Prospettive assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972

 

 

DOCUMENTI

 

TRE INTERROGATIVI SUL LAVORO SOCIALE: RECLUSIONE E CAPITALISMO, LAVORO SOCIALE E CONTROLLO POLIZIESCO, CLASSI LAVORATRICI E CLASSI PERICOLOSE (1)

 

 

Nel vivace e contrastato dibattito sul lavoro sociale e in particolare su; rapporti fra polizia e assistenza sociale, noi italiani abbiamo una prova in più dei francesi: un unico ministero, quello dell'interno, assomma pratica­mente le due funzioni di polizia e di assistenza sociale (mantenimento dell'ordine con modalità più repressive e conservazione dell'emarginazione con metodi assistenziali) e con pervicacia non vuole abbandonare questa duplice funzione come è dimostrato dall'azione condotta per l'emanazione dei restrittivi decreti delegati, dalla proposta di legge Falcucci (V legisla­tura Senato, n. 1233) in cui si chiede la trasformazione del Ministero dell'interno in Ministero dell'interno e dell'assistenza sociale.

Si ricorda al riguardo l'affermazione fatta dal Ministero dell'interno nella relazione del bilancio di previsione dello Stato del 1969: «L'assistenza pubblica ai bisognosi (...) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tes­suto sociale da elementi passivi e parassitari (...)».

 

 

Reclusione e capitalismo

 

JEAN MARIE DOMENACH: Ecco il nostro pri­mo quesito:

I comportamenti asociali o antisociali fino a un'epoca recente erano pensati e trattati in ter­mini giuridici (carcerati, relegati, alienati, in­terdetti, ecc.). Sempre di più sono pensati e trat­tati in termini clinici (caratteriali, psicopatici, malati mentali, ecc.). Che cosa vi sembra celare tale evoluzione?

JACOUES DONZELOT: La formulazione di tale domanda mi imbarazza. Preferirei l'inverso. Non è mettere il carro davanti ai buoi parlare di com­portamenti asociali o antisociali, quando i com­portamenti sono prima di tutto determinati da una certa divisione istituzionale? Le persone col­locate nelle istituzioni ci stanno grazie a un rap­porto di potere, che il giuridico e il clinico si li­mitano a ratificare, camminando d'altronde di conserva.

PHILIPPE MEYER: Già, ma è la stessa cosa che l'accento principale sia posto, come in passato, sul giuridico, o come è oggi sul clinico?

MICHEL FOUCAULT: Vorrei introdurre una pic­cola precisazione storica. Non so se sia tale da cambiare la posizione del problema. Come Don­zelot, penso che effettivamente le categorie giu­ridiche dell'esclusione hanno regolarmente i loro correlativi medici o clinici. Quello che indubbia­mente svia, è che i termini giuridici, per un certo numero di ragioni sono press'a poco stabili e costanti, mentre al contrario le categorie clini­che sono relativamente instabili e si sono rin­novate in fretta.

Certo il concetto di caratteriale è recente, ma ciò non significa che il binomio giuridico-clinico o la ripresa di una categoria giuridica in catego­ria clinica sia un fenomeno recente, perché pri­ma dei caratteriali c'erano i degenerati, e prima dei degenerati c'erano i monomaniaci e questi concetti sono tanto giuridici quanto medici. In compenso, fu una grande cernita poliziesca, che, credo, cominciò in occidente a partire dal XV se­colo, e cioè la caccia ai vagabondi, la caccia ai mendicanti, la caccia agli oziosi; questa pratica della selezione, dell'esclusione, dell'internamen­to poliziesco rimase però fuori dal campo delle pratiche giudiziarie giuridiche.

Il Parlamento di Parigi per un certo numero di anni ebbe l'incarico di vigilare sui vagabondi e sui mendicanti a Parigi, ma ben presto ne venne esonerato, e praticamente tale vigilanza era as­sicurata da istituzioni e da apparati del tutto di­versi dall'apparato giuridico normale. Inoltre, all'inizio del XIX secolo tutte le procedure di poli­zia di selezione sociale furono reintegrate all'in­terno della procedura giudiziaria perché, nello Stato napoleonico, polizia, giustizia e istituzioni penitenziarie furono articolate le une sulle altre e, nel momento stesso in cui tali procedure s'in­tegravano nella procedura giudiziaria, e quindi poliziesca, in quello stesso momento apparvero, per giustificarle, per confermarle, per darne un'altra lettura (non per dare loro un'altra leggi­bilità) categorie psicologiche, psichiatriche, so­ciologiche nuove.

PHILIPPE MEYER: Ma allora due osservazioni: la differenza - a quanto pare - tra il caratte­riale di oggi e il degenerato di ieri sta nel fatto che non si chiedeva tutta una pleiade di tecnici delle relazioni umane, della rieducazione, del riadattamento, ecc. D'altra parte, voi dite che vi fu dapprima l'apparato penale e che in seguito ad esso si aggiunse l'apparato psichiatrico; oggi non sono questi in un rapporto inverso?

MICHEL FOUCAULT: Sono d'accordo. È vero che il gioco tra il penale e lo psichiatrico, il giu­ridico e lo psicologico si è certamente modificato molto da 150 anni in qua, però credo ugualmente che entrambi sono nati da pratiche sociali, che erano quelle della selezione, dell'esclusione, che a loro volta traggono origine entrambe da prati­che poliziesche integrate all'universo giuridico in modo relativamente tardivo. Quando voi dite: adesso ci sono tecnici incaricati di trattare i ca­ratteriali mentre i degenerati non erano trattabili, avete perfettamente ragione. Ma negli anni 1820­-1830, nel momento in cui sorsero simultaneamen­te le grandi prigioni e i grandi ospedali psichia­trici, quando le giurie avevano a che fare con crimini quali un parricidio o un infanticidio, i giu­rati erano imbarazzatissimi: avevano la scelta tra il carcere e l'ospedale, due soluzioni in fondo press'a poco equivalenti. Il problema era: in ogni caso bisogna rinchiudere il soggetto; quale sarà l'internamento più sicuro: la prigione o l'ospe­dale? Il rapporto medico-polizia è antico.

PHILIPPE MEYER: In un lavoro che ho fatto sull'immagine della follia nella popolazione «non folle», mi ha colpito il constatare che un gran numero di gente si considerava malata mentale in potenza. Certo questo è un effetto della divul­gazione della psicanalisi. Ma bisogna anche no­tare che questa nuova immagine della follia, quando si articola con una volontà di «cliniciz­zare» il sociale, crea un nuovo modo di trasmis­sione della legge.

JACOUES DONZELOT: Credo che tu voglia dire che agli inizi del XIX secolo, per esempio, c'era una concezione alquanto «reificante» delle cate­gorie: relegati, segregati, ecc., e che la scienza non faceva nient'altro che ratificare una segrega­zione; mentre oggi si ha l'impressione che que­sta scienza dà una visione un po' più trasparente, un po' più fluida della malattia o di queste cate­gorie, e porta dietro di sé un nuovo tipo di sor­veglianza. La scienza diventa in certo qual modo strumento e non semplicemente alibi. È quello che dicevi tu parlando di nuove rappresentazioni: tutti quanti si percepiscono come malati poten­ziali... Quindi si è potuto mettere in piedi simul­taneamente un sistema di prevenzione che in­duce tali rappresentazioni.

PAUL VIRILIO: Mi è parso di capire qualcosa che m'interessa molto in quel che diceva prima Foucault, e cioè che la sociatrie avrebbe prece­duto la psichiatria. Questo m'interessa perché dove sono oggi i manicomi? Sono chiusi, sono aperti? Se guardiamo quel che è accaduto di re­cente in Gran Bretagna con la decisione della Camera dei Comuni di far scomparire entro ven­t'anni tutti i manicomi, questo è importantissimo. Ci accorgiamo di ritrovarci nella situazione da lei descritta nella «Storia della follia», nel medio­evo, prima dell'internamento; però non del tutto nelle stesse condizioni; ossia i pazzi, i devianti, sono «liberati» nell'insieme del territorio, ma in un territorio che ora è completamente sotto con­trollo, all'opposto che nel medioevo. Che ne pen­sate di questa nozione di una sociatrie, nel più largo senso della parola, precedente la psichia­tria?

MICHEL FOUCAULT: La decisione della Came­ra dei Comuni è infatti notevole, anzi sbalordi­tiva, e mi chiedo se gli inglesi vedono chiaramen­te fin dove questo può arrivare, a meno che sap­piano benissimo fin dove non può arrivare. Per­ché le società capitalistiche, e finora anche quel­le che si dicono non capitalistiche, sono comun­que società segreganti. Se si classificassero le società secondo il modo con cui si sbarazzano non dei loro morti, ma dei loro vivi, si avrebbe una classificazione in società massacranti o di assassinio rituale, società di esilio, società di riparazione, società di internamento. Questi so­no secondo me i quattro grandi tipi. Che la so­cietà capitalistica sia una società segregante, credo sia una constatazione, però è ben difficile da spiegare.

Perché infatti deve essere una società segre­gante, questa società in cui si vende la forza la­voro? L'ozio, il vagabondaggio, le migrazioni di quelli che vanno a cercare altrove salari migliori, tutto questo richiede un inquadramento control­lato di questa massa, la possibilità di rimetterla sul mercato dell'impiego; tutto ciò è iscritto nel­la pratica stessa dell'internamento di modo che, quando una società, anche capitalistica come quella inglese, dichiara che non c'è più reclu­sione, almeno per i pazzi, io mi domando: forse che questo significa che l'altra grande metà dell'internamento, la prigione, sparirà, o invece que­sta occuperà lo spazio lasciato vuoto dal mani­comio? Forse che l'Inghilterra non fa l'inverso di ciò che sta facendo l'Unione Sovietica? L'U.R.S.S. generalizza l'ospedale psichiatrico, attribuendo­gli la funzione delle prigioni. L'Inghilterra non sarà spinta a estendere la funzione delle prigioni, anche se queste sono straordinariamente mi­gliorate?

PHILIPPE MEYER: Nel suo articolo di Topique, Donzelot parlava di una svalutazione generale dell'internamento nelle società industriali avan­zate. Anche lui come Virilio, pensa che questa svalutazione dell'internamento si accompagni al­la sistemazione di una rete di «controllori so­ciali»?

JACQUES DONZELOT: Non mi sembra che si tratti di una soppressione dell'internamento, cre­do soltanto che sia svalutato e che si assista a una diffusione all'esterno dei processi di reclu­sione che conserva i luoghi di internamento come fortezze d'appoggio.

Diminuzione del carcere, ma sulla base di un controllo e di un sistema di sorveglianza e di mantenimento delle persone in un dato luogo, che avrà la medesima funzione.

MICHEL FOUCAULT: Proprio per questo la vo­stra domanda mi aveva molto interessato, pur lasciandomi reticente. Se si riduce il problema a questi due termini: il giuridico e lo psicologico, si arriva a dire questo: o il discorso psicologico scopre la verità di quello che la pratica giudizia­ria faceva alla cieca - è una concezione positi­vista che trovate spesso negli storici della medi­cina o negli psicologi quando vi dicono: ma che cos'erano gli stregoni? erano dei nevrotici - oppure, se si fa un'analisi di tipo puramente rela­tivistico, si ammette che il giuridico e lo psico­logico sono due letture di un unico e medesimo fenomeno, lettura che, nel secolo XIX, fu soprat­tutto giuridica, e che è psicologica nel secolo XX, senza che lo psicologico sia meglio fondato del giuridico. Da parte mia, introdurrei un terzo ter­mine, che chiamerò grossolanamente poliziesco: una pratica selettiva, segregante, internante, alla base della quale voi vedete costruirsi pratiche e discorsi giuridici, psicologici, ecc.

JEAN-RENÉ TREANTON: Il caso ha voluto che partecipassi pochi giorni fa ad una seduta di la­voro, dove alcuni storici studiavano un censimen­to del XVII secolo a Lille. Era chiarissimo come procedevano gli agenti del censimento: andavano di casa in casa e la domanda principale posta agli abitanti era: «Siete nato nella città?». Lo storico che faceva fa relazione ci spiegava che la doman­da era motivata dal fatto che colui il quale non fosse nativo della città, poteva essere espulso, escluso con il primo pretesto. Il censimento por­ta la data del 1670: possiamo affermare che la società fosse veramente capitalistica? L'esclu­sione poliziesca a livello di censimento era qual­cosa di molto più grave che non ai giorni nostri. Direi che le nostre società sono società che pra­ticano relativamente poco l'esclusione, che ac­cettano liberamente anche l'immigrazione per ci­tare i lavoratori stranieri, e che non penserebbe­ro assolutamente di espellere da una località chi non vi è nato. La scomparsa di un diritto territo­riale nelle nostre società mi sembra il contrario dell'esclusione. Può darsi che si debba mettere questo fatto in relazione con i procedimenti di internamento, ma qui vorrei citare un altro fatto storico: nell'800 c'erano ogni anno in Inghilterra 3000 esecuzioni capitali. E allora sembra che tutti questi procedimenti polizieschi costituiscano un insieme, e a questo riguardo io non sono del tut­to certo che la nostra società sia più poliziesca delle società passate. Non penso che oggi la re­clusione sia considerata nelle nostre società co­me qualcosa di normale.

Abbiamo acquisito - e ciò è completamente nuovo rispetto al secolo XIX - un senso di colpa verso le procedure di reclusione: basta rileggere Jules Vallés e ricordarsi il modo con cui suo pa­dre l'aveva fatto rinchiudere in un manicomio per sbarazzarsene, con la complicità della magistra­tura di allora. Oggi, da noi, cose simili sarebbero accettate dall'opinione pubblica come lo erano sotto Napoleone III? In altri termini, non credo che noi dobbiamo sentirci così colpevoli in que­sto campo: non mi sento così in colpa come voi.

JACQUES JULLIARD: In realtà mi sembra che l'internamento non sia un tratto caratteristico della società capitalistica. Il capitalismo, nel mo­mento in cui prende corpo e informa veramente la società francese, ossia a partire dal XIX seco­lo, implica al contrario la fine di tutta una serie di segregazioni, geografiche (il villaggio) o so­ciologiche, per dare origine al «lavoratore nudo» di cui parla Marx. Implica dunque una mobilità della mano d'opera e anche una mobilità sociale, mentre invece le società pre-capitalistiche postu­lano funzioni sociali molto più definite, un siste­ma di caste o di ordini. Se dunque constato que­st'internamento, non riesco a spiegarlo con ra­gioni puramente economiche. Tuttavia noterò che nella misura in cui il capitalismo organizza la mo­bilità, materiale e sociale insieme, pone fine a quelle forti strutture interne, quali il villaggio, che sapevano contenere i loro emarginati (pove­ri, alienati, ecc.). Ciò implica senza dubbio delle tecniche di esclusione o di segregazione che non hanno più nulla a che vedere con quelle del me­dioevo, le quali sono interne alle istituzioni stesse.

JACQUES DONZELOT: Prima si operava con i mezzi consueti, c'era l'esclusione. Ma oggi c'è un ottimo sistema, la selezione per mezzo della scuola; la scuola, lo sappiamo benissimo, per­mette che le persone rimangano al posto loro as­segnato secondo le esigenze del sistema, e ciò in funzione della loro origine sociale. C'è un libro su L'école capitaliste en France che lo spiega benissimo; parla di due circuiti scolastici: il cir­cuito secondario superiore, e il circuito primario professionale; ce ne sarebbe forse un terzo, quel­lo giuridico-clinico, una specie di nuovo parto, una specie di nuovo strato educativo, che si sta formando e che assorbe in parte i vecchi pro­dotti di esclusione. Ci sarebbe quindi una specie di dialettica, per quanto questa parola non mi piaccia gran che, tra la selezione e l'esclusione: quando si può, quando ci sono i mezzi, si fa la selezione con i mezzi scolastici; quando questo non basta, si ricorre all'esclusione. Per me tutto il problema è qui, semplicissimo.

JACQUES JULLIARD: Insomma l'internamento nel senso in cui l'intendiamo, sostituisce le so­cietà chiuse precedenti; nella misura in cui que­ste si aprono, perdono le regolazioni interne del­le società pre-capitalistiche; proprio a questo punto si hanno tipi di internamento quali il ma­nicomio e la prigione.

MICHEL FOUCAULT: È stata una tecnica im­portante nella crescita del capitalismo, certa­mente molto maggiore che nel funzionamento del capitalismo non ancora sviluppato.

JACQUES JULLIARD: Sì, con il capitalismo na­sce il binomio classi pericolose - classi lavora­trici.

JEAN-RENÉ TREANTON: Vorrei ritornare sulla nostra domanda fondamentale, lasciando com­pletamente da parte la storia. Non sono così d'ac­cordo con la vostra formulazione del passaggio dal giuridico al clinico, perché il giuridico, il cli­nico riguarda soprattutto l'individuale. Ciò che colpisce ai nostri giorni, è che i problemi degli asociali e degli antisociali sono sempre più con­cepiti in termini di sistema sociale. Noi concepia­mo sempre di più la malattia mentale, i problemi della mendicità, dell'esclusione ecc., come soli­dali del sistema. In sociologia, i lavori di Merton sui devianti hanno messo l'accento, verso il 1935, sul fatto che la devianza, invece di essere sol­tanto un accidente o una deviazione patologica della società, è un prodotto del sistema sociale, e qui io credo che ci sia una vera rottura. Dopo Merton, certi libri come quello di Goffman: Asi­les (Manicomi), dimostrano chiaramente come esista una specie di autoproduzione dell'asocia­lità o dell'antisocialità. Ci si trova di fronte a una riflessione che è veramente una presa di coscien­za sociologica, non a livello dell'individuale, cli­nico o giuridico, ma dell'intero sistema sociale.

PHILIPPE MEYER: Proprio per questo non sono d'accordo con Donzelot quando dice che è abba­stanza indifferente mettere l'accento sul penale o sullo psichiatrico. Finché la legge trova la sua espressione in una forma giuridica, nel signifi­cato più ampio del termine, la trasgressione è possibile, individuabile, forse anche definita, in certo qual modo, se si entra nel ragionamento di Mauss sul tabù. Diverso è quando la legge si esprime e si trasmette su un modello che con­cerne soprattutto il «non detto». Faccio un esempio: il tabù dell'incesto. Effettivamente è iscritto nel codice penale. Credo che lo sia stato abbastanza tardi e, comunque, nessuno ci ha mai insegnato che era proibito andare a letto con la propria madre o padre o fratello o sorella; inve­ce, la proibizione di dare loro pugni in testa o di comportarsi male con loro è una cosa di cui ci hanno riempito le orecchie. La maggior difficoltà di trasgressione all'interno di un gruppo sociale concerne la norma implicita. Il fatto che si sia passati da un controllo sociale che assumeva aspetti giuridici e penali a un controllo sociale che assume aspetti clinici e «terapeutici» ci porta a una diffusione della norma e ad un con­trollo della norma che sfuggono alla rappresen­tazione, alla percezione sia degli individui sia della collettività. Ritengo che proprio in questo si sia socializzato il trattamento della devianza e questo mi sembra una socializzazione negativa, una socializzazione sempre nella stessa dire­zione del controllo, ma questa volta molto più grave.

 

 

Lavoro sociale e controllo poliziesco

 

JEAN-MARIE DOMENACH: Questo d'altronde è il significato del nostro secondo quesito:

Il lavoro sociale accresce di continuo il suo campo d'azione. Partito dall'appoggio volontario a un'azione di sradicamento della tubercolosi e delle malattie veneree, è passato mediante l'as­sistenza sociale professionale in ambiente sotto­proletario o paraproletario. Oggi si trova larga­mente impiantato nelle aziende e nelle ammini­strazioni. La sua più recente evoluzione lo porta ad assumersi l'incarico dell'animazione collettiva della popolazione «normale», specie nelle città.

Ritenete che tale crescita e tale evoluzione del lavoro sociale abbiano un rapporto con la natura e con l'evoluzione del nostro sistema econo­mico?

C'è realmente continuità tra il lavoro sociale derivato dal trattamento poliziesco, psichiatrico o rieducativo dei devianti, e l'azione sociale tra la massa della popolazione? Questo ha costituito per noi un problema per definire la base di que­sto nostro numero (2). Che cosa chiamiamo oggi lavoro sociale?

JACQUES JULLIARD: Incomincerò da un luogo comune, ma forse bisogna ricordarlo; è indubbio che le nostre società si muovono nel senso di un isolamento funzionale crescente dei gruppi. Nu­merose società, fino a epoca recente, vivevano sulla base di gruppi differenti. Oggi invece, mi pare che anche all'infuori degli emarginati, l'iso­lamento dei vecchi da un lato, dei giovani che non sono ancora in grado di lavorare dall'altro, sfo­cia nella creazione di gruppi sociali quali l'infan­zia, il mondo adulto e la vecchiaia, corrispondenti a funzioni diversissime nell'apparato produttivo. Nella misura in cui si ha a che fare con raggrup­pamenti sociali determinati dai rapporti produtti­vi più che da ogni altra cosa, allora effettivamen­te occorrono interventi sociali per ognuno di es­si, perché nessuno ha un equilibrio se non fun­zionale ed esterno.

PAUL VIRILIO: Nel V arrondissement e in peri­feria esistono già degli agenti di quartiere che partecipano all'azione «sociale» ispezionando regolarmente le cantine e i pianerottoli degli ap­partamenti.

PHILIPPE MEYER: Nelle città nuove come Cer­gy-Pontoise e Evry, le città sono divise a zone alla maniera anglosassone e ad ogni blocco ver­ranno assegnati un educatore, un assistente so­ciale e, non l'ho inventato io, un poliziotto che dovrà essere conosciuto nel quartiere, e potrà sia sbrigare le commissioni delle vecchie signo­re ammalate sia impedire a un delinquente di nuocere. Allora che faranno, nei quartieri, questi educatori e questi assistenti sociali? Nel discor­so corrente, come diceva Julliard, siccome tutti vedono la disgregazione del tessuto sociale, si pensa - e in questo modo d'altronde si difendo­no sia gli interessati sia quelli che sfornano que­sti progetti - che questi educatori e assistenti sociali saranno messi lì per incitare alla produ­zione della socialità. In realtà, che cosa fanno? Vi farò un esempio preciso: un insieme di edu­catori in un gruppo di case ha ideato il progetto seguente: andare in tutte le famiglie sottoprole­tarie del quartiere - il loro quartiere è forte­mente «delinquentogeno» - per spiegare alle madri come allevare i loro bambini in modo che questi non si ritrovino in istrada quando saranno adolescenti.

Eccoci alla riduzione clinica, e teorie di ogni specie fanno l'apologia di questa riduzione del concetto di delinquenza a un concetto stretta­mente clinico. Questi educatori e questi assi­stenti sociali non solo non saranno produttori di socialità, come si fa credere ufficialmente, ma per di più rafforzeranno il processo di atomizza­zione e di segregazione del tessuto sociale, il che mi sembra catastrofico, indipendentemente dalla funzione di controllo sociale che essi pos­sono esercitare attraverso questa trasmissione di una nuova legge.

JACQUES DONZELOT: Credo che ci sia una presa a carico. Questa presa a carico è una presa di potere per giungere alla espropriazione di ogni possibilità di avere una vita collettiva concertata. È veramente una contro-finalità voluta: il con­trollo e la sorveglianza impiantati su vasta scala si chiamano animazione collettiva!

PHILIPPE MEYER: La connessione di questo aspetto con la natura del sistema economico è, a mio avviso, il nodo del problema, che deve es­sere delimitato in modo più preciso che non rial­lacciandolo puramente e semplicemente alla na­tura capitalistica di questo sistema.

JACQUES DONZELOT: Quanto all'articolazione con l'economico bisognerebbe non avere già reso autonomo il sociale in quanto tale e avere ben considerato il fatto che questa infiltrazione si fa in date località, in dati quartieri, ma che non si ha dovunque, e che concerne soprattutto una po­polazione di sottoproletariato o di paraproleta­riato.

PHILIPPE MEYER: No, essa concerne sempre di più, diciamo, la popolazione media. Per esempio, chi va ad abitare a Cergy-Pontoise, chi va ad abi­tare a Evry? Non è il sottoproletariato, ma piut­tosto la piccola borghesia...

PAUL THIBAUD: Questo lavoro sociale è in parte una risposta a certi bisogni sociali che tal­volta si sono manifestati spontaneamente. Quel­lo che s'impianta adesso a Evry arriva con anni di ritardo rispetto alla comparsa di un militanti­smo di quartiere e di casamento, ad esempio a Sarcelles o alla Duchère (a Lione). Inizialmente c'è stata animazione rivendicativa venuta dalla base. Le osservazioni su taluni di questi comitati di quartiere dimostrano che vi predomina un tipo di popolazione abbastanza preciso, una popola­zione di quadri intermedi, di gente che non ha grandi responsabilità politiche o economiche, ma di un livello culturale sufficiente per soffrire del­la loro assenza di potere nell'ambito della città o dell'impresa; sono essi che hanno manifestato più spesso la loro esistenza sul luogo d'abita­zione. Il loro intervento sul territorio indica che i metodi classici (politici, religiosi e soprattutto economici) di incanalare il desiderio di iniziativa si sono rivelati insufficienti. Da una decina d'anni, usciamo sempre più dal Welfare State, ossia da una certa economia più o meno controllata dallo Stato, e il cui obiettivo sociale, che viene più fre­quentemente sbandierato, è il pieno impiego. Quando c'è lavoro per tutti e la mistica dello svi­luppo è accettata, quello economico può essere il modo di controllo generale della società. Con l'apertura delle frontiere, la formazione di im­prese multinazionali, l'insistenza sulle capacità concorrenziali, ecc., il pieno impiego non sta più assolutamente alla base del credo economico: non solo si accresce la disoccupazione, ma alcuni fenomeni come l'eccedenza d'istruzione in rapporto alla richiesta della produzione o le innumerevoli «nocività» sociali, manifestano una specie di scollamento dell'economico in rapporto al sociale. Dunque bisogna controllare o fare esi­stere il sociale indipendentemente, con mezzi propri, e non attraverso l'economia che va per la sua strada. Tra la popolazione e la produzione si scava un solco. Un nuovo terreno di dibattiti e di conflitti si profila. L'esito può essere sia un maggior controllo sia una maggiore autonomia.

RENÉ PUCHEU: A questo punto del dibattito, vorrei esporre un'osservazione di ordine storico in certo qual modo, e fare una domanda. Prima di tutto, non è inutile notare che a livello deci­sionale, la preoccupazione d'inventare e di met­tere in opera una politica dell'animazione è nata e si è sviluppata, mi sembra, a partire da un fe­nomeno preciso: l'urbanizzazione. Anzi più par­ticolarmente, i grandi assembramenti e i pro­blemi di vita sociale che essi hanno rivelato, a causa dell'inesistenza della rete commerciale o di organizzazione collettiva da un lato, e la pro­spettiva delle «città nuove» dall'altro lato, han­no sensibilizzato verso ciò che si chiama «l'ani­mazione», parola di cui nessuno, d'altronde, co­nosce esattamente il contenuto.

In quanto alla domanda, eccola: Si è detto, mi pare, che quasi ineluttabilmente, l'animatore si trasforma in controllore, e si è lasciato inten­dere che ciò era voluto. Vorrei che si sviscerasse chi vuole questa evoluzione. Ho un po' paura di questo «chi». Non ho l'impressione che lo Stato sia abbastanza ben organizzato, che padroneggi così integralmente e con un'intelligenza così ma­chiavellica l'insieme dei processi sociali perché sia pensabile che qualcuno, in qualche luogo, animi surrettiziamente gli animatori. Allora chi vuole questa trasformazione dell'animatore in controllore? L'inconscio collettivo o che cosa?

JACQUES DONZELOT: Io non postulavo un soggetto trascendentale che manipolerebbe que­sta società in questo modo, ma ho soltanto sotto­lineato il fatto che tutto il sistema dell'assisten­za, che aveva una relativa autonomia, è adesso sistematicamente collegato al giudiziario: c'è una continuità dall'assistenza di prevenzione, la assistenza presso il tribunale, ecc. Dunque, gros­so modo si hanno questi due fatti: un riaggancio sempre più considerevole di un certo numero di operatori all'apparato giudiziario, e d'altra parte la diffusione di un modello sistematico d'inter­pretazione dei problemi umani che è lo psicolo­gismo, ma che funziona soprattutto ideologica­mente.

JEAN-RENÉ TREANTON: Che cosa vi fa dire che gli assistenti o gli operatori sociali sono ag­ganciati al giudiziario?

JACQUES DONZELOT: Le leggi.

JEAN-RENÉ TREANTON: Assolutamente no. Pe­rò vorrei che si facesse un'analisi sociale di quel che è il complesso della condizione degli opera­tori sociali in Francia e che ci si accorgesse che questi hanno come datori di lavoro delle collet­tività svariatissime, che possono essere le casse assegni familiari o i comuni o movimenti di ogni genere. Ci sono anche assistenti sociali giudi­ziarie, ma sono un'infima minoranza, e sono con­vinto che, nei tre quarti dei casi, gli operatori sociali non dipendono da quello che voi chiamate il giudiziario. A meno di dire che il sindaco della tale località, per il fatto che è sindaco e anche P.S.U. o comunista, sia automaticamente un po­liziotto o una guardia, come le assistenti sociali che dipendono da lui.

PHILIPPE MEYER: Se volete un dato ricavato da un'inchiesta recente, il 50% di assistenti so­ciali sono direttamente pagate dallo Stato e il 19% pagate dalla Sicurezza sociale; dunque il 69% pagate dallo Stato o dalla Sicurezza sociale. Il meno che si possa dire è che si va verso un raggruppamento di forze...

JEAN-RENÉ TREANTON: Credo che la grandis­sima diversità nel corpo degli operatori sociali sia quello che impedisce praticamente la loro presa di coscienza, e ne crea la crisi: stentano moltissimo a sindacalizzarsi, stentano ad avere ad esempio delle convenzioni collettive, e ten­tano di prendere coscienza dei propri problemi e dei problemi che sono costretti ad affrontare at­traverso strutture molto diversificate. Essi sono praticamente degli impiegati, dei salariati di pic­cole e medie imprese, in una società in cui i pro­blemi si collocano ormai a livello di grosse orga­nizzazioni. Ma di qui a generalizzare, non sono affatto d'accordo.

PAUL VIRILIO: Credevo che ci dovessimo in­terrogare sull'assistenza sociale che si sviluppa o incomincia a intervenire in nuovi settori. Non si potrebbe porre il problema della legittimità di questo intervento? Voi parlate come di una cosa naturalissima, di questi 90.000 operatori sociali, di queste carte di identità sanitarie, di questa divisione e controllo psichiatrico del territorio, di questo controllo dei quartieri, di questa sor­veglianza generalizzata con tutti i mezzi, elettro­nici e altri. Per me questo costituisce un pro­blema.

JEAN-RENÉ TREANTON: Ma io non ho detto as­solutamente che questo fosse naturale. Ho detto soltanto che prima di affermare che gli operatori sociali sono al servizio della polizia, bisognava porsi quest'altra domanda: che cosa fanno gli operatori sociali? E volevo protestare contro la risposta immediata: gli operatori sociali sono al servizio dei poliziotti. Dicevo: bisognerebbe guar­dare le cose più da vicino. Prendete il caso della signora d'Escrivan, l'assistente sociale di Fres­nes: è stata estromessa dall'Amministrazione pe­nitenziaria perché aveva denunziato delle sevi­zie commesse su un detenuto; è chiaro che non era al servizio della polizia. Non si tratta d'inca­sellare le persone, si tratta di dimostrare come certe situazioni sociali sono attualmente relati­vamente fluide, e che a poco a poco si rivela una nozione dell'azione sociale e del lavoro sociale che non è predisposta in anticipo come dite voi. Se lo fosse, se il lavoro sociale fosse fin dall'ini­zio un'azione al servizio dei poliziotti, non vedo quello che noi staremmo a fare qui.

RENÉ PUCHEU: Mi associo alla domanda or ora posta: che cosa s'intende esattamente per «la­voro sociale»? Facciamo un esempio: l'anima­tore socio-culturale, o il direttore di una casa dei giovani fa del lavoro sociale? Senza dubbio tutto è in tutto, e inversamente, e tutto dipende dal tutto. Comunque non si può trattare di tutte le attività cosiddette sociali senza introdurre delle distinzioni. L'«operatore sociale» si specifica mediante la nozione di assistenza a persone op­presse o escluse dalla società? Oppure il lavoro sociale congloba le azioni concernenti l'assisten­za agli oppressi, agli esclusi, ma anche le azioni più strettamente culturali o «socio-educative»? Credo che dovremmo sforzarci per giungere a un minimo di precisione.

PHILIPPE MEYER: Non credo che nessuno di noi la pensi in modo così deterministico, come dite, ossia che tutto sia già predisposto, e che in ogni caso, essendo il servizio sociale al servi­zio dei poliziotti e questi al servizio dei borghesi, non rimarrebbe a parecchi di noi - i quali, per effetto del caso, non sono né propriamente bor­ghesi né propriamente operatori sociali - nien­t'altro che scrivere un certo numero di articoli speciali sull'argomento. Il problema sul quale cerchiamo di interrogarci mi sembra essere quel­lo della funzione sociale, della committenza, del­la domanda sociale rivolta al lavoro sociale. Che all'interno di tale domanda esista un margine di manovra possibile per un certo numero di ope­ratori sociali, per esempio quelli da voi citati, e in più il cappellano e il pastore di Toul, e il fatto che essi siano effettivamente, in conseguenza ad una presa di coscienza della funzione sociale del­la loro professione, in rotta con questa profes­sione, è evidente e ci rallegra. E che ci sia ef­fettivamente un discreto numero di operatori so­ciali che, in Francia o altrove, abbiano tentato un lavoro non di atomizzazione sociale ma anzi di incitamento a una buona convivenza, è altret­tanto evidente e altrettanto ci rallegra.

MICHEL FOUCAULT: Tuttavia, quando voi ci portate per esempio come prova che gli opera­tori sociali non sono impiegati dipendenti dalla polizia, il fatto che la signora d'Escrivan è stata espulsa per ordine della polizia e con l'avallo della Croce Rossa, lo trovo un esempio signifi­cativo del modo con cui, nella nostra società, è previsto dal potere il funzionamento del lavoro sociale. Penso che taluni individui, in una situa­zione del genere, dicono di no e denunziano, come hanno appunto fatto la signora Rose e la signora d'Escrivan. Ciò non impedisce la loro esclusione, e il fatto che la loro esclusione sia stata accettata da tutti quanti, non solo, natural­mente, dall'amministrazione, ma dai loro colle­ghi, prova quanto attualmente sia programmato e determinato il lavoro sociale.

RENÉ PUCHEU: Vorrei ancora porvi una doman­da, sempre sulla nozione di lavoro sociale: esso comprende anche i provvedimenti di azione so­ciale in favore dei vecchi, in favore di certi in­fermi? Queste modalità di lavoro sociale rien­trano nella dinamica da voi descritta?

PAUL VIRILIO: Non siamo responsabili di que­sto sconfinamento del lavoro sociale ed è appun­to questo sconfinamento che oggi crea un pro­blema. Ciò che è contestabile, non è l'assistenza a un vecchio caduto per strada; è il fatto che oggi l'assistenza diventa un fenomeno che si svi­luppa e si ramifica dappertutto.

RENÉ PUCHEU: Scusatemi, sono testardo. Pos­siamo trattare del lavoro sociale in blocco? Ab­biamo prima discusso su una forma di lavoro che, all'ingrosso, è l'assistenza sociale nelle pri­gioni. Ma le altre forme di lavoro sociale - se si dà in definitiva alla nozione di lavoro sociale il massimo di estensione - partecipano a una dinamica altrettanto poliziesca? Poco fa, si è ac­cennato che la presenza di educatori nelle città nuove si trasformava inevitabilmente in un ca­sellamento controllato dalla polizia. Allora qual­siasi azione d'animazione è votata a questa di­namica infernale? Sarebbe importante che met­tessimo in chiaro questo.

PAUL THIBAUD: Quando c'è lavoro sociale, l'operatore sociale è sempre collocato vicino a un'autorità di qualsiasi tipo. Penso che sia una regola assolutamente generale. Nelle prigioni è abbastanza evidente, nelle aziende pure; l'ope­ratore sociale non ha autorità, ha ovviamente una certa libertà di manovra, ma non autorità.

RENÉ PUCHEU: Sì, ma ci sono delle gradazioni nell'autonomia. Il caso della signora d'Escrivan è un caso limite?

JACQUES JULLIARD: Credo che a creare un falso dibattito sia stata la parola polizia. Effetti­vamente nel caso della prigione, il riferimento alla polizia, che è uno strumento coercitivo par­ticolarmente funzionale, è nettissimo. Se pren­diamo gli insegnanti - al punto in cui siamo, li possiamo considerare operatori sociali - con­statiamo che costoro, in numero crescente, sco­prono di avere, accanto alla loro funzione espli­cita, che è una funzione di comunicazione, una funzione implicita, che è una funzione di mante­nimento dell'ordine. Non dirò una funzione poli­ziesca, perché è un termine troppo restrittivo, troppo polemico, che oscura il dibattito invece di illuminarlo, ma una funzione di mantenimento dell'ordine. E mi pare che il problema derivi oggi dal fatto che questa funzione implicita diventi esplicita per un certo numero di persone, nella misura in cui si rendono conto che certe azioni che vorrebbero compiere per corrispondere alla loro funzione esplicita, assolutamente necessa­ria e legittima, li porta a rimettere in causa la lo­ro funzione implicita. E allora, ecco, si urtano con l'autorità esterna che, in fondo, le determina e che, non dirò le telecomanda - sarebbe ecces­sivo - ma in ultima analisi è il loro garante.

PHILIPPE MEYER: Vorrei dare due parole di ri­sposta a Pucheu sull'estensione del lavoro so­ciale, perché è su tale estensione che dobbiamo interrogarci. Bisogna dire che coesistono attual­mente le forme di lavoro sociale più arcaiche cioè quelle pure e semplici dell'assistenza cari­tativa (distribuire pane o altre cose del genere), e le forme più moderne, cioè quelle dell'anima­zione della popolazione «normale». Questi due poli mi sembrano i poli estremi di un lavoro so­ciale che accresce non solo i suoi effettivi ma anche la sua sfera d'azione.

RENÉ PUCHEU: Ma allora, l'animatore è inevi­tabilmente nella società attuale un poliziotto?

PHILIPPE MEYER: No, ma il mandato che riceve è quello di un controllore.

PAUL VIRILIO: L'animatore partecipa a un pro­cesso che ci è imposto deliberatamente: non possiamo più animarci e ricrearci da noi stessi. È terribile: è un insieme di condizionamenti, ec­co tutto il problema. Questo processo deliberato che l'operatore sociale ci fa subire senza che ce ne accorgiamo, mediante la sua funzione, median­te la massa degli operatori sociali, questo pro­cesso noi non possiamo accettarlo: questo è il problema del lavoro sociale. Si opera come se la società non si creasse da se stessa, come se fosse manovrata, mossa unicamente dall'esterno. Si direbbe che si passi per tre stadi: l'auto­regolazione delle società primitive, la regolazio­ne delle nostre società, e che ci si diriga verso una specie di «de-regolazione» attraverso l'ur­banizzazione di cui parlavate prima, che è essa stessa un fenomeno nuovo, visto che si parla di città mondiali.

MICHEL FOUCAULT: Vorrei aggiungere qual­cosa nel senso di quel che diceva Julliard: è evi­dente che non si è mai detto che tale operatore sociale, in quanto individuo, fosse stipendiato dalla polizia; non si tratta affatto di questo. Cre­do invece, e ciò è importante, che il lavoro socia­le si inscrive all'interno di una grande funzione che da secoli ha continuato a prendere dimen­sioni nuove, ed è la funzione sorveglianza-corre­zione. Sorvegliare gli individui, e correggerli, nei due significati del termine, ossia punirli o peda­gogizzarli.

Questa funzione di sorveglianza-correzione, fi­no al secolo XIX, è stata assicurata da varie isti­tuzioni, tra le altre dalla Chiesa, poi dai maestri. Si è detto che l'operatore sociale ha preso le mosse dall'appoggio volontario a un'azione di sradicamento della tubercolosi e delle malattie veneree; mi chiedo se la sua origine non sia piut­tosto nella funzione dell'educatore, il «maestro» propriamente detto. Egli ha difatti avuto questo ruolo, a fianco del curato, di fronte al curato, contro il curato; la repubblica si è sviluppata tra­mite la loro opposizione. Fino al XIX secolo, que­sta funzione di sorveglianza-correzione era rela­tivamente autonoma in rapporto al potere politico. Il potere politico si serviva della loro opposi­zione, dei loro conflitti, della loro autonomia, e adesso riprende tutto in mano strettamente; e in maniera tanto più energica in quanto stanno per sfuggirgli la Chiesa da una parte e gli intel­lettuali dall'altra. Il grande tradimento degli in­tellettuali nei confronti dello stato borghese è sancito dal fatto che si affida agli operatori so­ciali il ruolo che il maestro, il professore della scuola secondaria, l'intellettuale non svolgono più da un po' di tempo; e il paradosso è che que­sti operatori sociali sono formati da questi intel­lettuali. Ecco perché l'operatore sociale non può non tradire la funzione che gli è stata assegnata.

 

 

Classi lavoratrici e classi pericolose

 

JEAN-MARIE DOMENACH: Si deve ancora de­terminare il significato politico del lavoro socia­le in funzione di un altro problema, quello enun­ciato dalla nostra terza domanda:

Come situare nella teoria sociale quelli che attualmente sono considerati disadattati? Proble­mi o soggetti? Esercito di riserva del capitalismo o riserva rivoluzionaria?

JEAN-RENÉ TREANTON: Tra la maggioranza de­gli operatori sociali si è creato un certo males­sere perché stanno prendendo coscienza di con­tribuire, per la maggior parte del tempo implici­tamente e senza volerlo, al mantenimento dell'ordine. Ne nasce una tensione interna. Sono completamente d'accordo con quello che ha det­to Julliard. E ciò che oggi mi sembra estrema­mente interessante, è studiare il modo con cui si manifesta questa tensione interna. Penso che non si tratti di casi isolati, si tratta veramente di una presa di coscienza generale. Interrogate gli allievi delle scuole di assistenti sociali, di opera­tori sociali, sarebbe interessantissimo fare un sondaggio in mezzo a loro per vedere quanti so­no i problemi che si pongono. Uno degli aspetti principali di questa crisi, è che per la maggior parte del tempo si insegna loro a trattare i pro­blemi, individuo per individuo, caso per caso. E per lo più essi si rendon conto che gli si impe­disce di pensare o di agire proprio a un livello collettivo o a livello generale, gli si impedisce un'azione collettiva o politica dicendo loro: do­vete occuparvi soltanto dell'individuo: qui comin­ciano i loro guai. Donde in molti di loro la consa­pevolezza del fatto che agire a livello dell'indivi­duo è assolutamente illusorio finché non si af­frontano determinati problemi politici; ed essi non vedono assolutamente come uscire da que­sto dilemma.

PHILIPPE MEYER: Dai vostri ragionamenti si ricade sulle domande riprese un momento fa da Domenach e su quella precedente di Virilio: qua­le è il loro posto nella teoria sociale? Prendiamo il problema dei delinquenti. (Mi sono occupato per tre anni di prevenzione, in un ambiente sotto­proletario), Quel che si trova in Marx e in En­gels a riguardo del sottoproletariato non è par­ticolarmente tenero. Bisogna rientrare nella lo­gica marxista, ossia quel che può capitare di me­glio a dei giovani sottoproletari è di proletariz­zarsi? Engels diceva che quando hanno loro spa­rato addosso nell'89 era ben fatto per loro e per gli operai. Allora è in questa teoria sociale che dobbiamo entrare o in un'altra, e quale?

JACQUES JULLIARD: Hai posto benissimo il quesito: una lettura del marxismo, che ahimè è probabilmente quella buona, porterebbe a consi­derare questi problemi come molto marginali, nella misura in cui l'azione sociale, politica, sin­dacale quale si potrebbe dedurre dal marxismo poggia sullo stesso tipo di logica del capitalismo stesso: e cioè la difesa o la volontà di recupe­rare una parte del plus-valore. Se ci si colloca all'interno di questo universo, si capisce benis­simo perché Marx e Engels non s'interessavano al sottoproletariato: perché non è produttore di plus-valore, quindi non è agente sociale, e a que­sto titolo non è da difendere. Ai loro occhi, il sot­toproletariato è un sottoprodotto della società globale, tanto della parte dominante che di quella dominata. Proprio questa logica, produttivisti­ca, noi la stiamo rimettendo in causa.

Rimane comunque il problema di sapere se gli emarginati, i delinquenti, i carcerati, i malati mentali, ecc. possono diventare o no uno degli agenti essenziali nell'azione politica. È la doman­da proposta. Personalmente, sarei relativamente prudente: non vedo come questi gruppi emargi­nati potrebbero diventare il centro di una vera azione politica. La prospettiva che è quella di Marcuse non mi sembra ricca di una costruzione politica seria.

In realtà, è nella misura in cui i «normali» sa­ranno capaci di capire che i problemi degli emar­ginati stanno per divenire i loro problemi che tale azione può essere integrata; ma non si tratta di cambiare di proletariato o di cambiare azione sociale. Perché, personalmente, non vedo chiara­mente come si possa farlo: se il fine dell'azione politica rimane la presa o l'esercizio del potere, esso non può che riguardare quei gruppi che so­no significativi nella società, ossia i produttori, quelli che hanno una funzione sociale e econo­mica precisa. Però noi scopriamo che non ci sono più gli emarginati e i produttori, ma che un nu­mero crescente di produttori stanno diventando gli uni dopo gli altri degli emarginati, e cioè che gli uni e gli altri sono soggetti a forme diverse di esclusione. E qui forse c'è possibilità di ricu­perare i veri emarginati in seno a un'azione so­ciale e politica che trovi insieme tutti i lavo­ratori.

JACQUES DONZELOT: Sono abbastanza d'ac­cordo con questo processo di parcellizzazione e di categorizzazione della popolazione in generale, ma alla fine credo che bisognerebbe vedere quali sono le linee di rottura fondamentali. Ce n'è una decisiva, quella che separa il proletariato ono­rato, sindacalizzato e che lavora, da quello igno­bile, imprigionato e non sindacalizzato; ed effet­tivamente questa linea di rottura è la condizione che rende possibile il funzionamento del sistema economico e politico, essa è fondamentale. Ef­fettivamente, non credo che si tratti di cambiare di proletariato. Non bisogna tanto eliminare que­sta frattura, ma al contrario bisogna lavorare su questa frattura, sii questa sfaldatura. È una sfal­datura le cui funzioni politiche sono decisive ed è a questo livello che si lavora e non a livello dell'assumersi a carico una specie di proletariato di ricambio.

MICHEL FOUCAULT: Sono d'accordo con l'ana­lisi che fate di Marx, ma non vi seguo più quando dite: ecco, c'è da una parte il proletariato, e dall'altra gli emarginati, e sotto questa etichetta avete messo (non era una lista esauriente) i car­cerati, i malati mentali, i delinquenti, ecc. E al­lora si può definire la plebe non proletaria, non proletarizzata, con l'elenco comprendente malati mentali, delinquenti, carcerati, ecc.? Non dovrem­mo piuttosto dire che c'è una frattura tra il pro­letariato da una parte e la plebe extra-proletaria, non proletarizzata, dall'altra? Non dovremmo di­re: c'è il proletariato e poi ci sono questi emar­ginati. Dovremmo dire: nella massa globale della plebe esiste una frattura fra il proletariato e la massa non proletarizzata, e io credo che le isti­tuzioni come la polizia, la giustizia, il sistema pe­nale, sono uno dei mezzi utilizzati per approfon­dire continuamente questa frattura di cui il capi­talismo ha bisogno.

Perché in fondo, ciò di cui il capitalismo ha paura, a torto o a ragione, dall'89, dal '48, dal '70, è la sedizione, la sommossa: giovani che scendono in strada con coltelli e fucili, che sono pronti all'azione diretta e violenta. La borghesia è stata ossessionata da questa visione e vuole far intendere al proletariato questo non è più possibile: «Costoro sono pronti a servire di ar­ma di lancio alle vostre sedizioni, non è possibile, nel vostro stesso interesse, che facciate alleanza con loro». È tutta questa popolazione mobile, infatti, sempre disposta a scendere in piazza, a fare sommosse, che è stata in qualche modo esaltata come esempio negativo dal siste­ma penale. E tutta la svalutazione giuridica e morale che è stata fatta della violenza, del furto, ecc., tutta questa educazione morale che il mae­stro faceva in termini positivi al proletariato, la giustizia la fa in termini negativi. È in questo mo­do che la frattura è stata continuamente ripro­dotta e reintrodotta tra il proletariato e la massa non proletarizzata, perché si pensava che il con­tatto fra l'uno e l'altra fosse un pericoloso fer­mento di sommosse.

JACQUES JULLIARD: Sono abbastanza d'accor­do per dire che, da questo punto di vista, bisogna rompere con la prospettiva marxista, che era uni­camente centrata sul produttore.

JEAN-RENÉ TREANTON: Marxista e darwinista, perché il pensiero borghese del XIX secolo è pro­fondamente improntato al darwinismo, e su que­sto punto Marx e Darwin si ricongiungono. Il sot­toproletariato, nella teoria marxista, è una spe­cie di residuo. Qui sono completamente d'accor­do con la vostra analisi. I tribunali, la polizia agi­scono nei confronti del sottoproletariato per «stigmatizzarlo». Però mi sembra che l'inter­vento degli operatori sociali, all'occorrenza, pro­ceda in senso inverso. Generalmente, l'azione dell'operatore sociale è forse a favore del man­tenimento di un certo ordine sociale, ma rompe completamente nella tecnica e nello spirito, con il processo e con le procedure della stigmatiz­zazione. Bisogna vedere come si è sviluppato il lavoro sociale. Non è nato in Francia, ma nei paesi anglosassoni, come reazione al pensiero darwinista, che era: «Lasciateli crepare, altri­menti andate contro l'ordine della natura». Sto­ricamente è così, e io penso che le tecniche del lavoro sociale siano consistite precisamente nel tentativo di reintegrare il sottoproletariato per mezzo di un'azione individuale, è perciò quindi nel tentativo di attenuare o di fare scomparire la frontiera basata sulla stigmatizzazione.

JACQUES DONZELOT: La funzione di qualsiasi apparato, di qualsiasi intervento è quella di cir­coscrivere un terreno, di stabilire dei limiti, di fare una divisione. Questa è la funzione delle as­sistenti sociali: fare una divisione. Una famiglia dove si sia recata un'assistente sociale è una famiglia designata come appartenente a una cer­ta popolazione respinta o da respingere, di cui non si vuole più fare parte perché è già fuori legge.

JEAN-RENÉ TREANTON: Ma l'assistenza socia­le stigmatizza? La sua azione è un'azione di «etichettamento» pubblico?

MICHEL FOUCAULT: Ci sono in realtà due mo­di di cancellare la linea di divisione tra la massa non proletarizzata e il proletariato. Uno è rivol­gersi a questo popolo proletarizzato e inculcargli un certo numero di valori, di princìpi, di norme perché accetti tali e quali i valori che sono poi i valori borghesi, e che sono anche, in molti casi, i valori che la borghesia ha inculcato al proleta­riato. Grazie ai quali la massa non proletarizzata si troverà disarmata, perché avrà perduto la sua specificità di fronte al proletariato e cesserà di essere pericolosa come fermento, focolaio di sommosse, di possibile rivolta, per la borghesia.

C'è un altro modo di superare la divisione, e cioè dire al proletariato e insieme alla massa non proletarizzata: il sistema dei valori che vi si inculca, che cos'è, se non precisamente un siste­ma di potere, uno strumento di potere nelle mani della borghesia? Quando vi spiegano che è male rubare, vi danno una certa definizione della pro­prietà privata, accordandole un certo valore nel­la borghesia. Quando v'insegnano a non amare la violenza, a essere per la pace, a non volere la vendetta, a preferire la giustizia alla lotta, che cosa vi insegnano? Vi insegnano a preferire alla lotta sociale la giustizia borghese. Vi insegnano che un giudice vai meglio della vendetta. Ecco un lavoro che hanno fatto, e anche bene, gli intel­lettuali, i maestri, ed è lo stesso lavoro che ades­so continuano, sul loro registro, gli operatori sociali.

PAUL THIBAUD: Questo tipo di alleanza fra proletari e sottoproletari è del tutto tradizionale nei periodi di rivoluzione violenta. Però è un'al­leanza effimera: passato il momento di instabi­lità, che accompagna la sostituzione di un pote­re all'altro, si torna all'esclusione tradizionale. Gli eroi della sommossa si ritrovano in carcere. Il problema dunque mi sembra quello di conclu­dere tra il proletariato e il sottoproletariato una alleanza fondata su qualcos'altro che non siano i valori di rivolta: su un progetto sociale comune. Senza di che, passato il giorno della collera, l'al­leanza si rivelerà effimera, un inganno come il solito.

MICHEL FOUCAULT: Quando dicevo che il pro­blema è appunto di mostrare al proletariato che il sistema di giustizia propostogli, impostogli, è in realtà uno strumento di potere, è proprio per­ché l'alleanza con la plebe non sia semplicemen­te un'alleanza tattica di una giornata o di una sera, ma che effettivamente possa esserci tra un proletariato che non ha assolutamente l'ideo­logia della plebe e una plebe che non ha assolu­tamente le pratiche sociali del proletariato, qual­cosa di diverso che un incontro occasionale.

JACQUES DONZELOT: Credo che il punto in cui può avvenire questo incontro tra la plebe se­diziosa e il proletariato che subisce i valori bor­ghesi, sia a livello extra-professionale, a livello dei problemi della casa, della disoccupazione, della vita di quartiere, dell'isolamento, a livello dei problemi della salute, a livello di «scontro» con il controllo poliziesco, su tutto questo insie­me può crearsi il legame.

PAUL THIBAUD: La cosa interessante è che in quel momento, bisogna dirlo, la posizione nel si­stema produttivo non è determinante. Allora si pone tutt'altro problema, quello della separazione del sociale e dell'economico.

PAUL VIRILIO: Prima Julliard ha detto: l'emar­ginazione diventa massiccia e noi non ne parlia­mo, mentre lo Stato sembra ne abbia tenuto con­to attraverso lo sviluppo del lavoro sociale. A partire dal momento in cui l'emarginazione di­venta massiccia, il metodo poliziesco classico è impossibile, oppure allora si ha la guerra civile. L'unico trattamento possibile, soprattutto dopo che l'intellighenzia è fuggita, diciamo dal 1968, è di riportarvi gli ideologi popolari che sono gli operatori sociali. Con la crisi, non solo della so­cietà capitalistica, ma anche della società indu­striale, il vero problema è: che avviene se l'emar­ginazione diventa un fenomeno di massa? Prima si è cercato di caratterizzare questa parte ab­bandonata, anomica. Nel secolo XIX si trattava di un'infima parte della società; ebbene, ammettia­mo che queste caratteristiche si applichino a mi­lioni di persone nei suburbi di quelle metropoli continentali di cui si parlava poco fa.

PAUL THIBAUD: Si potrebbe forse immaginare nell'apparato di controllo dello Stato una scis­sione, per lo meno relativa, fra due serie di tec­nocrati, quelli incaricati del settore sociale e quelli incaricati del settore economico, fra i tec­nici della vita sociale e i tecnici della produzio­ne? Ad esempio, nel quadro del Commissariato alla pianificazione, quelle che si chiamano le fun­zioni collettive (educazione, azione sociale, cul­tura...) e le funzioni produttive, hanno formato oggetto di rapporti che andavano in direzione del tutto opposte; naturalmente ci si è decisi in fa­vore delle funzioni produttive, come è normale nella società in cui siamo. L'analisi in termini di controllo sociale dovrebbe tenere conto di diver­genze di questo tipo.

Mi pare che la frattura tra il sociale e l'econo­mico si rileva non appena si comincia a parlare del lavoro sociale come azione d'insieme sull'in­sieme della società, e non come una serie di at­tività disperse, legate ciascuna a una funzione sociale maggiore (produzione, insegnamento...) . La crisi del Welfare State socialdemocratico, il potere politico democratico che controlla, attra­verso un piano, la produzione a beneficio della società, si estende a tutte le componenti di que­sto insieme: essa ha come conseguenza un cer­to rendersi autonomo del sociale le cui richieste diventano più dirette (cfr. tutto ciò che esprime il tema della qualità della vita).

JACOUES DONZELOT: Credo che la differenza sia secondaria fra due categorie: quelli che ge­stiscono la produzione e quelli che gestiscono i produttori. Vi sono quelli che vorrebbero poter gestire i produttori, come altri gestiscono la pro­duzione. Ci si rende conto che effettivamente questa gestione dei produttori è di fatto un la­voro di controllo, un lavoro politico. Ed è qui la contraddizione, una contraddizione che dimostra che effettivamente il compito della sorveglianza è a livello dell'habitat altrettanto importante che il compito dello sfruttamento a livello della pro­duzione. Ci sono quindi in certo qual modo due contraddizioni fondamentali, due livelli di scon­tro, che sarebbero lo sfruttamento e la sorve­glianza. Il tutto si chiama repressione.

MICHEL FOUCAULT: Vorrei porre una doman­da: e se è la massa che si emargina? Ossia se sono proprio il proletariato e i giovani proletari a rifiutare l'ideologia del proletariato? Al tempo stesso che l'emarginazione si massifica, potreb­be accadere che la massa si emargini; contrariamente a quanto ci si aspetti, non ci sono poi tanti disoccupati tra quelli che finiscono davanti ai tribunali. Sono giovani operai che dicono: per­ché dovrei sudare tutta la vita a 100.000 franchi al mese, mentre... In quel momento è la massa che è in via di emarginarsi.

PHILIPPE MEYER: Quando un giovane operaio si emargina, finisce prima o poi davanti a un tri­bunale o davanti a uno psichiatra. Il tribunale terrà conto della dimensione penale della sua emarginazione; lo psichiatra, della dimensione individuale. Chi gli farà prendere coscienza della dimensione politica di questa emarginazione? Non certamente l'operatore detto «sociale» che interviene solo come il docile strumento dello psichiatra o del giudice. Certi gruppi di militanti, come il G.I.P. (3), hanno permesso a degli esclu­si e alla loro famiglia di situarsi socialmente e politicamente, di sapere di chi erano solidali e di chi avversari. Questo tipo d'azione del G.I.P. non è al tempo stesso una critica del lavoro so­ciale e una critica del militantismo politico?

JACQUES DONZELOT: Effettivamente, a due li­velli c'è un rifiuto della pratica militante classi­ca: in primo luogo, il militantismo classico era sistematicamente pedagogico; quel che si fa al G.I.P. è soltanto di dare alle persone i mezzi per esprimersi, di restituire loro un certo numero di possibilità d'espressione. In secondo luogo, si mette l'accento sulle divisioni all'interno del pro­letariato e non sull'unificazione che si tentereb­be di compiere mediante una retorica che da 150 anni obnubila il campo politico.

JACQUES JULLIARD: E questo lo trovate poli­ticamente molto positivo? D'accordo sul primo punto: si tratta di permettere alla gente di espri­mersi, piuttosto che di insegnare loro. Ma quan­do dite: «insistiamo sulle differenze piuttosto che sulla pseudo-unanimità che potrebbe esserci fra loro», mi chiedo se questo non sia politica­mente una grave smobilitazione. La vostra azio­ne finirebbe con il fare le veci di una valvola di sicurezza per tutta quanta la società. Io inclino a pensare che qualcosa sarà possibile soltanto nella misura in cui classi lavoratrici e classi pe­ricolose potranno riavvicinarsi. Non è affatto semplice: questo implica che le classi lavora­trici, che io credo saranno sempre determinanti, riescano a immettersi in modo diverso che come classi produttive. E cioè che si accostino a un sentimento di universalità che la loro posizione di classe produttiva impedisce, poiché come classi produttive, esse non sono che una parte della società, una parte che è necessariamente complementare ad altre parti, e che d'altronde permette - l'avete detto - l'esclusione di altre parti.

È quindi nella misura in cui la classe produt­tiva, ossia in fin dei conti la maggioranza della popolazione, considera che i problemi degli emar­ginati sono i propri, sotto forme diverse (non tutta l'emarginazione è rappresentata dalla de­linquenza o dalla malattia mentale) che può farsi questa congiunzione. Oggi la società dei consu­mi impone modelli sociali di comportamento e di consumo sempre più precisi e sempre più esi­genti. Se voi non assomigliate a un «dirigente» di 30 anni, giovane, dinamico, sposato, con figli, in buona posizione sociale, siete potenzialmente un emarginato. Nella misura in cui il modello so­ciale è sempre più rigido e sempre più esclusivo, l'insieme dei produttori potrebbe rifiutarlo e ac­cedere a un tipo nuovo di universalità, conside­rando che i problemi degli emarginati sono i pro­pri, che siamo tutti ebrei tedeschi, se preferite.

JACOUES DONZELOT: Non tutti si è ebrei te­deschi, non tutti si è omosessuali, non tutti si ha voglia di esserlo, non si è tutti questo o quel­lo: sono forme che, in quanto tali, devono espri­mersi, e credo appunto che i tipi d'azione poli­tica o di movimenti politici fossero sempre con­cepiti su un modello religioso, ossia si cercasse una unione sulla base di valori trascendentali e non sulla base della vita reale, su questo o quel problema reale.

Giustamente non rimette l'accento sull'oppo­sizione per creare le differenze, ma per fare in modo che, una volta riconosciute le differenze, le alleanze che si concludono siano alleanze rea­li e non alleanze mitiche che approdano dove ben sappiamo.

 

 

 

 

(1) Per gentile concessione della direzione, pubblichiamo la traduzione della Tavola rotonda, uno dei capitoli del numero speciale di ESPRIT su «Pourquoi le travail social?», aprile-maggio 1972, pag. 678 e segg.

Alla tavola rotonda hanno partecipato:

JEAN-MARIE DOMENACH, direttore di Esprit;

JACOUES DONZELOT, membro del Gruppo di informazione sulle prigioni, docente di sociologia a Nanterre. Sta prepa­rando uno studio su «La nascita delle prigioni». Ha pubblicato su Topique (n. 3 e 6) «Espace clos, travail et moralisation» e «Le 3.e age de la répression»;

PHILIPPE MEYER, professore, sociologo, membro dell'équipe di ricerca dell'associazione di salute mentale del XIII arrondissement. Ha pubblicato su Esprit (settembre 1971) «L'antipsychiatrie ou la morte de l'âme» e con Hubert Lafont in Sociopsychanalyse I (Payot) «Boscoville ou l'auto-répression»;

MICHEL FOUCAULT, professore al Collegio di Francia, co-fondatore del Gruppo di informazione nelle prigioni con J.M. Domenach e P. Vidal-Naquet. Autore di «Naissance de la clinique» (P.U.F.), «Histoire de la folie», «Les mots et les choses» (Gallimard);

PAUL VIRILIO, architetto-urbanista, incaricato alla Sorbona. Autore di «La function oblique» (Ed. Architecture prin­cipe) e «Architecture cryptique» (Ed. Alfaguara);

JEAN-RENÉ TREANTON, docente di sociologia all'Università di Lilla I, membro del comitato direttivo della «Rivista francese di sociologia» e di «Sociologia del lavoro»;

JACOUES JULLIARD, assistente di storia a Parigi VIII (Vincennes). Autore di «Clemenceau briseur de grève» (Jul­liard) e «Fernand Pelloutier et les origines du syndacalisme révolutionnaire» (Le Seuil);

PAUL THIBAUD, redattore-capo di ESPRIT;

RENÉ PUCHEU, autore di «Le Journal, les mythes et les hommes, Guide pour l'univers politique» (Ed. Ouvrières).

(2) Nota della redazione. Si tratta del numero di Esprit dedicato al lavoro sociale, dal quale abbiamo tratto la pre­sente traduzione. V. nota 1.

(3) G.I.P. = Groupes d'Information sur les Prisons.

 

 

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