Prospettive assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972

 

 

DOCUMENTI

 

PROGRAMMA DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA IN MATERIA DI SANITÀ, ASSISTENZA E TUTELA DELL'AMBIENTE

 

 

Pubblichiamo un estratto delle linee programmatiche del dipartimento della sicurezza sociale della Regione Emilia-Romagna «Sanità, assistenza e tutela dell'ambiente».

Il documento dimostra lo sforzo della Regione Emilia-Romagna per una politica alternativa dei servizi e conferma che alle Regioni è possibile met­tere in movimento «dal basso» le riforme eluse dalle forze conservatrici del governo nazionale.

 

Premessa

(...) La regione colloca i suoi interventi indiriz­zati non già alla semplice mitigazione o ripara­zione dei guasti preesistenti, ma sulla base dei seguenti principi:

a) unitarietà dell'intervento sociale, igienico-­sanitario e assistenziale, in un quadro di recipro­che connessioni ed interdipendenze;

b) superamento della fase che potremmo defi­nire «terapeutica», rappresentata essenzialmen­te dall'intervento farmaceutico e ospedaliero nel­la sanità e caritativo e di esclusione ed isola­mento nell'assistenza, con il passaggio ad un si­stema di «prevenzione» fondato sulla promozio­ne di interventi a monte con il più ampio respiro socio-economico e politico;

c) uniformità del livello delle prestazioni e specialmente degli orientamenti politico-sociali, amministrativi e finanziari. nonché tecnico-scien­tifici, su tutto il territorio regionale, superando in particolare i dislivelli città-campagna e monta­gna-pianura con una programmazione di adeguati interventi correttivi;

d) orientamento della ricerca bio-medica e so­ciologica delle università con sede nella regione;

e) individuazione nell'ente locale, o nella co­ordinazione organica di più enti locali, dello stru­mento operativo fondamentale e di base per lo svolgimento di un'attività medico-sociale e assi­stenziale che elimini la frammentarietà e le fre­quenti contraddittorietà del sistema policentrico attuale. Tale funzione è possibile attraverso un adeguato rafforzamento dei poteri amministrativi dei comuni e delle province con le deleghe in ma­teria sanitaria e sociale che la regione disporrà nei prossimi mesi, con l'obiettivo di garantire unitarietà ed eguaglianza dell'intervento su tutto il territorio regionale;

f) esaltazione della partecipazione diretta dei cittadini e dei lavoratori ai vari livelli e momenti dell'attività sanitaria e assistenziale, quale ga­ranzia non solo di democraticità ma altresì di funzionalità dei servizi, per alcuni dei quali già si possono proporre soluzioni di gestione so­ciale (...).

 

Prevenzione

Nel momento in cui i lavoratori scoprono quan­to sia effimero un risultato sindacale e contrat­tuale che non preveda, insieme con miglioramen­ti economici, anche e soprattutto una sostanziale modificazione delle condizioni ambientali e orga­nizzative del lavoro stesso, è naturale e giusto che essi assumano direttamente l'intera respon­sabilità della «gestione» della loro salute, dalla fase dello studio e della conoscenza dei rischi specifici del lavoro, attraverso la «validazione consensuale» (con questa espressione, ormai largamente acquisita nel linguaggio sindacale, si vuole intendere l'affermazione di «validità» che deriva dal «consenso» di un gruppo omogeneo esposto a determinati rischi di nocività nei con­fronti di sensazioni e disturbi psico-fisici, specie quando questi siano di difficile ed impossibile valutazione oggettiva e strumentale) fino a quel­la della contrapposizione o quanto meno della ve­rifica dei dati forniti dalle istituzioni pubbliche e specialmente private di sanità, attraverso la « non delega ». Su questi filoni rivendicativi si sono indirizzate le ultime lotte sindacali, dal 1968-69 in avanti, e già si sono sottoscritti cen­tinaia di accordi aziendali e di categoria che co­stituiscono un esempio ed una premessa di quel­lo che dovrà essere un sistema sanitario basato sulla «partecipazione» diretta degli interessati e sul ruolo sociale fondato sulla prevenzione che la medicina è chiamata a svolgere.

Con ciò i lavoratori ed i loro sindacati hanno infatti fornito anche un modello valido per tutta la società giacché, anche se nell'ambiente di la­voro il problema si presenta con maggiore dram­maticità ed urgenza e con più chiari e nitidi pro­fili conflittuali di classe, esso non è certamente assente in altri settori della sanità e dell'assi­stenza (e basti ricordare l'ospedale psichiatrico, l'assistenza agli anziani, la lotta contro gli inqui­namenti, la stessa gestione degli asili-nido, del­le scuole materne e degli altri servizi per l'in­fanzia) (...).

Non può sfuggire, in una concezione unitaria e globale di medicina sociale, meglio ancora di sicurezza sociale, la presenza di due componenti fondamentali, a loro volta spesso interdipendenti, e cioè quella socio-economica e quella psico-pe­dagogica. Non è possibile vedere l'intervento sa­nitario, sia di ordine diagnostico-terapeutico che, tanto più, preventivo, nell'ignoranza o nella tra­scuranza di fattori fondamentali quali la composi­zione familiare, il tipo d'abitazione, le caratteri­stiche economiche e ambientali del lavoro, il li­vello e la struttura della personalità e del grado di cultura, le modalità stesse dello sviluppo psi­cointellettivo nella famiglia e nella scuola (...) .

 

Maternità e infanzia

Le minorazioni infantili il più delle volte, di­vengono ufficialmente note allorché il fanciullo inizia a frequentare una collettività (asilo nido, ma più spesso scuola materna e scuola dell'ob­bligo), ponendo tutta una problematica che com­prende aspetti psico-pedagogici, sanitari, socio-­assistenziali. La medicina scolastica, alla cui os­servazione giungono le minorazioni fisiche, psi­chiche e sensoriali, ben poco può fare non solo per quanto riguarda la prevenzione, ma anche ai fini del recupero che avrebbe dovuto essere ini­ziato in epoca molto più precoce. È pertanto pos­sibile affermare che nella età scolastica si repe­riscono spesso le conseguenze della inadeguata protezione materno-infantile e della mancanza di continuità dell'intervento sanitario diretto alla popolazione in età evolutiva. In questa epoca del­la vita, caratterizzata da un estremo dinamismo di tutti i processi biologici, con un equilibrio in­stabile che facilmente può rompersi per l'inter­vento di tutta una serie di fattori sfavorevoli (as­senza di spazi attrezzati; difficoltà nei rapporti in­tersensoriali; inurbamento, ecc.), sia endogeni che esogeni, vi è la necessità di una particolare assistenza preventiva, sia unitaria sia psico-peda­gogica e sociale.

Limitando l'esame all'assistenza sanitaria, que­sta costituisce il compito istituzionale dei servizi di medicina scolastica, istituiti con DPR 11-2-1961 n. 264 e regolamentati con DPR 22-12-1967 n. 1518. Si tratta di disposizioni di leggi che attribuiscono a questi servizi tutte le moderne caratteristiche dei servizi di medicina preventiva: la gestione da parte degli enti locali, la iniziativa e la program­mazione necessarie per interessare una colletti­vità composta in gran parte da soggetti sani; la globalità dell'intervento deve interessare tutta la popolazione in età scolastica e l'ambiente in cui questa vive, la capillarizzazione delle strutture che devono raggiungere ogni singolo componente la collettività, l'educazione sanitaria necessaria ad ottenere l'attiva partecipazione degli utenti alla gestione della salute (...) .

I servizi di medicina preventiva, per essere validi, devono contare sulla partecipazione attiva e cosciente della collettività, in modo tale cioè che la prevenzione venga fatta non «sulla popo­lazione» ma «con la popolazione». A tal fine, condizione indispensabile è il decentramento della potestà legislativa relativa alla prevenzione. Secondo presupposto è che l'intervento preven­tivo diretto all'età evolutiva sia continuativo e unitario, senza cioè l'attuale suddivisione fra strutture che interessano la popolazione da 0 a 3 anni e altre rivolte alla popolazione da 4 a 14 anni; l'esperienza ha dimostrato che la settoria­lità degli attuali interventi costituisce una delle principali cause della loro inefficienza. La preven­zione diretta all'età evolutiva deve inquadrarsi in un sistema compiuto di sicurezza sociale, sì da poter essere integrata da un complesso di ser­vizi socio-assistenziali; è questa una esigenza in­derogabile che si evidenzia in modo particolare affrontando i problemi dell'assistenza all'età evo­lutiva e a quella involutiva.

Altrettanto indispensabile, per la completa sal­vaguardia della salute in questa epoca della vita, è la disponibilità di democratiche strutture edu­cative; gli interventi educativi dovranno allinear­si con quelli socio-assistenziali e sanitari fin dall'asilo nido; la scuola materna costituirà la con­tinuazione di questi interventi; la scuola dell'ob­bligo dovrà essere riformata in modo da essere a tempo pieno, decentrata e a gestione sociale. Sarà necessario disporre di personale sanitario in numero adeguato alle reali necessità e profes­sionalmente preparato non solo ai compiti speci­fici della prevenzione in senso tecnico, ma anche a compiti più vasti in senso sociale. Infine, dovrà divenire consapevolezza comune che qualsiasi struttura sanitaria destinata all'età evolutiva, per quanto democratica ed efficiente, non potrà ga­rantire appieno il diritto alla salute se la società non provvederà a eliminare quelle cause primarie che, a livello di territorio, costituiscono minacce permanenti.

 

Anziani

Il prolungamento della durata media della vita ha portato la popolazione in età 65 e oltre dall’1% circa (censimento del 1901) al 9% (censi­mento del 1961); oggi tale percentuale rispetto alle altri classi di età è del 12-13%. Il progressivo aumento delle persone anziane fa sì che i pro­blemi legati alla cosiddetta «terza età» rivesta­no una notevole importanza. Il ritardo col quale è stata affrontata la questione degli anziani ha de­terminato, in particolar modo nell'ultimo decen­nio, che la situazione assumesse toni critici tanto da far qualificare come «prioritari» gli interventi che devono essere rivolti a tale gruppo di popo­lazione. Gli interventi pur avendo una loro speci­ficità in quanto si riferiscono alla popolazione an­ziana, vanno inquadrati nelle scelte di politica so­ciale definite a livello generale. Al di là di una facile generalizzazione che vede nell'anziano il componente di un gruppo sociale omogeneo e ne ignora le altre variabili legate al censo, alla resi­denza, al grado di cultura e ad altre variabili che concorrono a diversificare le istituzioni indivi­duali, non si può non ignorare l'esistenza di dati obiettivi evidenziati da indagini e ricerche che si sono sviluppate, in particolare, a partire dagli anni '60.

Dalle indagini emergono due aspetti centrali: il primo si riferisce al raggruppamento della «ter­za età» in condizioni di salute compromessa; il secondo riguarda la mortalità differenziale di al­cune categorie di lavoratori anziani che, dopo qualche anno dall'andata in pensione, muoiono senza aver praticamente usufruito di quel diritto che faticosamente hanno costruito per tutta la vita. Entrambi gli aspetti sopra esemplificati e documentabili dagli elementi rilevabili dagli isti­tuti assicurativi e di previdenza sociale portano ad individuare nella storia lavorativa dell'indivi­duo la causa e la concausa sia di una senescenza precoce, quanto di una senescenza da invalido. La prevenzione dei danni alla salute psico-fisica degli anziani, quindi, passa in primo luogo attra­verso una modifica dell'organizzazione del lavoro.

Altri danni, purtuttavia, concorrono ad accele­rare i processi biologici d'invecchiamento. Que­sti si riferiscono in particolare alla caduta del reddito dell'anziano con l'ottenimento della pen­sione (1), all'assenza di una rete di servizi so­ciali che concorra a garantire all'anziano la sua permanenza presso l'ambiente al quale egli è le­gato affettivamente, all'affermarsi in maniera pre­potente di valori subordinati ad un determinato sistema produttivo che privilegia la distorsione dei consumi individuali rispetto a quelli sociali. La punta estrema di tale distorsione la si trova nel tentativo di risolvere il problema degli anzia­ni con l'invio di questi ultimi presso apposite istituzioni, che ai di là di tutte le altre considera­zioni che possono essere fatte inerenti alla vita convittuale e spersonalizzante, sono vere e pro­prie anticamere della morte.

Di fronte alla situazione che caratterizza la condizione attuale della popolazione anziana nel­la società occorre proporre valori e finalità che contrastino il pregiudizio culturale che vede l'an­ziano come un malato e propongano interventi ta­li da garantire la partecipazione sociale e un de­coroso tenore di vita all'anziano, ciò che d'al­tronde dev'essere assicurato a tutti i cittadini qualunque sia la loro condizione sociale e l'ap­partenenza ad altri gruppi di età. Tali finalità ge­nerali si realizzano garantendo adeguati livelli di prestazioni economiche previdenziali e rapporti di relazioni aperti e non emarginanti nei con­fronti dell'anziano.

In tale quadro le finalità specifiche si indivi­duano:

a) nel tutelare la salute della popolazione an­ziana, prevenendo la cronicizzazione di momen­tanei fatti morbosi generali, funzionali e psichia­trici. Oggi circa il 20% della popolazione in età 75 ed oltre presenta forme varie di cronicizza­zione e, comunque, non è in condizioni di auto­sufficienza;

b) nel fornire una gamma, assai varia nelle forme e diversamente articolata sul territorio, di servizi sociali che concorra a far sì che l'anziano non sia abbandonato a se stesso, non viva in iso­lamento, sia messo nelle condizioni di poter par­tecipare a parità di diritti alla vita quotidiana del­la comunità nella quale risiede.

Per il primo gruppo di finalità specifiche («tu­tela della salute della popolazione anziana») gli strumenti operativi devono essere rivolti a po­tenziare e sperimentare nuovi presidi sanitari che eliminino due strumenti odierni di croniciz­zazione, cioè le infermerie delle case di riposo e dei gerontocomi ed i cosiddetti reparti ed ospe­dali per lungodegenti. I presidi sanitari ai quali si fa riferimento non sono rivolti esclusivamente alla popolazione anziana, anche se obiettivamen­te essi possono essere una funzione assai positi­va nella tutela della salute degli anziani.

A livello di unità locale dei servizi sanitari e sociali tali presidi sono:

a) gli ambulatori ed i poliambulatori che fun­gono da filtro ad una eventuale prestazione ospe­daliera;

b) le unità di cura intensive ospedaliere;

c) i reparti di prima riabilitazione a livello ospedaliero;

d) i centri di riabilitazione funzionale e psi­chiatrica che possono essere collocati negli am­bulatori o nei poliambulatori dei distretti;

e) gli ospedali diurni con funzioni prevalente­mente di riabilitazione funzionale e d'igiene men­tale;

f) i servizi a carattere domiciliare (infermieri­stica, medica ospedaliera in modo da consentire dimissioni precoci dei pazienti anziani dall'ospe­dale per acuti).

Sempre a livello di unità locale i servizi so­ciali da erogare devono proporsi di:

a) limitare i ricoveri presso istituzioni chiuse;

b) offrire servizi sociali aperti, cioè prevalen­temente al domicilio dell'interessato e presso le strutture sociali del territorio;

c) offrire alternative concrete in termini di ser­vizi e/o di prestazioni economiche;

d) evitare al massimo il ricorso a strutture sa­nitarie ospedaliere;

e) evitare servizi sociali specifici per gli an­ziani. I servizi sociali devono essere in grado di rispondere alla domanda in generale della popo­lazione e non di gruppi di età di essa. Ciò al fine di non operare, sia pure involontariamente, di­scriminazioni tra i cittadini.

Particolare attenzione, però, dev'essere data, tenuto conto della situazione obiettiva nella qua­le versano i seminvalidi, nel predisporre servizi polivalenti (sanitari, sociali e culturali) che svol­gano in particolare il servizio di aiuto domestico per coloro che sono parzialmente o totalmente invalidi (in tali servizi rientrano gli alloggi con assistenza, i pasti a domicilio, i trasporti, ecc.). Gli strumenti operativi (servizi sanitari e socia­li) si saldano completamente od alternandosi con le prestazioni economiche previdenziali (...).

Di fronte alla problematica dell'anziano, l'indi­viduazione delle finalità generali e di quelle spe­cifiche permette di evidenziare il ruolo che la re­gione s'impegna di esercitare. Mentre tale ruolo è più diretto nei confronti della predisposizione e della definizione dei servizi sanitari e sociali, sarà indiretto per quanto riguarda i problemi del­le prestazioni economiche previdenziali. Per que­ste ultime la regione svolgerà una funzione pre­valente di stimolo e di sollecitazione del movi­mento intorno alla riforma delle pensioni in quan­to questa è di esclusiva pertinenza della legisla­zione statuale.

Per i servizi sanitari e sociali l'impegno della regione si muoverà predisponendo un piano ter­ritoriale dei servizi, secondo le procedure della programmazione previste nella regione; produ­cendo una analisi economico-finanziaria in termi­ni di costi e benefici; svolgendo un'attività di stu­dio e di ricerca sui bisogni, sulla loro possibile evoluzione, sulle possibili alternative in termini di servizi e/o prestazioni, sugli standards tipolo­gici ed urbanistici, ecc.; imprimendo impulso all'attività delle unità locali dei servizi sanitari e sociali affinché si dotino dei presidi necessari; formando i quadri necessari per far fronte alla espansione della rete dei servizi.

L'impegno, così articolato, vede quali tappe in­termedie:

a) la decronicizzazione delle case di riposo e dei gerontocomi dotandoli di servizi idonei, sia per gli invalidi che per gli autosufficienti; agendo questi servizi al quartiere, alla comunità in cui sono inseriti;

b) le dimissioni di tutti quei casi di ricoverati che possono essere assistiti in altro modo (cioè di tutti coloro che sono rinchiusi negli istituti per motivi economici) ;

c) l'avvio alla ristrutturazione degli attuali ser­vizi sociali e sanitari dei comuni in funzioni di servizi sociali di aiuto domestico, di servizi me­dici ed infermieristici domiciliari;

d) l'approntamento di programmi speciali di formazione accelerata di operatori sociali;

e) l'utilizzazione della nuova legge per la casa affinché siano riservate quote di appartamenti agli anziani nei programmi per la costruzione di nuove unità residenziali, nonché adattare alle ne­cessità di molte persone anziane case di vecchia costruzione, utilizzando così strutture che, so­prattutto nei centri storici delle grandi città, sono disponibili in assai larga misura.

 

Invalidi

Il problema dell'invalidità e degli handicappati investe larghi strati della popolazione, sia che si tratti di bambini o di giovani in età scolastica e pre-lavorativa, ovvero adulti rimasti invalidi a se­guito di infortuni o malattie da lavoro o di ferite per cause di guerra o di servizio, o per altre cau­se ancora. I cittadini invalidi ed handicappati vi­vono in modo particolarmente drammatico le con­traddizioni della nostra società; essi appartengo­no - insieme ad altri - alla categoria dei citta­dini emarginati ed esclusi, non soltanto dal pro­cesso produttivo, ma anche dall'esercizio di al­cuni diritti fondamentali, primi fra tutti quello al­la salute ed allo studio.

L'intervento assistenziale - tradizionalmente inteso - verso gli invalidi porta:

- alla discriminazione dei cittadini con la con­seguente classificazione dei soggetti in «recupe­rabili» e «irrecuperabili»;

- alla separazione delle categorie (ciechi, sordomuti, spastici, ecc.) con leggi specifiche per ogni tipo di minorazione ritenendo che le più im­portanti esigenze dell'individuo differiscano da un tipo di handicap all'altro;

- alla visione prevalentemente tecnicistica del problema, per cui occorre soltanto recuperare o riabilitare, cioè operare solo nella direzione te­rapeutica, trascurando del tutto quella preventi­va, il che finisce spesso col compromettere le stesse possibilità di riabilitazione;

- all'atteggiamento individualizzato e pietisti­co nei confronti delle persone i cui comportamen­ti non corrispondono ai modelli dominanti e alla repressione di tali comportamenti mediante la se­gregazione o altre misure coercitive;

- alla prevalenza di istituzioni a carattere di internato.

Se non si modifica radicalmente questa impo­stazione si possono ottenere al più miglioramen­ti del funzionamento dei servizi, mentre invece è necessario che il minor numero possibile di per­sone venga a trovarsi nelle condizioni che impe­discano o condizionino la loro maturazione per­sonale e la loro attiva partecipazione alla vita po­litica e sociale. Attraverso un complesso artico­lato di iniziative nei campi dell'istruzione, dell'o­rientamento e della formazione professionale, del lavoro, delle prestazioni economiche, si deve arrivare al completo recupero sociale dei citta­dini invalidi.

Mentre per il passato si tendeva a predisporre iniziative di legge specifiche per ogni tipo di mi­norazione, oggi si deve rifiutare ogni categoriz­zazione minuziosa degli handicappati, inquadran­do ali interventi sociali in una normativa unita­ria che affronti la complessa tematica in un qua­dro di soluzioni globali.

Per quanto riguarda gli interventi nel campo dell'istruzione, gli orientamenti sono precisi cir­ca la necessità di «integrare» l'istruzione e so­stituire l'educazione speciale con servizi per gli invalidi da assicurare nelle classi normali. L'edu­cazione integrata permette di garantire potenzial­mente in tutte le scuole dei servizi per gli invali­di, attraverso la fornitura di ausili tecnici e di personale itinerante, riducendo al minimo l'allon­tanamento dell'handicappato dalla sua famiglia. Ciò comporta che il sistema educativo normale prenda in considerazione le particolari difficoltà degli alunni minorati (sistemazione delle aule scolastiche, opportuni sussidi didattici, metodi educativi).

Nel caso di invalidi con minorazioni gravissi­me per i quali può ritenersi necessaria l'istruzio­ne presso classi speciali, queste ultime devono essere situate nel complesso scolastico normale. Per favorire e facilitare la frequenza nelle scuole pubbliche normali agli handicappati in età scola­stica, la legge n. 118 sugli invalidi civili, all'art. 28, elenca provvedimenti quali: il trasporto gra­tuito, il superamento delle barriere architettoni­che, l'assistenza durante gli orari scolastici agli invalidi più gravi; sono previste altresì norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche nella costruzione di edifici pubblici o di uso sociale. Finora però tale norma è rimasta a livello di prin­cipio, mancando l'adeguata strumentazione che la citata legge rinvia ad un successivo regolamen­to non ancora emanato da parte del governo.

Per rendere meno problematico il passaggio dalla scuola all'occupazione è necessario offrire al minorato un orientamento professionale che punti all'addestramento, alla qualificazione e ri­qualificazione del soggetto. I corsi formativi de­vono essere predisposti per tutti gli invalidi qua­le che sia il tipo di minorazione, a condizione che essi siano seguiti in questa loro attività di ap­prendimento da personale qualificato che li assi­ste specificamente a seconda della loro condizio­ne di invalidità o di handicap, e a condizione che tali corsi siano integrati in centri di orientamento e qualificazione professionale rivolti a tutta la popolazione. È necessario altresì garantire e tu­telare il diritto al lavoro a coloro che, pur non avendo una integrale e totale capacità di lavoro, partecipano al processo produttivo come forza attiva. In una situazione di carenza legislativa cir­ca le leggi sul collocamento obbligatorio al lavoro delle categorie predette, si osserva come il mer­cato del lavoro operi una pressoché totale discri­minazione nei confronti degli invalidi che difficil­mente possono reggere un «ritmo» produttivo generalmente insostenibile anche per gli altri la­voratori.

Per quanto riguarda le prestazioni economiche, la legge 118 prevede assegni e pensioni il cui li­vello varia a seconda dell'età e del grado di ina­bilità, ma che è certamente sempre al di sotto del cosiddetto «minimo vitale».

Si pone quindi con urgenza la riforma del siste­ma pensionistico e previdenziale, alla cui riven­dicazione partecipi, con forme unitarie di lotta, anche questo settore della popolazione, affinché sia data una base equiparativa alle pensioni so­ciali, retributive e di inabilità.

Il ruolo di massimo impegno che la regione de­ve svolgere - sia a livello amministrativo che legislativo - deve anzitutto concretizzarsi in in­terventi antistituzionali verso ogni settore della popolazione.

Ciò può essere attuato attraverso:

- il blocco delle costruzioni di nuovi istituti (per minori, handicappati e anziani);

- la progressiva eliminazione delle strutture di ricovero esistenti, con conseguente assorbi­mento da parte degli enti locali delle funzioni og­gi svolte dalle varie istituzioni (ONMI, ONPI, pa­tronati scolastici, IPAB, ECA, ecc.) ;

- la prevenzione dell'invalidità attraverso un controllo preventivo e sistematico dello stato di gravidanza e puerperio e tutela della maternità, soprattutto in relazione alle condizioni di lavoro della madre;

- l'istituzione di servizi alternativi coordinati allo sviluppo dei servizi sociali di base, assicu­rando la continuità delle prestazioni necessarie;

- l'abolizione delle classi differenziali e scuo­le speciali e inserimento delle classi speciali per gli invalidi più gravi nei plessi scolastici nor­mali;

- la qualificazione professionale a tutela del lavoro;

- la garanzia dell'autosufficienza economica.

Queste linee di intervento devono inserirsi nel quadro della politica sanitaria ed assistenzia­le a tutta la popolazione, operando un reale coin­volgimento dei cittadini per una gestione sociale aperta ed organica dei servizi sociali (casa - la­voro - salute).

 

Unità locali dei servizi sanitari e sociali

Un sistema sanitario e sociale di tipo nuovo ad indirizzo eminentemente di prevenzione trova la sua individuazione organizzativa nell'unità lo­cale dei servizi sanitari e sociali, intendendosi con tale locuzione un sistema il più possibile completo di servizi sanitari e sociali, responsabi­le dell'azione di un determinato territorio e atto a fornire alle popolazioni ivi residenti od operan­ti la garanzia di esercire nel loro interesse i ser­vizi di prevenzione, di cure - comprese quelle ospedaliere di base - e di riabilitazione, nonché tutti quegli altri servizi necessari per il buon fun­zionamento e per lo sviluppo della comunità. La identificazione di un ambito territoriale, univoca­mente definito sul quale operino i servizi dell'u­nità locale, è richiesta sia dal fatto che un servi­zio sanitario e sociale di tipo nuovo vuole operare contemporaneamente sull'uomo, sull'ambiente e sull'organizzazione della società che lo circon­da, sia dal fatto che un sistema sanitario e di ser­vizi sociali che opera a servizio della collettività e che assume caratteri di gestione pubblica deve essere chiaramente correlato con le istanze am­ministrative. Per questo non può non procedersi alla suddivisione del territorio regionale in com­prensori, su ciascuno dei quali operi una unità locale.

È da considerare un grave errore politico - ol­treché tecnico-funzionale - quello della suddivi­sione del territorio adottando in maniera esclu­siva metodiche di ottimalità di condizioni geo­morfologiche, economiche e sociali oppure se­guendo la linea della ricerca di bacini di popola­zione atti ad eliminare questo o quel presidio sa­nitario. Molti dei parametri che generalmente vengono impiegati per giustificare e predetermi­nare l'ottimalità di suddivisione del territorio in unità locali - quali la popolazione, la viabilità, la densità di popolazione, le condizioni geomorfolo­giche e via dicendo - sono tutte estremamente variabili, soprattutto in termini temporali. D'al­tra parte non pare possa sostenersi l'esistenza di una specificità esclusiva del settore sanitario e dei servizi sociali che renda rigida una delimita­zione territoriale rispetto ad un'altra. Deve invece sottolinearsi che, nell'attuale fase politica, la ter­ritorializzazione delle unità locali si pone, prima di tutto, in termini di volontà politica capace di produrre effetti trainanti e anticipatori la riforma sanitaria e l'assistenza sociale e per questo può dirsi che il comprensorio, prima e più che area di azione dell'unità locale, rappresenta un'area di territorializzazione politica.

La necessità di procedere nel concreto sulla strada della programmazione di settore ci indu­ce, coerentemente, non tanto a sforzarci di defini­re un modello astratto di unità locale, ma piutto­sto ad impegnarci a definire per contenuti un qua­dro generale di riferimento politico sulla base di un'ampia adattabilità, aperta ad ogni sperimenta­zione, tipica di un atteggiamento culturale che ha decantato astrazioni e modelli e che vuole, per contro, muoversi sul terreno della ricerca auto­noma e democratica, niente affatto rigida e pre­determinata a priori, ma decisamente inquadra­ta nella prospettiva di una direzione politica ben precisa. L'esame dei caratteri degli interventi sa­nitari e delle prestazioni sociali mostra la neces­sità di disporre, contemporaneamente, di servi­zi a carattere intensivo e di servizi a carattere estensivo, distinzione questa né tipica, né esclu­siva del mondo sanitario, ma riferibile ad altri settori e, in primo luogo, quello dei servizi socia­li. Basti infatti pensare, a questo proposito, al settore dell'istruzione e alle differenze che inter­corrono tra le strutture della scuola dell'obbligo, che hanno carattere estensivo, e quelle per l'in­segnamento medio-superiore ed universitario che, progressivamente, procedono verso un carat­tere intensivo.

La distribuzione sul territorio dei presidi sani­tari e di quelli sociali obbedisce a criteri di ottimalità - in termini di spazio e di tempi di per­correnza del medesimo - che sono certamente commensurabili con gli analoghi criteri di altri servizi. Ci si trova di fronte ad una estesa libertà di localizzazione dei servizi sanitari e sociali che trova vincolo, fondamentalmente, in due fatti par­ticolari. In primo luogo esiste la necessità di su­perare una soglia minima di popolazione servita che rende economicamente conveniente l'eroga­zione dei servizi, mentre, in secondo luogo, esi­ste l'obbligo di rendere i servizi effettivamente fruibili in piena uguaglianza da parte della totali­tà dei cittadini. Ne consegue che la soglia mini­ma predetta potrà variare soprattutto in relazio­ne alle condizioni geormofologiche e di assetto territoriale, con particolare attenzione alla distri­buzione della popolazione e alla rete di viabilità. Per questo i valori di soglia saranno certamente minori nei territori di montagna, crescendo in collina e ancor più in pianura, come anche saran­no maggiori là dove la popolazione è accentrata, decrescendo a misura che questa si disperde sul territorio. Deve però dirsi che oggi, proprio per la mancanza di precise esperienze, appare estre­mamente difficoltoso quantificare con esattezza i vincoli predetti, ma è possibile definirli soltan­to in via di prima approssimazione. Per questo non dovrà evitarsi, nel corso del tempo e dello sviluppo del servizio, la più attenta verifica di tutte le ipotesi di suddivisione del territorio ini­zialmente fatte.

Il rischio da evitare resta sempre quello, nel suddividere il territorio regionale in comprensori, di dar vita a strumenti tecnico-organizzativi di ti­po settoriale che operino scindendo la respon­sabilità politica di decisione e di gestione del settore sanitario dalla più generale responsabi­lità politica ed amministrativa del comune. A tal fine occorre, dapprima, verificare l'esistenza o meno di aggregazioni intercomunali alle quali sia possibile attribuire funzioni di direzione del ser­vizio sanitario e sociale, mentre è necessario, in caso di risposta negativa al precedente quesito, procedere ad aggregazioni intercomunali effet­tuate tenendo presente l'opportunità della loro utilizzazione per la programmazione di altri ser­vizi, oltre quello sanitario. A questo proposito si ricorda che anche le funzioni delegate in materia di sanità, igiene e assistenza saranno a loro vol­ta delegate ai comuni, che le gestiranno in forma associata. D'altra parte l'esistenza di frange di confine tra sanità ed assistenza suggerisce l'in­dividuazione di comprensori sui quali operino congiuntamente. Tali comprensori sono appunto le unità locali dei servizi sanitari e sociali.

I tentativi di pianificazione sanitaria fatti finora hanno teso ad esasperare il momento della sani­tarizzazione anche di situazioni che potevano es­sere risolte diversamente, al di fuori di struttu­re sanitarie (prevalentemente individuate come ospedaliere) e nelle quali, purtroppo, i pericoli di una «cronicizzazione» dell'individuo sono sem­pre maggiori e dove, obiettivamente, i connotati «totalizzanti» sono sempre presenti; anche se possono essere attenuati. La scelta fatta di esten­dere l'intervento sanitario anche laddove era con­sigliabile non ricorrervi, era dettata non solo dal­la necessità di non lasciare «zone scoperte» dell'intervento sociale ma anche da un ritardo con­cettuale obiettivo con il quale si muoveva il di­battito culturale e politico sulla ampia e assai complessa tematica assistenziale.

In particolare negli anni '50 e in parte degli an­ni '60 la ideologia neocapitalistica proponeva sug­gestioni efficientistiche quanto disumane sia nel campo della produzione che dei rapporti interin­dividuali. È l'epoca nella quale si teorizza l'insa­nabilità della rottura generazionale e il ricorso ad un razzismo silente come il minor male. Viene proposta, pertanto, una «nicchia» per tutti co­loro che sono improduttivi o nelle condizioni di non poter tenere dietro ai ritmi imposti dal pro­cesso produttivo: così l'anziano si pensa di rico­verarlo nei gerontocomi o nelle case albergo, l'illegittimo nei brefotrofi, il bambino con qualche lieve handicap nella scuola speciale, il bambino ritardato nell'istituto medico-psico-pedagogico, la prostituta nei ricoveri previsti dalla legge Mer­lin, il ragazzo irrequieto nell'istituto per caratte­riali, e così via. È l'epoca delle faraoniche quan­to inutili costruzioni di istituti; è il trionfo di tut­ta una gestione delegata dal potere pubblico ad équipes tecniche dove la «misuromania» veniva spacciata per indice di serietà scientifica.

Il dibattito di questi ultimi anni sui marginali e sul ruolo delle istituzioni assistenziali ha fatto ri­vedere criticamente tutta la materia, ha demoli­to assolutizzazioni pseudo-scientifiche, ha messo in crisi soluzioni semplicistiche prospettate nel passato (es.: l'IMPP, la casa-albergo, la casa di riposo, la casa di rieducazione, ecc.). Oggi la si­tuazione è pressappoco la seguente: l'intervento assistenziale, gli strumenti operativi di tale in­tervento (servizi sociali), si pongono l'obiettivo di rivolgersi a tutti i cittadini e non a «catego­rie» ben definibili come nel passato (gli illegit­timi, gli spastici, i vecchi, i ciechi, i sordomuti, gli invalidi, gli handicappati, ecc.) appunto per evitare che le categorie così come sono state de­finite finiscano con l'essere escluse dalla comuni­tà, anche se è ben chiaro che per alcuni cittadini occorreranno interventi specializzati; che però non debbono essere l'occasione per una nuova emarginazione. Tutti gli interventi, nei limiti del possibile, non debbono comportare permanenze presso istituzioni a carattere chiuso quanto ga­rantire l'intera gamma delle prestazioni a livello della residenza del cittadino attraverso servizi a carattere ambulatoriale e/o a carattere domici­liare.

Con ciò si realizzano diversi obiettivi:

a) la permanenza dell'anziano o dell'handicap­pato presso la famiglia e nell'ambiente presso il quale ha vissuto. Ciò gioca un effetto estrema­mente positivo per l'equilibrio psico-fisico dell'in­dividuo;

b) la possibilità di poter accedere a servizi re­sidenziali di zona o di quartiere permette di eser­citare non solo un efficace controllo sociale della collettività sul funzionamento di tali servizi, ma anche un pronto adeguamento degli stessi alle esigenze della popolazione. È la strada più inci­siva per forme di partecipazione e di autogestio­ne dei servizi;

c) la certezza di poter disporre servizi altamen­te sostituibili, per esempio a quelli sanitari, per­mette di prevenire situazioni traumatizzanti e gra­vide d'incognite;

d) la non istituzionalizzazione e il ricorso solo nella fase «acuta» alle tradizionali strutture sa­nitarie di ricovero permette un risparmio econo­mico di notevole entità che può essere manovra­to con duttilità per far fronte a situazioni non ipo­tizzate o che possono essere risolte attraverso prestazioni economiche.

Tutto ciò comporta da un lato una certa «eva­nescenza» nella definizione dei servizi sociali, dall'altro l'esigenza di caratterizzare tali servizi sociali in modo da realizzare la massima flessibi­lità per adeguarsi con tempestività a situazioni sociali che si modificano in tempi sempre più ri­stretti. Inoltre questa flessibilità di riconversione sta anche quale sinonimo di sostituibilità e di in­tegrabilità di servizi strettamente sanitari in ser­vizi sociali, in special modo per quelle aree cosid­dette di «frontiera» (es. la geriatria con la ge­rontologia, la pediatria con la puericultura, la neu­ropsichiatria con la psicopedagogia, ecc.). Nella misura in cui si realizzerà un coordinamento fun­zionale a livello di pianificazione territoriale dei servizi sanitari, sociali educativi e del tempo libe­ro tanto più si prospetteranno soluzioni di servizi pubblici differenziati. Un solo esempio vale a ren­dere più chiaro quanto sopra: se per gli handi­cappati si rifiuta la soluzione di rinchiuderli pres­so istituzioni sanitarie-educative occorre proget­tare un complesso di servizi sociali aperti e al­ternativi. Così si avranno ambulatori e centri di riabilitazione psico-motoria, servizi domiciliari, servizi di trasporto, inserimento anche con didat­tiche speciali dell'handicappato nel plesso sco­lastico della zona, ecc.

La interconnessione esistente tra i vari servizi collettivi del territorio pone l'esigenza di indivi­duare aree comprensoriali, che possono essere denominate variamente (es.: unità sanitarie lo­cali, unità locale dei servizi sociali assistenziali, distretto scolastico, centri culturali polivalenti, ecc.), e nelle quali si prefigge la realizzazione dell'obiettivo di garantire unitarietà e globalità di prestazioni ai cittadini residenti in quel compren­sorio dove la pianificazione dei servizi avviene in materia unitaria e non sulla base di competenze e di autorità amministrative diverse (es.: comu­ne, provincia, enti pubblici assistenziali, ministe­ri, ecc.). Quindi un'unità locale plurifunzionale che copre un determinato comprensorio territo­riale (ampiezza del bacino) e con una certa po­polazione (ampiezza demografica).

Allo stato dei fatti, il territorio della regione Emilia-Romagna ha già veduto il formarsi di ag­gregazioni intercomunali: ci riferiamo particolar­mente ai consorzi intercomunali di igiene e profi­lassi, alle comunità montane ed ai comprensori urbanistici. I consorzi intercomunali di vigilanza igienica e di profilassi hanno certamente rappre­sentato, a suo tempo, un interessante e positivo tentativo di sviluppare gli uffici sanitari là dove essi ancora non esistevano, soprattutto a causa dell'impossibilità per i singoli comuni a far fronte all'onere del servizio. Tuttavia non pare che la maglia territoriale dei consorzi sia suscettibile di costituire la base sulla quale sviluppare una rete di unità locali dei servizi sanitari e sociali. Si op­pone a ciò, in primo luogo, il sottodimensiona­mento in termini di popolazione servita ed inol­tre deve dirsi che il loro carattere di enti a di­mensione intercomunale di natura settoriale con­tribuisce a frammentare l'unitarietà della respon­sabilità politica.

Le comunità montane, a loro volta, sono carat­terizzate da compiti di intervento talmente estesi da consentire l'esercizio di una programmazione economica e pertanto non vi sono apprensioni in ordine al preoccupante limite di una settorialità dell'intervento. Tuttavia non pare che le loro cir­coscrizioni, in genere, siano significative ai fini dell'istituzione delle unità locali in considerazio­ne, particolarmente, delle difficoltà non ancora su­perate nei collegamenti intervallivi che appaiono tali da porre grossi dubbi in ordine a scelte di localizzazione di certi presidi - quali i poliambula­tori, molto spesso, e gli ospedali di regola - per i quali non può prescindersi dall'esigenza di fa­vorire l'accesso dei cittadini ai servizi restando entro limiti di spazio-tempo accettabili. Comun­que questa incertezza non deve esimere, là dove le comunità montane sono già un fatto formal­mente perfezionato e politicamente acquisito, di verificare l'oggettiva situazione dei collegamenti intervallivi e l'esistenza o meno di previsioni in ordine a nuove vie di comunicazione.

I comprensori urbanistici, infine, hanno origine dalla legge urbanistica del 1942. Nella regione es­si hanno trovato larga diffusione, anche se deve dirsi che le loro confinazioni hanno obbedito ad impostazioni differenti da provincia a provincia. Talvolta, infatti, si è fatto riferimento alle aree economicamente omogenee tal'altra, invece, si sono ricercati dei comprensori di servizio. Varia­no anche da provincia a provincia sia il loro livel­lo di perfezionamento formale - che si conclu­de con l'autorizzazione ministeriale alla formazio­ne del piano intercomunale - che la loro capaci­tà operativa. Siamo quindi di fronte ad una situa­zione piuttosto eterogenea sia per le dimensioni, che per il livello di perfezionamento formale, sia per il grado di operatività che, infine, per i carat­teri di aggregazione politica.

Questo esame, però, non può dimenticare le proposte formulate a conclusione dei lavori del CRPO, anche se non hanno portato ad individuare aggregazioni intercomunali. Non va certo dimen­ticata l'origine settoriale di dette proposte, mos­se dall'obbligo legislativo della formazione di un piano ospedaliero, né l'eccessivo rispetto per uno status-quo ospedaliero condizionato dall'azione generalizzata degli ospedali di conservare la loro area d'influenza così come di fatto determinatasi, senza verificare fino in fondo natura e funzione dell'ospedale nel contesto più generale di una re­te di servizi sanitari. Il risultato è stato l'indivi­duazione di aree d'influenza ospedaliera che non di rado raggruppano popolazioni in quantità tale da non consentire - salvo elevati ed ingiustifica­ti sperperi - l'istituzione delle unità locali.

In questa situazione - nella quale non possono evidentemente escludersi giudizi e indicazioni successive, che la regione potrà sempre precisa­re - è da ritenersi conveniente ed opportuno che il comprensorio urbanistico, come aggregazione intercomunale, venga sostenuto, potenziato ed esteso là dove ancora non esiste, tenuto conto sia del fatto che elevato appare il margine di er­rore in programmazioni settoriali di servizi ove non ci si ancori al territorio ed al modo come la popolazione vi è distribuita e tenuto altresì con­to, sulla base dell'esperienza, che il comprenso­rio urbanistico appare il tentativo più interessan­te e coerente di rispondere concretamente al pro­blema di costruire dal basso un'articolazione con funzioni generali di programmazione e di gestio­ne del territorio.

Pertanto, nell'intento di opporsi ad ogni ipotesi di rottura della unitarietà di responsabilità poli­tica nel comprensorio, che potrebbe essere cau­sata dal rinchiudersi in sé del settore sanitario e di quello dei servizi sociali, gli orientamenti sui quali ci si intende muovere per definire le confinazioni delle unità locali sono i seguenti:

a) là dove i comprensori sono già in possesso del decreto ministeriale di autorizzazione a predi­sporre il piano intercomunale e le loro dimensio­ni territoriali e di popolazione risultano congrue con quelle richieste dai servizi sanitari e sociali, il comprensorio sanitario e dei servizi sociali può coincidere con quello urbanistico, istituendo, di conseguenza, una unità locale per ogni compren­sorio;

b) là dove, invece, le dimensioni territoriali e demografiche del comprensorio urbanistico risul­tassero eccessive rispetto alle capacità operati­ve dei servizi dell'unità locale, il comprensorio sanitario può essere sottomultiplo di quello urba­nistico, istituendovisi di conseguenza più di una unità locale;

c) là dove i comprensori urbanistici non esisto­no o sono allo studio le relative proposte o il per­fezionamento formale non è ancora giunto all'e­manazione del decreto ministeriale di autorizza­zione, sarà necessario suddividere il territorio in comprensori sanitari sulla base di aggregazioni comunali, definite in modo da non contraddire eventuali proposte o richieste di autorizzazione in corso di perfezionamento, tenendo presente la possibilità che, in un secondo momento, il com­prensorio urbanistico si formi sulla base delle di­mensioni del comprensorio sanitario e sociale.

In tal modo comprensorio sanitario e sociale e comprensorio urbanistico vengono, di regola, a costituire maglie sovrapponibili, consentendo co­sì l'intervento di direzioni di organi, seppure di­versi, emanati sempre dagli stessi comuni. Nel procedere alla confinazione delle unità locali do­vrà tenersi conto della necessità che la soglia delle dimensioni territoriale e demografica sia tale da consentire la concreta programmazione dei servizi sanitari e di altri servizi sociali, in mo­do da evitare il sorgere di articolazioni interco­munali esclusive di un singolo settore di interven­to, ma non degli altri. Così operando potrà essere mantenuta la unitarietà di responsabilità decisio­nale e di direzione politica, condizione essenzia­le di una partecipazione democratica non forma­le, ma effettiva, perché ricca di poteri.

La conoscenza del grado di concentrazione e di dispersione della popolazione pone problemi notevoli di differenziazione delle unità locali con­cepite come plurifunzionali:

a) nelle aree metropolitane (riferimento al de­centramento amministrativo dei grandi comuni);

b) nelle aree coperte da piccoli comuni (rife­rimento a forme itineranti e a sedi decentrate);

c) nelle aree concepite da medi comuni.

È chiaro che tale quadro ideale va verificato nelle realtà locali. Infatti è assai diverso il proble­ma che si pone in una zona da decongestionare, in un'area metropolitana con una composizione demografica distribuita secondo la piramide delle età, da una zona di recente insediamento di un «kombinat» industriale e, pertanto, con una com­posizione demografica concentrata soprattutto nelle età giovanili.

Il fatto che nella precedente disamina del pro­blema comprensoriale, l'attenzione sia stata con­tinuamente portata sul comune non può, né deve, far dimenticare i compiti che, nel quadro di un servizio sanitario nazionale, spettano alla provin­cia. Non interessa soltanto definire quale contri­buto le province devono dare allo sviluppo della rete delle unità locali anche se, oggettivamente, esiste il problema di una ristrutturazione dei ser­vizi sanitari e di assistenza sociale dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Il tema centra­le è quello del ruolo che la provincia deve assu­mere nel contesto del servizio sanitario e sociale. Nessun dubbio vi è sul fatto che tra comune (ba­se di ogni strutturazione di rappresentanza de­mocratica e di qualsiasi seria iniziativa program­matoria) e regione (momento legislativo, pro­grammatorio e promozionale) occorre un anello intermedio. Questo si dice non in senso generale, ma in termini specifici derivanti da esigenze in­trinseche del settore sanitario e dei servizi so­ciali, dove si sente imperiosamente l'esigenza di un momento non solo di collegamento tra la vita di un certo gruppo di unità locale, ma soprattutto di coordinamento tra l'attività sanitaria e sociale e le altre iniziative settoriali, in modo da evitare distorsioni tendenziali, squilibri ed altre altera­zioni ad un sistema organico di programmazione e di intervento.

L'ente sede di questo momento intermedio non può essere certo la provincia quale oggi è, mor­tificata da una legislazione arcaica che fa di essa un insieme di servizi settoriali che si inseriscono nel territorio come funzioni verticali separate e che si muovono parallelamente - e quindi sen­za mai toccarsi - con simili funzioni dei comuni. Non possiamo però rimanere ancorati a questa situazione di fatto, ritenendo la provincia un ente immutabile. Al contrario essa può essere modifi­cata nei suoi compiti istituzionali per essere chiamata a funzioni di programmazione economi­co-sociale e di pianificazione territoriale a livello subregionale, a funzioni di promozione, coordi­namento e controllo di forme associate di ge­stione dei servizi con raggio di azione sopracom­prensoriale, a funzioni, infine, di coordinamento delle funzioni amministrative decentrate dalla re­gione ai comuni. In questo quadro si sta esami­nando l'opportunità che le previsioni programma­tiche delle singole unità locali - prima ancora, quelle che saranno chieste agli ospedali - siano verificate dalle province, non certo per creare un alto controllo, ma per consentire alle province stesse di esprimere il loro parere in merito, esa­minando in un più ampio contesto tutti i bilanci consimili e formulando suggerimenti, al fine di presentare alla regione, in maniera unitaria e glo­bale, quelle previsioni.

L'articolazione dei servizi sanitari e sociali sul territorio deve muoversi dal basso verso l'alto e ciò sia per rigoroso rispetto dell'impostazione fondamentale che prevenzione significa esame congiunto dell'uomo e dell'ambiente che su di esso influisce, che per favorire - come si vedrà in seguito - la partecipazione alla gestione del servizio (...) .

 

 

 

(1) La situazione pensionistica è nota: su 9.600.000 pensionati (alla fine del 1970), circa il 76% deve affrontare i pro­blemi dell'esistenza con entrate che vanno dalle 12 mila lire mensili della pensione sociale (sono 776.000 i pensionati sociali) alle 26 mila lire.

Nella regione Emilia-Romagna i pensionati di vecchiaia dell'INPS, alla fine del 1970 sono 429.426; di essi 190.416 sono lavoratori autonomi la cui pensione media si aggira sulle 18.600 lire mensili; la pensione media dei lavoratori dipendenti è invece di L. 32.000. Gli anziani che godono della pensione sociale sono 46.294.

 

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