriazione o di alie­nazione di sé, quindi come strumento di libera­zione o di dominio; che ciò che determina il signi­ficato e l'evoluzione di ogni azione è il valore che si riconosce all'uomo e l'uso che si vuol farne, da cui si deduce l'uso che si farà della sua salu­te e della sua malattia; che in base al diverso va­lore ed uso dell'uomo, salute e malattia acquista­no o un valore assoluto, (l'uno positivo e l'altro negativo) come espressione della inclusione del sano e dell'esclusione del malato dalla norma; o un valore relativo in quanto avvenimenti, esperienze, contraddizioni della vita, che si svolge sempre fra salute e malattia. Se il valore è l'uo­mo, la malattia non può servire da strumento per eliminarlo, così come la salute non può rappre­sentarne la norma, se la condizione dell'uomo è di essere costantemente sano e malato».

«Il malato, il menomato, l'handicappato, l'inef­ficiente non sono gli elementi negativi di un in­granaggio che deve comunque procedere in un senso unico, ma fanno parte dei soggetti per sod­disfare i bisogni dei quali la produzione esiste e si sviluppa».

«La storia dell'uomo è la storia delle rivendi­cazioni del suo diritto alla vita, che sia vita uma­na per tutti. Questa vita umana non è ancora sta­ta vissuta pienamente, perché la storia dell'uomo è anche una lunga storia di sopraffazioni e di so­prusi da parte dei pochi sui più. Per questo es­sa non potrà mai rappresentare in sé un altro va­lore assoluto e contraddittorio, ma sarà continua­mente riproposta come realtà sempre abortita e insieme come rappresentazione del suo valore. E la vittoria della Cina è riuscita a continuare a proporla e a rappresentarla praticamente, nono­stante settecento milioni di contraddizioni».

«Oggi un giovane cinese sa che non sarà più confinato per la vita nel suo villaggio e neanche nella sua provincia e che il suo lavoro contribui­sce a elevare il livello di vita di tutti, e quindi an­che il suo».

JOLE MEO SOSSO

 

 

ALFREDO FRANCO, Il vecchio in Italia - O merce o rifiuto, Coines Edizioni, Roma, 1972, pag. 177, L. 1.500.

 

In Italia, nove milioni di anziani: mancano per loro le necessarie strutture sanitarie e sociali. La situazione è ancora aggravata dalle pensioni da fame: il 70% dei pensionati dell'INPS percepi­sce meno di 30.000 lire al mese, un milione sono gli anziani che hanno la pensione sociale di L. 18.000 mensili. Hanno pertanto buon gioco le speculazioni degli enti di assistenza, delle mu­tue, degli ospedali e dei privati.

In questo quadro sale ogni anno il numero dei suicidi fra gli ultrasessantenni: dal 20,1% nel 1906-1915 al 32,2% nel 1956-1962.

Il libro denuncia questa situazione. Nella pri­ma parte pubblica interviste agli anziani dei dor­mitori pubblici, di alcuni mendicicomi, delle case di riposo e cronicari, di cui ne riportiamo due, molto significative: la prima di un anziano del dormitorio pubblico di Primavalle di Roma, la se­conda di una signora ricoverata nel cronicario «San Simone» di Viterbo.

 

I

D.: Mi ha detto prima che ha paura di essere mandato via dal dormitorio.

R.: A taluni li hanno già mandati via. Uno ha trovato 'na cameretta e s'è salvato, un altro è andato da sua figlia, una figlia grande, e s'è sal­vato, poi l'ho rivisto dalle suore, ed altri sono mandati via perché serve il posto.

Perché, sa com'è? Mo' glie' dico. Il dormitorio è un punto di passaggio. Capisce che è il punto di passaggio? Per modo de' dire, se lei si trovas­se a veni' da fuori e non ha dove dormire va alla questura a San Vitale, alla questura centrale, e dice: «Facciamo un foglio» e per una notte può dormire al dormitorio. Una notte o due notti al massimo. Tanti ne so' venuti al passaggio, hanno dormito una notte, due notti, poi via.

D.: E dove vanno?

R.: Alla stazione.

D.: A dormire alla stazione?

R.: Eh, già. O se è estate su una panchina!

D.: E questa vita fino a quando?

R.: Fino a quanno uno nun buca.

D.: Cioè, fino a quando uno muore?

R.: No, sa che significa? Che va anche al tu­bercolosario, che è pieno! È pieno, perché è la ti­si che li rovina. Il mangia' che è minimo.

D.: Questi uomini che speranza hanno per il futuro? Cioè oltre al tubercolosario e a passar la vita a questo modo...

R.: Beh! Se hanno la forza di non avvilirsi co­me me, di non pensare troppo, non vanno manco al manicomio! Perché pure al manicomio si va a finire. Quanti ne conosco! E quanti ormai fanno dei ragionamenti e non sanno nemmeno quello che dicono. Parlo con Michele, co' Pasquale, e dice: «Ma guarda che sto a parlare con te, non mi senti quello che dico?». So' inebetiti, so' tonti.

 

II

D.: Quando è entrata nel cronicario?

R.: Io? Nel '59. Undici anni che sto a letto. Ora a luglio saranno dodici. Con mio marito siamo ve­nuti insieme qui.

D.: È venuta qui con suo marito?

R.: Sì. Poverello, è morto nel '66.

D.: Qui, al cronicario?

R.: Sì - fa una lunga pausa, durante la quale le si inumidiscono gli occhi - È siciliana Lei?

D.: Sì. Da che cosa l'ha capito, dall'accento?

R.: Beh! Ho preso due mariti e il primo era di Palermo.

D.: Che malattia ha?

R.: Ho il diabete insipido.

D.: Come se la passa qui?

R.: Come me la passo! Mi devo rassegnare così!

D.: In che senso si deve rassegnare?

R.: E perché adesso non ho... - si mette a piangere.

Tra le lacrime mi sorride come per scusarsi.

D.: Che pensione ha?

R.: Io stavo al ministero dei Trasporti, all'uffi­cio movimento, e prendo la pensione statale di cinquantamila lire.

D.: Quindi lei dovrà stare sempre qui. Non ha la possibilità di andare in un ospedale specializ­zato per farsi curare.

R.: Beh, quello ci vorrebbe, perché qui non mi fanno niente.

D.: In che ospedale dovrebbe andare?

R.: E io da me come faccio a saperlo? Se non se ne occupa nessuno qui. Almeno potrebbero fare qualche cosa.

D.: Qui le cure le fanno?

R.: Niente, niente.

D.: Il diabete non glielo curano in alcun modo?

R.: No, no. Perché io non ho il diabete zuc­cherino, ho quello insipido e allora ci vorrebbe un preparato che si chiama Pitiutrin, che quando ero a Roma me lo davano, mentre qui non me lo dànno più!

D.: C'è qualcuno che vi tiene compagnia o che bada a voi?

R.: A me?

D.: A tutti.

R.: E chi ce ne tiene?

D.: Siete lasciate a voi stesse, abbandonate.

R.: Eh, si. Quelle che camminano, magari esco­no, vanno fuori. Io per fortuna mi metto a legge­re dei giornali, se no come si fa?

 

*  *  *

 

Questa parte del libro che riporta le interviste è molto efficace in quanto presenta in modo ab­bastanza completo la situazione degli anziani co­me esce dai racconti dei protagonisti. Inaccet­tabile è invece la seconda parte che riguarda le proposte di assistenza e di cura.

Esse infatti non sono per nulla innovative, poi­ché si limitano a richiedere il potenziamento di istituzioni oggi superate come l'INRCA (Istituto nazionale di riposo e cura degli anziani) e la istituzione di servizi (ospedali, centri ambulato­riali, ecc.) riservati agli anziani. Esse non si pon­gono per nulla il problema se sia un bene per gli anziani essere separati dal resto della società.

Investimenti sono richiesti per creare nuovi istituti non per riadattare l'anziano alla vita di ogni giorno; mentre oggi si sa che il trattamento più pericoloso per l'anziano è l'inattività. Alcuni nuovi istituti sorgono lontani dall'abitato e senza vie di comunicazione.

Una nuova assistenza deve invece partire dal­la filosofia che gli anziani devono restare per quanto è possibile in mezzo alle loro cose e ai loro ricordi.

 

 

NANCIE R. FINNIE, Il bambino spastico. Istruzio­ne ai genitori, La Nuova Italia - Firenze, 1972 - L. 2.000.

 

Come è detto nella presentazione il libro si può definire come una offerta di dialogo fra tera­pista e genitori sui problemi della vita quotidia­na del bambino spastico; così da costituire un prezioso manuale per i genitori affrontando con linguaggio colloquiale e semplice, con pazienza e minuzia, i singoli problemi dei bambini con pa­ralisi cerebrale in tutte le loro attività nella vita di ogni giorno in famiglia. I bisogni e le attività (l'abbigliamento, l'alimentazione, il riposo, il gioco ecc...) del neonato e del bambino fino a cinque anni, periodo durante il quale è affidato in prevalenza alle cure dei genitori, sono trattati nei singoli capitoli con una approfondita analisi e con continui riferimenti al bambino normale. I consigli e le istruzioni si basano su solidi princi­pi dottrinari e sulla esperienza rivoluzionaria del­la scuola inglese di Karel e Berta Bobath. «La cura e il trattamento di questi bambini richiede la collaborazione dei medici, dei terapisti e dei genitori. Si sa da tempo che per ottenere buoni risultati i genitori devono partecipare attivamen­te e con intelligenza al piano di trattamento. Que­sto vale in modo particolare per il neonato o per il bambino piccolo che trascorra la maggior par­te del tempo con la madre. Pertanto il modo con cui la madre muove il bambino nel giocare con lui, nel trasportarlo, nel vestirlo, fargli il bagno, metterlo sul vasino, può avere grande importan­za nel favorirne od ostacolarne i progressi e quindi l'aver lasciato la madre senza consigli det­tagliati e senza guida, è stato sovente di ostacolo al buon esito del trattamento. Affinché i progressi ottenuti nel corso del trattamento possano esse­re estesi e consolidati nella vita in famiglia, oc­corre dedicare parecchio tempo nell'istruire la madre sul modo più corretto di muovere il bam­bino a casa. Ma non basta insegnare alla madre ciò che deve fare e come deve farlo, occorre che impari a capire perché certe cose vanno fatte e altre no. In breve essa deve capire il suo bambi­no, le sue difficoltà, le sue capacità potenziali. La conoscenza inoltre del processo evolutivo del bambino normale le servirà per l'acquisizione di nuove capacità e per capire in che modo la lesio­ne cerebrale ha rallentato lo sviluppo del suo bambino o lo ha reso anormale.

Questo libro dovrebbe essere di aiuto tanto ai terapisti quanto ai genitori e agli insegnanti. Es­so è il frutto della lunga esperienza acquisita dal­la sig.na Finnie nei 13 anni in cui si è occupata di questi problemi quale vice direttrice del We­stern Cerebral Palsy Centre di Londra. Nessun bambino affetto da paralisi cerebrale è uguale a un altro, e i consigli generici che possono valere per tutti i bambini non sono di grande utilità. La sig.na Finnie ha cercato di dare consigli specifici in rapporto ai problemi presentati da vari tipi di bambini. Essa dice: «Se il Vostro bambino è co­sì... allora dovete fare così (...) . Questo modo di affrontare il problema non è mai stato tentato prima, ed è questo che, insieme alle molte illu­strazioni, rende il libro tanto prezioso per i geni­tori, gli insegnanti e per tutti coloro che si inte­ressano a questi bambini». (Dalla premessa di Karel e Berta Bobath).

Il libro considera quindi essenziale nel compi­to della riabilitazione la collaborazione dei geni­tori, poiché soltanto così il bambino avrà mag­giori possibilità di sviluppare le sue capacità, per quanto limitate. È un errore da parte dei ge­nitori il credere che, avendo affidato il loro bam­bino a degli esperti, la loro responsabilità per quanto riguarda il trattamento debba cessare. Si può anzi dire che soltanto rimanendo affidato al­le cure dei genitori il bambino spastico, come quello normale, potrà raggiungere la necessaria maturazione affettiva oltre che psico-fisica. Inol­tre ci sembra di cogliere nel libro un efficace sti­molo per quei genitori i quali ritengono che solo fa terapia può aiutare il loro bambino. Questo metodo di trattamento invece coinvolgendo an­che i genitori li porterà a conoscere meglio il proprio figlio e le sue difficoltà, i suoi bisogni che non sono solo quelli fisici, ma sono soprattut­to affettivi. Solo così, secondo noi, si potrà aiuta­re efficacemente il bambino spastico ad inserirsi nella società, malgrado le sue difficoltà che non possano essere negate. Ecco a questo proposito che cosa dice l'autrice al riguardo della socia­lizzazione: «Se il bambino affetto da paralisi ce­rebrale dovrà adattarsi alla comunità della scuo­la e più tardi a quella del mondo, dovrà prima di tutto imparare ad occupare il suo posto nella co­munità della famiglia. I contatti personali con la famiglia e con i vicini sono ovviamente molto im­portanti; la segregazione non farebbe che ritar­dare la sua adattabilità alla vita di relazione; lo stesso accadrebbe per il bambino normale».

Il libro quindi ci trova d'accordo per il suo va­lido contributo tecnico alla riabilitazione e per il valore dato alla collaborazione dei genitori in questo compito; riteniamo comunque di dover riaffermare ancora una volta un principio che ci sembra essenziale ossia che non sia la collabo­razione dei genitori ad integrare l'opera dei tec­nici, ma che siano i tecnici a dare il loro contri­buto specialistico e terapeutico al compito edu­cativo e formativo della famiglia o di qualsiasi altra istituzione di tipo familiare e perciò non se­gregante.

ANNA CARLUCCI

 

 

AA.VV., Handicappati non solo si nasce ma si di­venta, a cura del Comitato Unitario per gli han­dicappati di Genova.

 

Il Comitato Unitario per gli handicappati di Genova ha pubblicato questa analisi conoscitiva sulla situazione delle persone affette da minora­zioni fisiche o psichiche come risposta ad alcune interviste che fatte dal comitato stesso, hanno messo in luce non solo l'ignoranza sul problema specifico, ma la tendenza insita nella società di oggi a categorizzare per poi emarginare coloro che ne sono ritenuti devianti. Come il prodotto di consumo anche l'uomo viene reclamizzato e stigmatizzato in un certo modo e come non si comprano prodotti non reclamizzati, si tendono a scartare, isolandoli materialmente o moralmen­te coloro che sono fuori della norma. Allora co­me affrontare il problema della loro socializzazio­ne? Molte fotografie illustrano il testo che ri­sponde a questa domanda. Nella prima parte so­no illustrati gli strati sociali e l'ambiente in cui «proliferano gli handicappati»: popolazioni ru­rali supersfruttate e sottoproletariato per i quali non esiste azione di prevenzione; proletariato e sottoproletariato urbano che offrono le maggiori vittime all'infortunio (con un primato spaventoso per l'Italia l'anno 1970 porta la cifra degli infor­tuni sul lavoro a 1.633.559). Nella seconda parte fotografie e testo ci aprono ancora una volta la porta sull'orrore dei nostri manicomi, dei nostri istituti, delle nostre case di rieducazione.

Sono fotografie che non vogliono solo essere una denuncia, destando raccapriccio e stupore, esse impongono il dovere di una scelta. Curare il malato che soffre soprattutto per l'impossibilità di instaurare un rapporto con gli altri e con la realtà, vuol dire non segregarlo. E questa scelta va fatta: curare vuol dire recuperare il malato non più custodirlo o segregarlo per tute­lare la società dalla sua incomoda presenza, sia­mo perciò d'accordo con Basaglia (1) quando dice: «Se non siamo disposti a questa scelta non meravigliamoci di coloro che muoiono per­ché sono curati male o perché non possono vi­vere in una società che spazza via chi non ce la fa. Abbiamo almeno il coraggio di accettare tutto questo come la conseguenza della scelta che ogni giorno continuiamo a rinnovare e di cui tutti siamo responsabili, senza fingere pietà per coloro che noi stessi abbiamo segregato ed uc­ciso».

 

 

(1) Da «Tribuna aperta» (Corriere della Sera, 12 gennaio 1973) I pollai per curare i malati di mente.

 

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