Prospettive assistenziali, n. 21, gennaio-marzo 1973

 

 

ATTUALITÀ

 

APPUNTI SULLA FORMAZIONE E RIQUALIFICAZIONE DEGLI OPERATORI SOCIALI E RISPOSTA ALLA LETTERA APERTA DI AJELLO

FRANCESCO SANTANERA

 

 

Oggi si ravvisa a tutti i livelli la necessità di un aggiornamento culturale e tecnico e di mo­menti di riqualificazione professionale.

Significativa è al riguardo la piattaforma dei metalmeccanici riguardante la richiesta di un monte ore triennale (150 ore) per tutti i lavo­ratori da destinarsi all'aggiornamento e riqualifi­cazione professionale.

Come si legge nel documento FIM, FIOM, UILM di Torino del settembre 1972 «questa ri­vendicazione apre due problemi:

«a) dove e chi gestisce questa formazione pro­fessionale.

«Affidare questo compito alle aziende signifi­cherebbe non solo avere un tipo di formazione diversa da quella per la quale ci battiamo ma an­che accentuare divisioni interne alla classe ope­raia, tra grandi e piccole aziende, tra occupati e disoccupati. Per questo motivo riteniamo che la formazione debba avvenire all'interno delle strut­ture della scuola pubblica.

«Va attuato uno stretto collegamento tra que­sta rivendicazione e i problemi di riforma delle strutture della formazione professionale, anche in rapporto al passaggio alle regioni di questi compiti. Si tratta anche di discutere le forme di controllo e contrattazione sindacale sulla orga­nizzazione, i metodi, i contenuti della forma­zione;

«b) il rapporto tra formazione e problema del cambiamento dell'organizzazione del lavoro e della mobilità professionale dei lavoratori.

«Se non si stabilisce un rapporto stretto ed in qualche modo vincolante tra questi metodi si corre il rischio che questa conquista rimanga un fatto puramente formale al quale i lavoratori non riscontrano alcuna utilità pratica nella misura in cui non serve a modificare la loro collocazione e la loro condizione di lavoro all'interno della fab­brica».

Gli operai vedono dunque chiaramente che, da un lato, il contenuto della formazione deve es­sere strettamente legato al contenuto del lavoro e, d'altro lato, che la formazione deve avere un contenuto diverso da quello attuale che sostan­zialmente è di tipo umanistico, retorico e nozio­nistico.

 

Due livelli di formazione

Nel campo della formazione professionale per l'industria, l'agricoltura, l'artigianato e il com­mercio e in quello per gli operatori sociali si constata oggi la presenza di due livelli netta­mente distinti l'uno dall'altro:

a) la scuola pubblica, gestita dall'ammini­strazione centrale dello Stato (Ministero della pubblica istruzione) con possibilità, sul piano formale, di successivi sbocchi e con riconosci­mento dei titoli. (Non si entra qui nel merito di tutti i problemi della selezione, della dequalifi­cazione, della disoccupazione, delle scuole pri­vate, ecc.) ;

b) i corsi e scuole professionali che vanno dai corsi per apprendisti, ai centri di addestra­mento professionale, ai corsi per infermieri, per assistenti sociali, per educatori, ecc.

Le caratteristiche principali di questo settore sono quelle di accogliere gli alunni espulsi dalla scuola pubblica (vedi apprendisti e C.A.P.), di non fornire sbocchi per la continuazione della formazione e di non dare titoli realmente rico­nosciuti.

Inoltre i C.A.P. e i corsi per apprendisti sono solo dei pretesti per avviare la manodopera gio­vanile alla produzione, in condizioni di subordi­nazione, senza fornire loro alcun strumento sull'organizzazione del lavoro.

Le stesse caratteristiche si riscontrano negli attuali corsi di formazione per operatori sanitari e sociali, i quali non ne ricevono né strumenti adeguati al lavoro tecnico-pratico, né per la co­noscenza delle condizioni e del ruolo dei servizi in cui andranno ad operare.

Nella realtà attuale importanti competenze le­gislative e amministrative riguardanti il settore professionale risultano affidate alla Regione, per cui si tratta, nei tempi brevi, di operare perché la Regione provveda alla ristrutturazione del set­tore e sul piano immediato ad un controllo di tutti i molti enti che attualmente gestiscono cor­si e scuole.

A medio termine occorre esercitare pressioni affinché una legge dello Stato stabilisca gli indi­rizzi generali della formazione professionale riconoscendo ad essa valore effettivamente for­mativo, la possibilità di accesso a successivi li­velli di formazione e quant'altro indicato nei punti successivi.

Per fornire un esempio delle ampie compe­tenze delle Regioni in materia di formazione pro­fessionale riportiamo in questo numero il testo della legge della Regione Lombardia n. 21 del 17-7-1972 «Norme provvisorie sullo svolgimento di funzioni in materia di formazione professio­nale» (1).

Il conseguimento degli obiettivi sopra indicati lascia però insoluto il problema di fondo della permanenza di due scuole diverse, rischiando di cristallizzare questa situazione: da un lato la scuola di Stato con gli aspetti negativi sopra in­dicati e con lo scopo di formare la classe diri­gente; d'altro lato una scuola regionale di forma­zione professionale che, pur avendo, nella mi­gliore delle ipotesi, un carattere di maggiore aderenza alla realtà sociale e ai processi lavo­rativi, sarà sempre una scuola di secondo ordine.

Si tratta quindi di porre come obiettivo a lun­ga scadenza, ma da tener presente negli obiettivi intermedi, il problema se tutta la formazione debba essere accentrata nella scuola di Stato oppure se invece debba essere regionalizzata la­sciando allo stato solamente il compito di sta­bilirne le linee generali ed affidando alle Regioni i compiti di legislazione specifica, e agli enti locali elettivi la gestione.

La seconda ipotesi avrebbe il vantaggio di con­sentire:

- un più diretto controllo politico, poiché esercitato ai vari livelli da assemblee elettive, su tutta la formazione;

- facilitazione per un controllo democrati­co da parte delle forze sociali del territorio;

- un collegamento più stretto fra forma­zione e servizi parascolastici (v. medicina sco­lastica, attività culturali e di tempo libero, co­lonie, ecc.) ;

- possibilità di maggior elasticità dei pro­grammi e di un rapporto più stretto con i valori culturali delle diverse zone;

- maggiori possibilità di sperimentazione. È chiaro che il rischio che si corre nei riguardi di questa impostazione è quello di scadere nel municipalismo e che le attuali differenze tra i due ordini di scuole si riproducano a livello di territorio, ad esempio fra Nord e Sud, fra città e campagna.

È un rischio che si corre anche nei servizi sa­nitari e sociali, ecc., né d'altra parte la gestione centralizzata dei servizi e delle scuole è riuscita ad eliminare le differenze, anzi per certi aspetti le ha accentuate.

Pensiamo che l'arretratezza sociale e politica che incide anche sui servizi e sulla formazione può essere superata soltanto innestando un pro­cesso di formazione di coscienza politica e di lotta attraverso una sempre più larga parteci­pazione a tutti i livelli.

Sulla linea della regionalizzazione della for­mazione si pongono la recente legge sugli asili nido, la bozza di proposta di legge del P.C.I. sul­la scuola materna pubblicata su l'Unità del 28 dicembre 1972 e il dibattito sui distretti scola­stici.

 

Risposta alla lettera aperta di Luciano Ajello, pubblicata su «Prospettive sociali e sanitarie», n. 22 del 15 novembre 1972

1. Il problema dei contenuti della formazio­ne, riqualificazione, aggiornamento e riconver­sione degli operatori sociali e delle sedi che do­vrebbero essere preposte alla programmazione e alla gestione delle scuole relative è troppo im­portante per ridurlo, come tenta di fare Ajello nella lettera aperta pubblicata su Prospettive so­ciali e sanitarie, n. 22 del 15 novembre 1972 (2), un fatto personale, rivolgendomi l'accusa di aver «passato i limiti di un civile e corretto confronto di idee, falsando volutamente la verità» per quanto avevo scritto nell'articolo «Verso la cor­porazione degli assistenti sociali?», pubblicato sul n. 17/72 di Prospettive sociali e sanitarie.

Infatti la formazione degli operatori sociali è strettamente collegata al ruolo dell'assistenza. Sulla riforma dell'assistenza le posizioni sono essenzialmente due:

a) una sua razionalizzazione efficientistica, tale da mettere ordine nell'attuale caotica situa­zione e attuare in definitiva un'esclusione che annulli o attenui le tensioni che oggi si manife­stano fra le centinaia di migliaia di persone as­sistite;

b) una riforma dell'organizzazione del lavo­ro, dei servizi sanitari, scolastici, abitativi, ecc., che elimini le cause dell'emarginazione e che eviti pertanto il ricorso all'assistenza.

Se si concorda sulla seconda posizione o se si vuole cioè una società che soddisfi le esigenze di ogni persona, nessuna esclusa, allora occorre individuare gli obiettivi a breve e medio termine che siano nello stesso tempo in linea con gli scopi di fondo e diano la miglior risposta oggi possibile alle esigenze esistenti.

D'altra parte le semplici e spesso comode enunciazioni di principio non sono sufficienti a dimostrare quale posizione reale viene assunta sul problema dell'assistenza. Occorre passare dalle parole ai fatti, e son soltanto le azioni con­crete che possono fornire la prova della linea po­litica perseguita da gruppi, associazioni, partiti, sindacati, ecc.

2. A questo riguardo si pone il problema del­la rivendicazione di strutture alternative. Questa richiesta, per non restare una mera di­chiarazione, deve essere fatta e portata avanti in primo luogo dal personale in servizio.

Nelle lotte fatte dal personale per la riforma dei servizi è sempre emersa la necessità della sua riqualificazione, aggiornamento o riconver­sione. (Vedasi al riguardo, ad esempio, il qua­derno sindacale dei Comitati regionali piemonte­si CGIL, CISL, UIL «Esperienze di lavoro e di lot­ta sui problemi dell'assistenza», Torino, 1972).

Si veda inoltre quel che è successo nel campo dell'assistenza psichiatrica, dove cambiamenti sono stati introdotti solo dove ha partecipato il personale in servizio e soprattutto quello infer­mieristico.

Il personale in servizio richiede giustamente da un lato che gli sia assicurato lo sbocco lavo­rativo nelle strutture che sono proposte in alter­nativa a quelle attuali, d'altro lato vuole con ra­gione che queste alternative siano costruite con la sua partecipazione reale.

La necessità della riqualificazione, aggiorna­mento e riconversione del personale in servizio è determinata dal fatto che oggi ad esso sono as­segnati ruoli e mansioni che non possono certo essere ammessi nelle strutture alternative. Ad esempio, a quasi tutto il personale degli asili ni­do, degli ospedali psichiatrici, degli istituti per minori, delle case di riposo per anziani, dei ge­rontocomi, dei mendicicomi, dei dormitori, dei cronicari, ecc. sono oggi affidati compiti di sem­plice custodia.

Altro esempio, al personale dei centri medico­pedagogici sono attribuiti compiti prevalente­mente se non esclusivamente diagnostici e di classificazione. È di tutta evidenza che invece al personale di detti servizi vanno attribuite funzio­ni in materia di prevenzione, promozione, tratta­mento e riabilitazione. Solo in tal modo sarà pos­sibile, in concreto, passare ad esempio dagli asi­li nido attuali, concepiti come brefotrofi diurni, a asili nido che svolgano una funzione formativa nei confronti dell'infanzia, delle famiglie e della comunità.

Altrettanto dicasi per le strutture alternative per l'infanzia: ad esempio scuole a tempo pieno, servizi ricreativi, altri servizi sociali per i nuclei familiari, adozioni, affidamenti familiari a scopo educativo, comunità alloggio in sostituzione degli istituti di ricovero.

Così dicasi per le strutture alternative per gli anziani (centri sanitari e sociali di quartiere con prestazioni ospedaliere e ambulatoriali, domici­liari, sociali, comunità alloggio ecc.).

Inoltre la riqualificazione, aggiornamento e ri­conversione del personale in servizio viene ri­chiesta anche perché ad esso siano forniti gli strumenti necessari perché sia in grado di lavo­rare con la partecipazione dei cittadini (in alter­nativa al ruolo tecnocratico), per cui gli aspetti socio-politici devono diventare materia dei corsi.

3. Ritengo pertanto che il problema della ri­qualificazione, aggiornamento e riconversione sia l'obiettivo intermedio più urgente, se non si vuo­le buttare a mare il personale in servizio e di conseguenza impedire anche qualsiasi migliora­mento alle condizioni in cui si trovano centinaia di migliaia di assistiti.

La riqualificazione, aggiornamento e riconver­sione del personale in servizio va collegato alla formazione del nuovo personale anche per evita­re pericolose fratture.

4. Ajello non risponde a quanto avevo scrit­to circa la convinzione mia e di molti altri che og­gi l'università non consente:

- la formazione permanente e continua;

- un collegamento reale fra teoria e prassi; - il coinvolgimento reale del personale in servizio nella formazione del nuovo personale; - l'aggiornamento, la riqualificazione e la riconversione del personale in servizio;

- un costante rapporto fra programmazione dei servizi e programmazione della formazione; - il controllo democratico della formazione da parte di forze sociali.

La richiesta che la formazione, riqualificazione, aggiornamento e riconversione degli operatori sociali sia programmata dalle Regioni e gestita dagli enti locali elettivi (Comuni e Province e lo­ro consorzi) non è un'alternativa tecnica alla for­mazione a livello universitario: essa è una alter­nativa politica collegata con le riforme, che non si ottengono con la stesura dei documenti, di mo­zioni o di dichiarazioni, ma solo con le lotte con­crete del personale in servizio e delle altre forze politiche, sindacali e sociali interessate.

Anche se le Regioni, i Comuni e le Province non danno garanzie sicure in merito a quanto so­pra, mi sembra evidente che su questi organi, an­che perché eletti direttamente dai cittadini, è possibile influire con una pressione dal basso, mentre ciò è molto più difficile nei confronti dei consigli accademici, come insegna l'esperienza del movimento studentesco.

Se ciò non fosse vero, allora è stato ed è un obiettivo sbagliato anche la richiesta del trasfe­rimento alle Regioni delle funzioni di cui all'art. 117 della Costituzione.

5. Nel mio articolo avevo avanzato una pro­posta sulla formazione dei vari operatori sociali e Ajello nella sua lettera aperta si riferisce sem­pre e solo agli assistenti sociali.

Non è già questa una visione corporativa?

Perché Ajello non affronta anche i problemi re­lativi alla formazione di infermieri, di tecnici di laboratorio, di assistenti familiari, di educatori, di terapisti della riabilitazione, del personale per gli asili nido e le scuole materne e degli altri ad­detti ai servizi?

6. Circa il tirocinio, come mi ha consigliato Ajello, ho letto attentamente il n. 3/1972 della «Rassegna di servizio sociale» e il risultato è che oggi sono ancora più convinto di ieri della scarsa validità del tirocinio stesso. Ritengo anzi che i tentativi proposti per renderlo più formati­vo siano destinati al fallimento.

Non è infatti sufficiente l'affermazione, anche se giusta (3), che «il tirocinio deve rappresen­tare una reale occasione di scontrarsi e di opera­re nella realtà degli enti così come sono oggi» e che «lo studente quindi dovrebbe essere inserito come ogni altro professionista entro l'ente e non tenuto isolato facendogli svolgere attività marginali e non incisive».

Occorre invece ricercare il modo perché que­sto inserimento avvenga realmente e ripropongo l'abolizione dei tirocini e un effettivo anche se graduale inserimento lavorativo.

Circa i tirocini condivido la critica fatta dagli allievi della SFES (Scuola per la formazione degli educatori specializzati) di Torino di cui riporto la parte relativa di un loro documento del di­cembre 72, precisando che fra le scuole che conosco la SFES è fra le più serie e le più avan­zate.

 

 

TESTO DEL DOCUMENTO APPROVATO NEL DICEMBRE 1972 DAGLI ALLIEVI DELLA SFES DI TORINO

 

1) Esame dei tirocini

Da una analisi approfondita dei tirocini dell'altro anno e di quest'anno abbiamo messo in evidenza quanto segue: il tirocinante dal momento che non stabilisce un con­tratto di lavoro con l'ente, si pone nella situazione istituzio­nale come la persona aggiunta, non richiesta, mal soppor­tata o sfruttata come due braccia in più.

Tale status proprio del tirocinante determina le seguenti conseguenze che vengono in contraddizione con tutti i prin­cipi che la scuola afferma.

 

2) Acriticità del tirocinante

Il tirocinante per la situazione propria del suo stato, non può arrivare alla critica del lavoro svolto dalle persone che operano con lui né dell'istituzione, né tanto meno di se stesso: ogni sua critica sarà distorta e negativa.

Il tirocinante in quanto non inserito nel ciclo produttivo non ha responsabilità, vede ogni cosa dall'esterno, può per­mettersi tutto e niente.

Può permettersi di dire quello che vuole perché il mas­simo della minaccia a cui può soggiacere è l'essere cam­biato dal tirocinio.

Può dire niente perché di fatto non arriva a sapere nulla della realtà del lavoro. Ma le persone intorno a lui inserite nel ciclo produttivo, non vivono la sua situazione alienante e non possono neanche lo volessero, coinvol­gerlo nei loro problemi perché questi, nella posizione di studente in visita nell'istituzione, non potrebbe capirli.

A scuola si dice che il tirocinante, proprio perché non è inserito nel ruolo, salva la sua libertà di poter scoprire l'istituzione, ma noi riteniamo invece che questi, nei tre mesi di tirocinio, arriva solo a vedere le sue fantasie sulle istituzioni.

Il tirocinante rimane così un isolato nel suo tirocinio, non arriva a sperimentare le sue capacità di rapporto con i soggetti con cui dovrebbe lavorare perché non ha respon­sabilità verso di loro; non arriva a sperimentare la sua capacità di porsi in modo critico in una istituzione perché di fatto non vede la sua realtà; né arriva a stabilire rap­porti con i compagni di lavoro perché non ha con questi effettivi rapporti di lavoro. Riteniamo pertanto che un'ana­lisi corretta dell'istituzione, del proprio rapporto con i col­leghi, di sperimentazione di se stesso, si possa fare solo in situazione lavorativa.

 

3) Mentalità distorta

Il tirocinante in questa situazione così scomoda, tenta comunque disperatamente di criticare l'istituzione, le per­sone intorno a lui e se stesso; è senz'altro ipercritico, co­me afferma la scuola, in quanto applica ovunque la sua cri­tica scorretta; si pone, così, nella posizione del tecnico che critica per il gusto di criticare perché tanto lui non è coin­volto nelle cose che dice e non deve rispondere di persona .delle sue critiche. La scuola considera come scontro con la realtà il tirocinio e considera basilare il recupero dei pro­blemi che esso solleva a livello teorico. Come conseguenza ne deriva che la parte teorica della scuola è soprattutto il monitorato, che vive su critiche e analisi non delle realtà assistenziali esistenti ma sull'alienante situazione del tirocinante. Anzi la politica della scuola cerca il più possibile di tenere lontana la realtà del lavoro per paura che questa possa intaccare la felice vena critica del tirocinante. Si pensa in questo modo di formare l'educatore critico e pronto allo scontro con la realtà, invece si forma una per­sona che si è sempre più allontanata dalla realtà, pronta ad essere usata come la Provincia vuole in istituzioni quale le Ville del Mainero. (Nota: si tratta di due ville aperte nel settembre 1972 dalla Provincia di Torino nelle quali sono ricoverati 42 insufficienti mentali. Costo delle ville 900 mi­lioni, costo giornaliero L. 30.000 per ricoverato).

 

4) Situazione inutilmente angosciante

Tale stato di cose crea nel tirocinante l'angoscia di non riuscire, di non essere capace a porsi come educatore, ma tale angoscia non è costruttiva e maturante, non è frutto di realtà, in quanto la causa prima di essa non sta nei con­flitti di persona di chi fa il tirocinio quanto piuttosto nella struttura del tirocinio stesso.

La scuola pone come condizione per diventare educa­tore l'essere una persona risolta, con un robusto equilibrio psicofisico. Ciò contribuisce a creare l'immagine dell'edu­catore come super-man, persona non uguale agli altri, lo stregone dei giorni nostri. Contando l'alta percentuale de­gli allievi che si ritirano perché non riescono a superare il tirocinio, noi poniamo come causa fondamentale non i pro­blemi personali, come la scuola vorrebbe farci credere, quanto la struttura stessa del tirocinio.

 

5) Sfruttamento dei tirocinante

Il tirocinante rappresenta in diverse istituzioni un paio di braccia in più non pagate; ciò permette ad alcuni istituti di vivere sul tirocinante senza dover assumere personale (vedi nei tirocini dell'anno scorso il Martini nuovo, Casa nostra, scuole ecc.).

Il nostro offrirci come tirocinante permette il conser­varsi dell'istituzione com'è oggi strutturata in contraddizio­ne alle dichiarazioni della scuola che dice di lavorare per la formazione di forme sempre alternative d'assistenza. Inoltre il lavoro del tirocinante favorisce la disoccupazione esistente, permettendo alle istituzioni di usufruire di forza lavoro non pagata; in questo modo il tirocinio va contro gli interessi e le lotte che il personale già in servizio porta avanti (es. clinica pediatrica) oltre che ai tirocinanti stessi in qualità di futuri lavoratori. Tutto questo ci impedisce una maturazione politica a fianco dei lavoratori del settore.

 

6) Scuola di classe

Chi si può permettere la situazione di tirocinante e di allievo SFES è la persona appartenente a classe sociale abbiente, per cui ne deriva una scuola di un'unica classe; si forma di conseguenza l'educatore di classe e coscienza borghese, perché non circolano all'interno della scuola in­contri-scontri con l'altra classe. Nella situazione di lavoro noi ci troviamo invece ad operare con persone di classe operaia e soprattutto con il sottoproletariato ma la nostra formazione ci impedisce di capirne i problemi e di favo­rirne la reale soluzione. Siamo invece preoccupati di man­tenerci nella classe borghese e cerchiamo di riadattare e reintegrare in questa società proprio quelle persone che questa società continuerà ad emarginare.

La scuola pone come essenziale lo scontro con l'istitu­zione chiusa e oppressiva, ma premesso che il tirocinio non è scontro con la realtà, stare in una situazione aperta permetterebbe per lo meno di vivere tre mesi in una situa­zione non angosciante, a contatto con valori e contenuti che potrebbero poi circolare e innovare la scuola. Nella si­tuazione attuale c'è invece l'angoscia che crea l'istituzione completamente oppressiva per cui i momenti a scuola sono vissuti come liberanti e ricchi di contenuto rivoluzionario; ciò comporta una assoluta acriticità dei valori che la scuo­la comunica. Si forma così l'educatore riformista che si accontenterà di ogni situazione anche solo superficialmente più aperta rispetto a ciò che lui ha vissuto: questo è certo confacente alla figura di educatore che la Provincia attende.

 

7. Ajello non risponde all'interrogativo che avevo posto nel mio articolo e che ripetevo: «quanti sono gli assistenti sociali che partecipa­no alle lotte concrete (e non solo cartacee) per una seria riforma dei servizi?». Non è sufficiente che Ajello scriva che «moltissimi colleghi sono in grado sulla base di dati di fatto di dimostrare il contrario: che cioè sono inseriti in prima linea nel contributo alla trasformazione del sistema di servizi sia a livello di utenti, sia dentro le struttu­re sindacali».

Le mie informazioni sono gravemente carenti al riguardo, poiché non conosco assistenti socia­li iscritti all'ASNAS che agiscano come dice Ajello, e aspetto di essere smentito dai soci e soprattutto dai dirigenti nazionali e periferici dell'Associazione.

E spero che Ajello e i suoi colleghi non vor­ranno riferire azioni individuali poiché esse sul piano politico contano nulla o poco, quando non sono controproducenti, come spesso avviene, es­sendo facilmente controllate e respinte, e provo­cando anzi pericolosi riflussi.

8. Ajello non risponde nemmeno agli altri in­terrogativi, che avevo posto nell'articolo «Verso la corporazione degli assistenti sociali?», con i quali facevo notare come la presenza di laureati (medici, magistrati, avvocati) non ha influito po­sitivamente sui settori della sanità e della giusti­zia, tanto che essi oggi non sono in una situazio­ne sostanzialmente diversa da quella in cui si trova oggi l'assistenza.

9. Non è assolutamente vero che ho isolato alcune affermazioni dal documento del XII Con­gresso dell'Associazione nazionale assistenti so­ciali sulla riforma universitaria e sul riconosci­mento giuridico del titolo.

Ho riportato infatti in nota all'articolo il testo integrale del documento.

10. Nulla dice Ajello circa il fatto che, come avevo scritto nell'articolo «incriminato», nella riunione del 2-7-72. la segreteria nazionale dell'ASNAS abbia chiarito che il documento sulla ri­forma universitaria e sul riconoscimento giuridi­co del titolo «costituisce un verbale di un gruppo di lavoro approvato dal congresso e rimesso co­me raccomandazione alla nuova segreteria». Da ciò che scrive, mi sembra di poter dedurre che invece Ajello lo consideri non un verbale e cioè una proposta, ma un documento che esprime la posizione ufficiale dell'ASNAS.

Al riguardo è significativo che il verbale sia utilizzato in tal senso da membri dell'ASNAS, co­me ha fatto il gruppo di Torino nell'indirizzarlo al­la Regione Piemonte.

11. Ajello scrive che la mia affermazione sulla natura corporativa del verbale «o è in mala fede o è frutto di materiale non conoscenza delle posizioni sostenute dall'ASNAS».

Avevo scritto al riguardo che la natura corpo­rativa della richiesta di riconoscimento giuridico del titolo di assistente sociale, tramite l'istituzio­ne di un apposito corso di laurea, emergeva in particolare dalla delega alla nuova segreteria «di apprestare le strategie e di studiare gli interven­ti che riterrà più utili nella prospettiva di salva­guardare il maggior numero dei colleghi indipen­dentemente quindi dai corsi scolastici e dagli an­ni di servizio prestati». Avevo commentato que­sto passo scrivendo «In parole povere il ricono­scimento del titolo di assistente sociale (e ma­gari anche quello di “dottore”) dovrà essere esteso anche a coloro che “hanno frequentato” i corsi per corrispondenza (e non sono pochi!)».

È vero quel che scrive Ajello e cioè che non ho citato al riguardo il documento dell'ASNAS (che non conoscevo) «proposta di un corso di laurea in servizio sociale» in cui si richiede per il con­seguimento della laurea che gli assistenti sociali in servizio frequentino un 4° anno universitario. Ma anche questa richiesta, che non risulta richia­mata nel documento che avevo criticato, non spo­sta minimamente i termini del problema, in par­ticolare perché l'accesso al 4° anno è richiesto anche per gli assistenti sociali diplomatisi per corrispondenza, perché la sede universitaria non consente, quanto indicato al punto 4 e soprattut­to perché sono «dimenticate» le esigenze dell'altro personale in servizio (V. il punto 5).

12. Un'ultima osservazione per concludere. È noto che dal 1945 ad oggi l'università non è mai stata all'avanguardia e neanche all'altezza nell'individuare le nuove professioni necessarie: ba­sti pensare a quelle di assistente sociale, di edu­catore e di terapista della riabilitazione.

Questa semplice osservazione dovrebbe far meditare sul tipo di cultura che domina nell'uni­versità, tipo di cultura che non mi sembra sia in linea con le esigenze delle persone, soprattutto di quelle oggi emarginate dal ciclo produttivo.

 

 

(1) Molto simile alla legge lombarda è quella della Regione Toscana n. 3 del 3 maggio 1972, riguardante le norme per l'esercizio delle funzioni in materia di istruzione artigiana e professionale.

(2) Ajello riprende gli stessi temi sulla lettera aperta, risparmiando bontà sua gli insulti, nella nota «Sulla for­mazione degli assistenti sociali: opinioni costruttive e polemiche inutili», in Rassegna di servizio sociale, n. 4, 1972, pp. 88 e segg.

(3) Documenti del seminario su «Orientamento alla supervisione di allievi nelle scuole di servizio sociale», analisi di temi affrontati nelle riunioni di gruppo a cura di Maria Ponticelli Dal Pra, in Rassegna di servizio sociale, n. 3, 1972, pag. 94.

 

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