Prospettive assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972

 

 

PROPOSTE DI LEGGE

 

NORME GENERALI SULL'ASSISTENZA E BENEFICENZA PUBBLICHE

 

 

PROPOSTA DI LEGGE N. 425 PRESENTATA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI IL 7-7-1972 DALL'ON. LODI E DA ALTRI PARLAMENTARI DEL P.C.I.

 

Relazione

Onorevoli Colleghi! - Questa proposta di legge vuole rispondere alla duplice esigenza di riformare profondamen­te tutto l'assetto istituzionale che va sotto la dizione «as­sistenza e beneficenza pubblica» e, nello stesso tempo, di attuare la IX disposizione transitoria e finale della Co­stituzione repubblicana.

L'ulteriore deterioramento della situazione esistente in questo settore che appare anche dalle statistiche ufficiali, ma che si evidenzia, soprattutto, dalle tristi esperienze umane delle masse popolari, dagli scandali a catena che hanno investito il settore, hanno rafforzato maggiormente la nostra convinzione sulla necessità di non proporre qual­che ritocco legislativo né una semplice ristrutturazione o riorganizzazione del settore, ma una profonda e radicale riforma che, in collegamento con le altre riforme, ponga il nostro paese fra quelli socialmente e civilmente più evo­luti.

La scelta del tipo di riforma che proponiamo nasce dal­le nostre convinzioni ideologiche, politiche e culturali, ma nel contempo, coglie le istanze e le proposte scaturite dai numerosi dibattiti che si sono svolti in questi ultimi tempi fra gli operatori del settore e fra le forze politiche che, nei consigli comunali, provinciali e regionali e nelle orga­nizzazioni della società civile, hanno assunto sull'argomen­to posizioni unitarie avanzate.

Prima di illustrare i contenuti della nostra proposta di legge, si rende necessario ripercorrere, sia pure veloce­mente, la evoluzione nel tempo delle concezioni che han­no guidato le attività assistenziali in Italia, sia per inqua­drare storicamente la situazione attuale che per esaminare i motivi per cui persiste nel nostro paese, più che altrove, quella complessa stratificazione di diverse esperienze, tra­dizioni e istituzioni che danno luogo a quel caos che regna sovrano in questo delicato settore della vita pubblica.

Se le fonti, sia storiche che ideali, della beneficenza si perdono nella concezione cristiana della caritas non v'è dubbio che è la società capitalista ad utilizzare quella con­cezione e a distorcerla ai suoi fini, per rendere più marca­to il suo dominio e più palese la sua supremazia.

Fin dal suo nascere il capitalismo ha provocato un pro­cesso di inurbamento delle popolazioni delle campagne spogliate di ogni possibilità di esistenza. Per frenare il malcontento dilagante, e derivante da questo processo, e per avere comunque a disposizione mano d'opera a basso costo, il capitalismo italiano ha offerto la sua protezione caritativa a grandi masse di poveri contadini, ridotti al ran­go di mendicanti, attraverso l'incremento delle istituzioni benefiche. E poiché il malcontento era più facilmente fre­nabile se i soggetti venivano isolati, si sono incrementati soprattutto gli istituti segreganti, specie quelli riservati agli «improduttivi» .

Per quanto celata dagli statuti di fondazione, la confer­ma che la vera finalità che il capitalismo attribuiva alle opere pie fosse quella di contenere i motivi di turbamen­to sociale e politico provocati dal pauperismo, ci viene dal­la prima legge sulla beneficenza approvata due anni dopo l'unità d'Italia (30 agosto 1862) dallo Stato borghese.

Seppure dopo l'unificazione d'Italia esistesse la neces­sità di unificare una legislazione che si presentava alquan­to difforme e contraddittoria, lo Stato liberale soddisfò a questa necessità senza assumere in proprio alcun compi­to assistenziale (come avevano fatto invece altri paesi eu­ropei), ma perpetrando il concetto di beneficenza soprat­tutto come mezzo per garantire l'ordine pubblico. Per cui la prima legge sulla beneficenza altro non è che la «lega­lizzazione» del concetto di isolamento e segregazione dei poveri (ricoveri e ospizi) per mantenere l'ordine pubblico minacciato dal malcontento degli indigenti. L'innovazione apportata sta nel fatto che, con questa legge, l'ordine pub­blico, anche attraverso le erogazioni caritative, è mante­nuto con il controllo dello Stato autoritario attraverso il prefetto e la polizia.

Questo concetto della beneficenza, purtroppo, non ap­partiene al passato, ma ha caratterizzato, senza soluzione di continuità, tutta la legislazione e la pratica dell'assisten­za in Italia.

Infatti, la legge successiva, ancora oggi in vigore, è quella sulle istituzioni pubbliche di beneficenza del 17 lu­glio 1890, n. 6972 e nacque con lo scopo dichiarato dal suo relatore alla Camera di «provvedere agli inabili al lavoro e alla repressione della mendicità come si era fatto l'anno prima con la legge sulla pubblica sicurezza».

Sotto il titolo indicativo «Disposizioni relative alle clas­si pericolose della società», l'articolo 81 della legge di pubblica sicurezza del 1889 così dettava: «gli individui ri­conosciuti dall'autorità locale di pubblica sicurezza, inabi­li a qualsiasi lavoro, privi di mezzi di sussistenza e di con­giunti tenuti per legge alla somministrazione degli alimen­ti, sono, quando non vi si provveda altrimenti, a cura delle autorità medesime, inviati in un ricovero di mendicità o in altro istituto equivalente».

Anche in questo caso una citazione che potrebbe appa­rire di carattere storico è invece attuale. Infatti sotto il ti­tolo «Disposizioni relative alle persone pericolose per la società», all'articolo 154 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza ancora oggi in vigore, si legge la stessa disposizione che era contenuta nella legge del 1889, con l'aggravante che il regolamento della legge attuale aggiun­ge che «qualora l'inabile di cui sia stato ordinato il rico­vero, non intenda stabilirsi nell'istituto o se ne allontani arbitrariamente, vi è accompagnato con la forza».

Affinché nessun organo dello Stato sfuggisse a questa concezione dell'assistenza, si è provveduto perché anche i comuni e le province vi si attenessero rigidamente. Ai comuni e alle province infatti sono affidati compiti di emar­ginazione e di isolamento dei cittadini poveri attraverso la legge comunale e provinciale (articolo 91) che indica fra le spese obbligatorie relative all'assistenza solo quelle ri­ferentesi al pagamento di rette agli istituti, ivi comprese quelle decise da altri (pubblica sicurezza e ONMI), consi­dera invece «facoltativo» (una facoltà peraltro legata ri­gidamente alle disponibilità finanziarie) ogni altro inter­vento di tipo sociale.

La beneficenza anche se codificata, esercitata da singoli, da organizzazioni private o di diritto pubblico, come atto di liberalità assume sempre un carattere discrezionale, fa­coltativo, non costituente diritto né derivante dal diritto, quindi essa rappresenta sempre, sul piano giuridico la tra­duzione del concetto morale di carità e, sul piano umano, la rinnovazione di un rapporto di inferiorità.

La necessità di sostituire all'atto di liberalità il diritto, fu avvertita innanzitutto dai lavoratori.

Le casse operaie di mutuo soccorso che sorsero nume­rose nel nostro paese alla fine dell'800 e agli inizi del se­colo (nel 1901 erano 6.535) costituirono uno dei momenti più importanti per la costruzione del movimento socialista e del movimento cattolico, ma per lo sviluppo di questa nuova forma di solidarietà di classe, non v'è dubbio che giocò un ruolo non secondario l'esigenza dei lavoratori di sottrarsi alla soggezione, alla discriminazione e alla pratica della beneficenza delle opere pie, cui frequentemente essi dovevano ricorrere.

Dalle casse operaie di mutuo soccorso nascono anche in Italia, com'era già avvenuto in altri paesi d'Europa, le assicurazioni obbligatorie.

Nei confronti della beneficenza, l'assicurazione obbliga­toria segna l'ingresso del «diritto» alla prestazione in so­stituzione della aspettativa; ma tale diritto è limitato ai so­li rischi assicurati, quasi sempre collegati alla attività la­vorativa e alla sua insicurezza. Tutti gli altri interventi as­sistenziali che investono il cittadino non in quanto lavora­tore, sono respinti dall'assicurazione sociale e rinviati an­cora agli enti di beneficenza e assistenza che soddisferan­no le esigenze assistenziali escluse dalle assicurazioni, con la solita estemporaneità delle prestazioni, con l'abi­tuale discriminazione e infine sempre con il concetto del bisogno da sovvenire e non da prevenire e neppure da ab­breviare nella durata.

Nel corso del suo sviluppo la società capitalista è stata costretta, dalle lotte e dalle conquiste del movimento ope­raio, a ridurre la fascia di indigenti, di poveri assoluti, che erano costretti a mendicare e a farsi nutrire dalla pubbli­ca o dalla privata carità, ma nel contempo ha allargato l'a­rea del bisogno relativo, cioè del bisogno strettamente con­nesso allo sviluppo della società stessa. Ma ai bisogni nuo­vi propri di una società in evoluzione si intrecciano biso­gni sorti non dallo sviluppo, ma dagli squilibri creati dallo sviluppo capitalistico.

La dinamica del processo produttivo ha determinato la trasformazione della struttura familiare (dal modello pa­triarcale, proprio della società contadina, al modello nu­cleare, caratteristico della società industriale) compor­tando la proiezione all'esterno, verso la società, di bisogni e problemi in precedenza affrontati e risolti all'interno del­la famiglia stessa. A questo proposito basterà solo ricor­dare le dimensioni nuove che vengono ad assumere i pro­blemi dell'infanzia e degli anziani.

Lo sviluppo disordinato della società ha accentuato la piaga della sottoccupazione e della miseria delle popola­zioni delle campagne e soprattutto del Mezzogiorno d'Italia, ponendo gran parte di esse nella condizione di non es­sere in grado di affrontare autonomamente anche i bisogni di una esistenza sobria e modesta.

Una delle mistificazioni più scandalose dei danni reali provocati dalla società è rappresentata senza dubbio dalla massa di disadattati che la società ha artatamente creato. Non ci riferiamo, ovviamente, ai casi che potremmo defi­nire patologici, ai minorati fisici e psichici gravissimi, pre­senti anche in altri tipi di società, per i quali semmai si do­vrebbe aprire il discorso della prevenzione. Intendiamo in­vece riferirci alle cifre sul disadattamento che vengono messe in circolazione, artatamente gonfiate, da chi ha in­teresse, anche per questa strada, a far ricadere sugli indi­vidui la colpa di non adattarsi ad una società che è disa­dattata agli uomini. A questo proposito è indicativa la con­fusione che si tende a fare fra handicappati (per conse­guenze motorie, cerebrali, eccetera) e disadattati, tale da comprendere nel dato che farebbe ascendere a più di 3 milioni i bambini affetti da minorazioni, i 2 milioni e mezzo di bambini definiti «disadattati del carattere e del compor­tamento» e gli «insufficienti mentali medi o lievi» nascon­dendo così, attraverso metodiche diagnostiche scientifica­mente molto discutibili, il vero obiettivo che sta nell'emar­ginazione di soggetti «anormali» soltanto perché devianti dalle norme tecnologiche, didattiche, produttive, urbanisti­che e sociali che la società capitalista si è data.

In questo caso, partendo da un bisogno vero, scientifi­co, obiettivo, legato alla medicina e alla biologia, ristretto però nel numero dei soggetti e ancor più riducibile con una politica sanitaria di vera prevenzione, recupero e ria­bilitazione, si è finito per ingigantire il problema creando un bisogno - quello dell'assistenza specializzata ai disa­dattati - che potremmo definire fittizio perché creato a misura del sistema, anche se il suo determinarsi ha posto inevitabilmente milioni di famiglie di fronte ad un bisogno per loro reale: quello di dover provvedere comunque all'istruzione, all'educazione, al mantenimento di ragazzi re­spinti ed emarginati dalla scuola e dalla società, ancor pri­ma di essere emarginati dal processo produttivo.

Infine, bisogna considerare che l'Italia può vantare nella Comunità europea oltre a tanti altri tristi primati, anche quello di avere il più alto numero di incidenti sul lavoro.

Gli invalidi del lavoro sono circa un milione e se a que­sti si aggiungono gli invalidi civili che si avvicinano ai tre milioni, si hanno cifre che da sole evidenziano i drammi umani che questi fatti scatenano: si tratta di un vero e proprio esercito di lavoratori espulsi anzitempo dalla produ­zione perché colpiti impietosamente dal sistema produttivo. Questi problemi non possono, anzi non debbono, essere risolti dal solo intervento assistenziale, poiché in questo modo si avrebbe solo un'attenuazione degli effetti, senza rimuoverne le cause, ma è innegabile che essi richiedono anche un intervento assistenziale, non inteso nel modo tradizionale. In ogni caso si tratta di problemi che né l'as­sicurazione contro i rischi né i tradizionali istituti di be­neficenza sono in grado di affrontare e risolvere.

In altri Paesi capitalisti lo Stato ha saputo tarsi carico dei nuovi bisogni sorti, o almeno di parte di essi; invece, una delle caratteristiche dello Stato italiano è proprio quel­la di non avere mai assunto, nemmeno di nome, la vesta di Stato sociale. Quando si è visto investire di responsabili­tà che non aveva in alcun modo previste, né pianificate, lo Stato non ha saputo far di meglio che continuare come ave­va iniziato: delegare ad altri le funzioni sociali.

Sfruttando secolari tradizioni, costumi e ideologie, lo Stato ha continuato a considerare la famiglia, anche dopo le profonde trasformazioni in essa avvenute, come l'unica responsabile di tutti i problemi degli improduttivi, asse­gnando alla donna soprattutto il ruolo di casalinga-servizio sociale, ottenendo in tal modo il duplice risultato di na­scondere le reali dimensioni della disoccupazione femmi­nile e di contenere la domanda di servizi sociali collettivi.

Non saremo certo noi (che abbiamo sempre sostenuto la necessità che i rapporti familiari siano basati sul libero svolgimento degli affetti e della educazione reciproca, che il mondo dei sentimenti prevalga su quello degli interessi economici e materiali) a negare la funzione della famiglia come nucleo di affermazione delle singole personalità, in cui anche il rapporto fra i suoi membri acquisti un più im­mediato contenuto affettivo e formativo. Ma i problemi dei bambini, degli anziani, degli invalidi, pur essendo problemi che debbono interessare e preoccupare le famiglie, non sono risolvibili né esauribili all'interno del nucleo familia­re poiché anziani, bambini e invalidi, in quanto cittadini, presentano esigenze sociali che debbono investire la so­cietà nel suo insieme.

Quando lo Stato non ha potuto delegare alla famiglia la soluzione di questi problemi, alle nuove responsabilità so­ciali che venivano delineandosi ha risposto con orientamen­ti e misure che potremmo definire ante-Costituzione Repu­blicana.

In primo luogo - come osservano gli assessori regionali in un documento approvato a Bergamo nell'aprile del 1971 - identificando nel Ministero dell'interno il centro coordi­natore dell'intervento assistenziale si è accentuato il ruo­lo storico dell'assistenza con finalità prevalentemente di­fensive, punitive, tese a sottoporre a controllo quelle si­tuazioni individuali e collettive risultate pericolose o con­flittuali rispetto all'ordine sociale.

In secondo luogo lo Stato, pur aumentando e complican­do sempre più il sistema dei controlli, anziché disfarsi del­la pesante eredità di enti e carrozzoni nazionali istituiti dal fascismo e restituire ai comuni le attribuzioni che era­no state loro sottratte, ha continuato sulla strada dell'ac­centramento, della mortificazione delle autonomie locali attraverso la proliferazione degli enti. In sostanza, a biso­gni nuovi, differenziati, si è risposto con l'istituzione di nuovi enti che, per la loro struttura verticale, per il loro congegno burocratico, non hanno mai saputo rispondere ai bisogni per cui erano sorti.

È venuta così a formarsi una vera e propria stratifica­zione geologica di enti, istituti, organismi. Formazioni anti­che e di più recente origine strettamente intrecciate fra loro hanno costituito un groviglio nel quale è difficile orien­tarsi. A fianco di istituzioni chiaramente ispirate allo sta­dio primario della beneficenza-carità operano infatti, spesso nello stesso ambito particolare di attività, enti che trag­gono vita dai princìpi e dai metodi assicurativi, pubblici o privati. Comunque, la caratteristica dominante delle une e delle altre rimane quella della segregazione e dell'isola­mento dei poveri e degli improduttivi.

A livello governativo, l'alta vigilanza sull'assistenza e beneficenza compete al Ministro degli interni, ma gli or­gani dello Stato che svolgono attività assistenziali e di controllo sono, oltre alla Presidenza del Consiglio dei mi­nistri, altri 11 ministeri, ma anche i rimanenti ministeri svolgono attività assistenziali sia pure a favore del perso­nale dipendente.

Gli enti nazionali di assistenza sociale sono 22 (19 enti di assistenza sociale, 1 ente con ordinamento autonomo ma dipendente dal Ministero degli interni - Amministra­zione aiuti internazionali -, 2 enti di emanazione previ­denziale - ONPI e ENAOLI). A questi enti bisogna aggiun­gere quelli istituiti ad hoc da quasi tutti i Ministeri. Il solo Ministero della difesa ha quattro enti nazionali per l'assi­stenza agli orfani.

Il poco edificante esempio governativo ha così favorito e sollecitato l'ulteriore istituzione di enti, tant'è che oggi solo per l'assistenza agli orfani (quasi sempre in istituti e collegi) esistono 28 enti nazionali che si aggiungono alle 840 istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza che ricoverano minori.

Nel riportare alcuni dati complessivi che abbiamo cer­cato di ricostruire rilevandoli da fonti diverse non possia­mo fare a meno di denunciare la mancanza di un'esauriente documentazione sugli enti, sulle loro rendite e sui loro pa­trimoni e sulle spese per l'assistenza pubblica.

 

Ministeri che svolgono attività assistenziali                         19

Enti pubblici nazionali di assistenza sociale                       22

Enti nazionali con compiti assistenziali                              23

Istituti pubblici di assistenza e beneficenza                    9.407

ECA                                                                           8.055

Centri di assistenza dipendenti da enti pubblici               5.718

Istituzioni caritative e assistenziali operanti nella                   

sfera d'azione della chiesa cattolica                             13.027

                                                                                36.271

 

Agli enti di cui sopra vanno aggiunti i comuni e le province.

 

Strutture fisiche che provvedono all'istituzionalizzazione (rilevate dall'annuario di statistica dell'assistenza e previ­denza del 1968, riferite al 1967):

                                   

Brefotrofi                                                                   104

Orfanotrofi                                                                 881

Istituti per minori poveri e abbandonati                         356

Istituti per anormali e minorati                                     216

Istituti per vecchi indigenti                                        1.808

Istituti per altre categorie                                            353

Istituti per varie categorie                                         1.848

Totale                       5.566

 

Categorie di cittadini che ricorrono alle prestazioni degli istituti:

 

Illegittimi                                                               69.245

Orfani                                                                   89.740

Poveri e abbandonati                                             85.920

Inabili e altri                                                          25.843

Anormali sensoriali                                                10.710

Minorati fisici                                                        23.011

Vecchi indigenti                                                   120.866

                                                                          431.395

 

Spese per l'assistenza (1967):                                                               

                                                                          Spesa

Soggetti operanti                                             complessiva             %

                                                                       (in milioni)

Pubblica amministrazione                                    349.953             32,0

Enti locali territoriali                                             344.299             31,4

Enti pubblici nazionali di assistenza                   101.446,4               9,3

Istituti assistenziali privati dotati o                                                      

meno di personalità giuridica                               76.669,3               7,0

                                                                    1.094.829,0           100,0

 

A queste cifre vanno aggiunte quelle per le pensioni so­ciali agli ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito che rappresentano un tipico esempio di prestazione economica assistenziale. Comunque, anche a voler trascurare l'ipo­tesi di una maggiorazione di spesa, valutabile realistica­mente in 200-300 miliardi, l'incidenza della spesa per in­terventi assistenziali rispetto al reddito nazionale è del 3,1 per cento. Una cifra consistente quindi, dalla quale ci si dovrebbe attendere un complesso di prestazioni assi­stenziali con uno standard qualitativo e quantitativo piut­tosto elevato.

Invece, l'ampio e complicato sistema di enti e istituzio­ni non è in grado di offrire che modestissime e insufficien­ti erogazioni economiche distribuite discrezionalmente ai poveri e abbondanti interventi «speciali» di tipo chiuso, con evidenti risultati di emarginazione.

Per quanto riguarda la legislazione, come si intuisce an­che dai dati, essa non ha fatto che aumentare la confusio­ne nella già caotica legislazione vigente in precedenza. Ab­biamo avuto una serie di provvedimenti estemporanei e marginali, con alternative di concessioni o di restrizioni secondo i casi, secondo la forza delle categorie che pone­vano questa o quella rivendicazione, secondo le circoscri­zioni politiche o elettorali. Nel segno perenne del «rinvio a tempi migliori» si è continuato a risolvere temporanea­mente, o a rimandare, una serie di problemi particolari, in­vece di affrontare radicalmente il sostanziale problema di fondo della riforma.

Il nutritissimo numero di enti, le centinaia di leggi, leg­gine, decreti e circolari, non hanno impedito che tanti bi­sogni rimanessero insoddisfatti perché non previsti dalle leggi o esclusi dalla competenza degli enti.

Questo stato di cose ha provocato frequenti scandali che hanno investito enti ed istituti pubblici e privati, cau­sando una dannosa sfiducia nelle istituzioni democrati­che dello Stato e un notevole ritardo nella presa di coscien­za dei propri diritti costituzionali da parte dei cittadini.

In questi ultimi anni però si è creata una situazione che contiene molti elementi di novità rispetto al passato, che ci ha convinti non solo sull'opportunità di presentare que­sta proposta di legge, ma sulla possibilità di affidarne il sostegno, non solo al nostro gruppo parlamentare, ma alle masse popolari del nostro paese. Citiamo soltanto alcuni elementi a conforto di questa nostra convinzione:

i cittadini, anziché peregrinare da un ente all'altro, si rivolgono sempre più frequentemente, per qualsiasi proble­ma di carattere sociale, allo Stato, a quelle strutture dello Stato democratico che sono loro più vicine: al comune e in molte città al quartiere. I compiti sociali attribuiti dai cittadini ai comuni sono inversamente proporzionali a quel­li che le leggi vigenti attribuiscono ai comuni stessi e so­prattutto ai mezzi finanziari di cui dispongono, ma sono an­che la corretta interpretazione dei princìpi costituzionali sia per quanto attiene ai diritti soggettivi dei cittadini, sia per quanto attiene ai compiti dei comuni. E questo è un indice del formarsi di una concezione nuova dell'assisten­za: un diritto per il cittadino, un dovere per lo Stato;

le lotte sindacali di questi ultimi anni mettendo in di­scussione non solo il rapporto lavoratore-ambiente di la­voro, ma anche il rapporto cittadino-società, hanno messo inevitabilmente in discussione l'attuale sistema assisten­ziale che non si pone neppure come correttivo degli squi­libri cittadino-società, ma per il suo carattere ha finito per divenire una componente degli squilibri stessi. La spinta alla partecipazione che è venuta dal mondo sindacale e studentesco, la richiesta di divenire soggetti (e non solo oggetto) delle riforme investe direttamente il campo dell'assistenza ove il cittadino più che in ogni altro settore è considerato oggetto passivo di interventi;

anche le categorie di cittadini più disagiate (poliomie­litici, spastici, invalidi) che fino a poco tempo fa usavano la loro modesta forza contrattuale per rivendicare qualche correttivo legislativo o qualche miglioramento assistenzia­le, senza rinunciare a sacrosante rivendicazioni di catego­ria, rifiutano sempre più il ruolo di «beneficati» per assu­mere quello di cittadini con pari dignità sociale rispetto a tutti gli altri;

a soli due anni dalla loro istituzione, le Regioni hanno già dato un contributo determinante affinché le forze poli­tiche abbattano vecchie concezioni per affrontare con deci­sione e coraggio il problema della riforma della assisten­za sociale. Un esame dei documenti unitari votati dagli as­sessori regionali e dai consigli regionali, sia sui decreti de­legati riguardanti la materia che sul tipo di riforma di cui il paese ha bisogno, ci permette di concludere che le re­gioni non hanno deluso i convinti regionalisti e si sono con­fermate portatrici di concezioni e di idee nuove che il Par­lamento deve saper cogliere;

non va sottovalutato, infine, il fatto che un numero sempre più consistente di operatori sociali, di tecnici, di medici, psicologi, pedagogisti, sociologi, rifiuta cosciente­mente il ruolo di professionisti dell'emarginazione sociale e di addetti all'assistenza di cittadini divisi in mille cate­gorie, spezzati per età, smontati per tipo di intervento cui il sistema li ha condannati, per assumere il ruolo più qua­lificante e gratificante moralmente di operatori al servizio dei cittadini, e si pongono l'obiettivo di adattare la società all'uomo e non viceversa.

 

*  *  *

 

La nostra proposta di legge si ispira ai princìpi fonda­mentali della Costituzione Repubblicana, sia per quanto ri­guarda la politica di assistenza sociale che va realizzata nel nostro paese sia per quanto riguarda i poteri delle re­gioni e dei comuni in questo settore.

Gli obiettivi generali della nostra proposta di legge si possono così riassumere:

a) la sostituzione dei concetti e della pratica della beneficenza pubblica con un sistema di servizi sociali che realizzi il diritto di ogni cittadino all'assistenza sociale, abolendo ogni forma di isolamento e di segregazione del singolo dalla comunità e garantendo il minimo vitale ai cit­tadini che, per qualsiasi ragione, non sono in condizioni di provvedere al proprio sostentamento;

b) il decentramento di tutti i poteri e di tutte le fun­zioni dello Stato nell'assistenza sociale, alle regioni e ai comuni, secondo i princìpi costituzionali del decentramento e dell'autonomia;

c) la riforma della legislazione vigente in funzione della qualificazione dell'intervento pubblico nell'assistenza che valorizzi compiutamente la personalità umana di cia­scun cittadino.

Nell'assegnare alle regioni la competenza esclusiva, le­gislativa e amministrativa che loro compete, abbiamo vo­luto indicare alcuni princìpi generali nell'ambito dei quali le regioni debbono esercitare la loro potestà. E questo non per un ossequio formale alla Costituzione, ma perché sia­mo convinti che se si vogliono superare gli squilibri esi­stenti anche in questo settore fra le varie zone del paese, occorre una uniformità di princìpi affinché ogni cittadino italiano, qualsiasi sia il suo luogo di nascita o di residenza, possa godere di eguali diritti.

I princìpi generali sono stabiliti agli articoli 1, 2 e 3. Agli articoli 1 e 2 si stabilisce il diritto per tutti i cittadini alle prestazioni di servizio sociale, superando la distinzio­ne fra il «cittadino» e il «povero» che, come ha precisato il consiglio regionale lombardo nel giugno del 1971, è una distinzione che viola l'articolo 3 della Costituzione (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale). D'altra parte l'istitu­zione di servizi riservati ai poveri riprodurrebbe al livello territoriale una emarginazione di classe, condannabile quanto la segregazione dei poveri in appositi istituti e, in ogni caso, tali servizi non potrebbero definirsi sociali se non fossero accessibili a tutti i cittadini.

Sappiamo che la carenza di servizi sociali nel nostro pae­se è tale da non potere essere colmata in poco tempo, ma il fatto che affidiamo alle regioni e ai comuni il compito di soddisfare questo diritto dei cittadini e nel contempo affi­diamo agli stessi cittadini, singoli e associati, il compito di partecipare democraticamente ai vari livelli di decisio­ne, di attuazione e di controllo garantisce la realizzazione, sia pure graduale, di questo principio.

Con il sistema pubblico di servizi sociali, stabilito all'articolo 3, intendiamo costruire una dimensione dell'asset­to civile del paese che garantisce il raccordo famiglia-so­cietà in termini di libertà (e per libertà intendiamo, ap­punto, l'inserimento totale nella società di tutti i cittadini).

La norma contenuta in questo articolo (eliminazione di qualsiasi intervento di natura segregativa o emarginante) è da ritenersi momento qualificante per una nuova politi­ca assistenziale. Siamo convinti, infatti, che anche se le regioni e i comuni con le loro leggi e i loro controlli riu­scissero ad evitare che si ripetessero all'interno degli isti­tuti gli arbitri, gli abusi di autorità, i veri e propri atti di violenza compiuti sui bambini o sugli anziani, ma non si impedisse che su una parte della popolazione si compisse il primo atto di violenza, il più grave, quello appunto di pri­varla della libertà di vivere con i propri simili nel contesto urbano e sociale abituale, non assolverebbero al compito di profondo rinnovamento concettuale dell'assistenza che i cittadini si attendono.

Impedire che un cittadino, solo per la sua condizione di origine (orfano, illegittimo, vecchio indigente, abbandona­to, disadattato sociale, minorato sensoriale) sia privato della libertà personale attraverso la segregazione, è uno dei princìpi cui le regioni dovranno attenersi.

La norma potrebbe apparire troppo rigida, ma se si pensa che anche oggi i casi di istituzionalizzazione dovreb­bero essere eccezionali. ma le eccezioni hanno finito ormai per colpire quasi mezzo milione di cittadini, ci si rende conto che, seppure il divieto alla segregazione non signifi­cherà l'uscita automatica e immediata dagli istituti dei cit­tadini già ricoverati, tuttavia impedirà che altri cittadini subiscano la stessa sorte e permetterà che, nel program­mare la rete di servizi sociali aperti, residenziali, domicilia­ri, a seminternato, le regioni e i comuni prevedano l'inseri­mento nella comunità di quanti ne sono stati ingiustamente esclusi.

Accanto alla norma che vieta la segregazione abbiamo indicato il divieto dell'emarginazione, anche come misura preventiva di qualsiasi pseudo-giustificazione per il rico­vero. L'emarginazione e l'isolamento di bambini in classi differenziali o in scuole speciali, l'emarginazione e l'isola­mento di vecchi indigenti, sono spesso l'anticamera che porta molti di loro, inesorabilmente, verso forme e strut­ture ancora più violente di emarginazione e di isolamento sociale, che con l'articolo 3 si vogliono eliminare. Tale eli­minazione sarà possibile nella misura in cui i servizi sociali territoriali, come si è detto, saranno integrati dai servizi sanitari e formativi di base.

Anche certe forme particolari di emarginazione - come le scuole speciali - seppure a volte hanno assolto al com­pito di evitare o di ritardare la istituzionalizzazione totale del bambino, riteniamo che debbano sempre più trasfor­marsi in servizi inseriti nel contesto generale della scuola e della società (classi speciali, laboratori, ecc.), in modo che il recupero e la riabilitazione dei soggetti colpiti da qualche minorazione siano un vero e proprio recupero so­ciale, oltre che fisico ed educativo.

Con queste norme, in definitiva, chiediamo che gli uo­mini siano accettati ed accolti nella comunità urbana, sco­lastica, sociale con tutti i valori di cui sono portatori, com­presi quelli non perfettamente funzionali alla produttività.

Al punto 2) dell'articolo 3, pur rinviando ad una succes­siva normativa la sua definizione, per la connessione con la riforma del sistema previdenziale che il problema compor­ta, abbiamo comunque voluto precisare come debbano es­sere intese le prestazioni economiche assistenziali e fissa­re un principio al quale dovrà attenersi la successiva nor­mativa. Il minimo vitale, sotto forma di pensione sociale, deve essere inteso non come un «sussidio» più elevato da concedersi ai poveri, ma come un intervento decisivo che, sotto forma di diritto, cominci a liberare almeno dal bisogno di sussistenza grandi masse di indigenti. Per evitare diseguaglianze, in un settore dove l'eguaglianza s'im­pone, riteniamo che si debba superare la divisione in cate­gorie. Il diritto ad avere i mezzi necessari per vivere non può dipendere o essere condizionato dalle categorie in cui la società ha finora diviso i cittadini (sordomuti, spastici, ciechi, invalidi, poliomielitici, ultrasessantacinquenni pove­ri, ecc.), ma deve essere eguale per tutti.

Stabilito questo diritto di eguaglianza, dovranno comun­que mantenersi ed estendersi particolari integrazioni al minimo vitale per alcuni tipi di minorazioni, quale ad esempio l'assegno di accompagnamento ai ciechi civili.

Se si presentano esigenze straordinarie, non soddisfa­bili con i servizi sociali di cui si è parlato, si dovrà inter­venire in modo straordinario ed in aggiunta a quanto ga­rantito dal minimo vitale. Questi tipi di interventi economi­ci straordinari potranno essere di breve o lunga durata, comprendenti in certi casi erogazioni integrative della pen­sione sociale, rapportandone la misura alle condizioni eco­nomiche del soggetto o della famiglia e interventi economi­ci eccezionali, anche una tantum, per affrontare situazioni di emergenza che si vengono a creare in singoli soggetti o famiglie.

La normativa generale per questi tipi di prestazioni do­vrà essere regionale, mentre la loro erogazione sarà com­pito dell'organo che meglio conosce le singole situazioni: il comune, singolo o associato, il quartiere.

La Carta costituzionale considera la nostra materia all'articolo 117: «la regione emana norme legislative nei li­miti dei princìpi fondamentali dello Stato in materia di be­neficenza pubblica e di assistenza sanitaria e ospedalie­ra...» ed all'articolo 118, primo capoverso «... spettano alle regioni le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo quelle di interesse esclusi­vamente locale».

La competenza statale si limita, quindi, ai princìpi fon­damentali, nell'ambito di questi la regione ha competenza legislativa e amministrativa esclusiva. Tale concetto è con­tenuto negli articoli 4 e 5, con i quali - togliendo le attri­buzioni in materia assistenziale ai vari Ministeri - si in­tende eliminare i vari conflitti di competenza e le duplica­zioni d'intervento finora avvenuti, i cui danni sono stati pa­gati dai cittadini, e trasferire la direzione e la responsa­bilità di tutto il settore ad un solo ente: la regione.

Il fatto che la Costituzione parli di «beneficenza pubbli­ca» non significa che le regioni abbiano competenza sol­tanto su una piccola parte di quello che noi intendiamo per assistenza. La Costituzione, stabilendo i diritti dei cittadini, indica chiaramente il diritto alla sicurezza sociale, verso la cui realizzazione si orienta la presente proposta di legge. Inoltre la qualificazione funzionale della regione emerge chiaramente nel nostro sistema costituzionale, per il quale la regione è essenzialmente l'ente che si occupa della po­litica dei servizi sociali sul territorio. La regione, infatti, ha competenza in materia urbanistica e di assetto del terri­torio, di trasporti, di viabilità, di assistenza sanitaria e ospedaliera, di istruzione artigiana e professionale. La re­gione è, cioè, il centro dei servizi sociali che interessano la collettività regionale.

In questa visione e per i motivi esposti in precedenza una interpretazione restrittiva della Costituzione impedi­rebbe alla regione di fare una politica globale dei servizi sociali sul territorio, che invece è chiaramente il compito e la funzione principale che ad essa è stata affidata dalla Costituzione. D'altronde apparirebbe veramente assurdo as­segnare potere legislativo alle regioni in una materia - beneficenza pubblica - nella quale, se circonchiusa in se stessa fuori dalla visione generale della Costituzione («as­sistenza e sicurezza sociale e parità di diritti e di dignità per tutti i cittadini») nella realtà italiana di oggi ci sarebbe ben poco da legiferare.

Poiché la vera azione preventiva del bisogno deve avve­nire ad un livello sociale organico (sviluppo economico, la­voro, scuola, sanità, urbanistica), è indispensabile che an­che l'intervento assistenziale - concepito soprattutto come prevenzione tendente ad evitare successivi e più gravi in­terventi - sia parte integrante della programmazione re­gionale (articolo 5).

Nello stesso articolo 5, pur stabilendo la necessità del­la creazione di un complesso di servizi sociali idoneo a soddisfare l'insieme delle esigenze sociali e assistenziali della popolazione non abbiamo voluto indicare né la deli­mitazione del territorio su cui opererà tale complesso di base né il numero minimo o massimo dei cittadini che se ne dovranno servire, perché una rigida precisazione in tal senso non avrebbe colto la varietà di realtà esistenti nel nostro paese e avrebbe mortificato sia la funzione della regione nella programmazione dei servizi sociali sia il di­ritto dei comuni a partecipare a tali scelte.

Nel momento in cui con la presente proposta di legge ci si pone l'obiettivo di trasferire alla regione e ai comuni il personale dipendente da altri organismi (articoli 4 e 9) e di qualificare l'intervento assistenziale in modo completa­mente nuovo, è necessario che la stessa regione provveda continuamente alla qualificazione e alla riqualificazione del personale addetto ai servizi sociali, sia in virtù dell'arti­colo 117 della Costituzione che affida alla regione i compi­ti di istruzione professionale sia perché in questo delicato settore l'attività del personale è determinante nella quali­ficazione e nel continuo adeguamento dei servizi sociali alle reali esigenze che presentano le popolazioni.

Agli articoli 5 e 6 mentre da una parte insistiamo sulla piena autonomia - in questo campo - delle regioni, dall'altra ci proponiamo una rivalutazione politica degli enti locali come centri democratici competenti e capaci di ge­stire globalmente la risposta alle esigenze sociali che sor­gono nel territorio. Volutamente non abbiamo indicato i tipi di servizi sociali che i comuni singoli o associati do­vranno istituire: essi saranno quelli che le differenziate esi­genze del paese richiederanno, che solo il livello più de­centrato dello Stato (comuni e quartieri) è in grado di in­terpretare correttamente. D'altra parte l'esperienza fatta anche da altri paesi dimostra che i servizi sociali non pos­sono essere statici, fissati una volta per tutte, ma devono essere dinamici se si vogliono soddisfare i bisogni della popolazione che si sviluppano e si modificano con lo svi­luppo e la trasformazione della società.

Uno degli scopi fondamentali della nostra proposta di legge è l'inserimento totale nella società di tutti i citta­dini. Perché i cittadini stessi possano conquistarsi e mante­nere tale diritto, non è sufficiente il garantismo del siste­ma classico della democrazia rappresentativa, quand'anche decentrata al livello locale o regionale, ma è necessario che partecipino alla gestione del «potere». E tale potere non può esaurirsi neppure nella partecipazione democratica alla gestione del complesso dei servizi o dei singoli servi­zi sociali, eventualmente ideati e decisi da altri, ma è ne­cessaria una partecipazione ai processi di decisione (com­presa quindi la programmazione al livello territoriale) di attuazione e di controllo, che abbiamo previsto nella pro­posta.

Nonostante che diverse regioni abbiano inserito nei lo­ro documenti la stessa dizione da noi usata al punto d) dell'articolo 6, poiché il problema è oggetto di dibattito e anche di preoccupazioni, cogliamo questa occasione per precisare la posizione del nostro gruppo sul problema dell'assistenza privata.

La Costituzione garantisce una pluralità d'intervento nel campo assistenziale che noi intendiamo rispettare.

I servizi sociali sono un diritto del cittadino che lo Sta­to deve garantire innanzitutto con una propria rete di ser­vizi, senza privare però il cittadino della possibilità che gli è data dalla stessa Costituzione di servirsi dell'assistenza privata. Quello che non possiamo accettare è che lo Stato si spogli di sue responsabilità, come ha fatto finora, per fare coprire da altri le proprie carenze. Con il sistema pub­blico di servizi sociali intendiamo anche liberare l'assisten­za privata dal compito gravoso che ad essa era stato asse­gnato, di coprire qualsiasi tipo di bisogno, che, conside­rando il suo evolversi, non poteva adempiere. Il fatto che lo Stato intervenga finalmente per dare avvio ai princìpi di giustizia sociale (cui parte dell'assistenza privata si ispi­ra) dovrebbe essere valutato in tutta la sua portata. Inoltre siamo convinti che un sistema moderno di servizi sociali, rappresentando un modello (fino ad oggi quasi completa­mente assente) con cui misurarsi, eserciterà una funzione stimolatrice di ricerca di forme nuove d'intervento, anche per l'assistenza privata, del cui risultato beneficeranno so­prattutto i cittadini e quindi la società nel suo insieme.

La difesa del diritto al rispetto della dignità della perso­na umana, non può essere affidata solo ai tribunali che tan­te volte in questi anni sono dovuti intervenire per punire chi tale diritto aveva calpestato, ma anche in questo caso occorre impedire, attraverso un'azione di prevenzione e di controllo, che tali fatti si ripetano. Per questo abbiamo pre­visto forme di controllo (articoli 5 e 7) sia per l'assistenza pubblica che per l'assistenza privata. A sostegno della ne­cessità che siano esercitate forme di controllo anche nei confronti dell'assistenza privata, riportiamo un brano di un documento, approvato a Bologna nel 1971 nel corso di un Convegno organizzato da diverse associazioni, che con­dividiamo completamente: «La libertà delle iniziative nel campo dell'assistenza, non può mai essere intesa come li­bertà da vincoli e da controlli; lo Stato, la regione, l'ente locale debbono essere sempre garanti di un servizio di pubblico interesse. Se i servizi gestiti da privati, sono uti­lizzati attraverso convenzioni ed erogazioni dirette, della loro gestione le istituzioni private dovranno rendere conto ai cittadini, allo stesso modo degli altri servizi sociali pre­senti nell'ambito dell'unità socio-assistenziale».

La finalità del sistema si sposta dalla neutralizzazione della pericolosità sociale, alla garanzia dei diritti sociali del cittadino. Quindi si comprende benissimo il nostro orientamento a togliere ogni competenza al Ministero degli interni. Ma considerando altresì la competenza esclusiva delle regioni in materia, ci sembra giusto che i compiti di orientamento e di indirizzo generale non siano affidati a qualche altro Ministero, ma al Consiglio dei ministri. Ad evitare comunque che questa assegnazione significhi l'istituzione di nuovi apparati, si è preferita la formulazio­ne usata all'articolo 8 di istituire un Comitato composto da rappresentanti regionali e dei comuni che dovrà assolvere ai compiti tradizionalmente svolti da uffici burocratici ed a quello di generalizzare le esperienze delle regioni.

Sul contenuto dell'articolo 9 dovremmo ripetere in par­te quanto già detto sugli articoli 4 e 5. Con l'articolo 9 in­tendiamo rimediare anche alle carenze del decreto dele­gato sull'assistenza che, trincerandosi dietro vecchie con­cezioni della beneficenza, di fatto ha negato alle regioni l'esercizio di un potere che ad esse è affidato dalla Co­stituzione. A nostro parere già il decreto delegato doveva, almeno, provvedere al trasferimento alle regioni di quei compiti che in precedenza lo Stato aveva delegato ad enti nazionali e al trasferimento degli uffici dell'amministrazione dello Stato. Poiché il decreto delegato non ha assolto a questo compito, tali trasferimenti sono previsti nella nostra proposta unitamente allo scioglimento degli enti, di cui all'elenco allegato.

All'articolo 9 sono previste due forme d'intervento: scioglimento di enti assistenziali nazionali e territoriali, sottrazione di compiti assistenziali svolti da enti e associa­zioni di categoria.

Sullo scioglimento degli enti, ci siamo trattenuti a lun­go in premessa e non è quindi necessario ripetersi. È im­portante sottolineare comunque che competenza ammini­strativa esclusiva della regione in materia assistenziale si­gnifica anche che non possono esistere enti pubblici na­zionali dipendenti dallo Stato e finanziati dallo Stato, poiché altrimenti non si avrebbe competenza amministrativa esclu­siva, ma limitata e condizionata da quella che si usa defi­nire l'amministrazione indiretta dello Stato.

Nel momento in cui assegniamo alla regione la compe­tenza in materia assistenziale non si può permettere la permanenza di enti la cui esistenza priverebbe la regione di una parte di mezzi finanziari (a loro devoluti) e lasce­rebbe aperta una strada alquanto pericolosa. Infatti, la lo­ro permanenza potrebbe autorizzare ad istituire altri enti, e sulla strada dell'istituzione di enti nazionali lo Stato, al li­mite, potrebbe sottrarre tutti i compiti di assistenza socia­le alle regioni.

Poiché l'unico centro per l'istituzione e la gestione dei servizi diviene il comune, anche gli enti autarchici territo­riali come ad esempio gli ECA e le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza sono sciolti. Ciò non significa che la capacità e le esperienze acquisite da singoli e da gruppi debbano andare disperse. Sarà cura dei comuni uti­lizzare tutte le esperienze di programmazione, di studio, di istituzione e gestione di servizi sociali acquisite nel cor­so di questi anni.

L'atteggiamento finora assunto dallo Stato, come si è ampiamente documentato in premessa, è stato quello di spogliarsi di proprie responsabilità sociali, a volte istituen­do enti e, spesso, assegnando ad associazioni di categoria compiti di assistenza pubblica, che le associazioni hanno svolto, a volte con scarsi mezzi finanziari a loro disposizio­ne, a volte apprestando apparati burocratici che assorbiva­no la maggior parte delle somme per l'assistenza; in ogni caso senza mai poter verificare eventuali duplicazioni di interventi assistenziali e dannose esclusioni. Con il quarto comma dell'articolo 9 si vuole restituire alle associazioni di categoria il compito di difesa e di promozione sociale degli aderenti, di rendere libera l'adesione ad una associa­zione, non vincolandola alle erogazioni assistenziali e di garantire ad ogni cittadino - indipendentemente dalla ca­tegoria cui appartiene o all'associazione cui aderisce - pari dignità sociale. Poiché ogni associazione è regolamen­tata da decine di leggi e leggine si è reso indispensabile affidare ad una commissione parlamentare l'esame attento della questione. In ogni caso entro un anno, agli enti e as­sociazioni non compresi nell'elenco allegato, dovranno es­sere sottratti i compiti di assistenza pubblica che, con que­sta proposta, sono assegnati alle regioni e ai comuni.

L'articolo 10 può apparire limitativo dell'autonomia re­gionale e comunale, facendo obbligo alle regioni e ai co­muni a destinare tutti i mezzi e i patrimoni di cui vengono a disporre con gli articoli 9 e 10 della presente proposta, esclusivamente all'assistenza pubblica, ma ciò si è reso necessario per non gravare la proposta di legge di ulteriori oneri finanziari e per utilizzare per intanto più razional­mente i mezzi finanziari e gli strumenti di cui già dispone il settore.

Nella norma transitoria abbiamo previsto la maggiora­zione del fondo comune per le regioni di una serie di ri­sorse finanziarie dello Stato finora disperse in mille rivoli. Tali risorse dovranno essere destinate ad un primo finan­ziamento della presente legge. Abbiamo inserito questo provvedimento in una norma transitoria poiché riteniamo che sarebbe sbagliato prevederne la permanenza all'infini­to, infatti la destinazione rigida di somme per settori d'in­tervento, sia pure con una suddivisione fatta sulla base di una legge dello Stato, finirebbe col togliere ogni autono­mia di ripartizione della spesa al livello regionale e anche locale. Pertanto la norma transitoria avrà valore fino a quando il problema non sarà risolto attraverso la program­mazione regionale e nazionale.

Onorevoli colleghi, l'urgenza di giungere al più presto alla discussione e all'approvazione della presente proposta di legge è raccomandata dalla gravità della situazione che abbiamo denunciato, ma più ancora dalla necessità di giun­gere a misurare il livello di sviluppo del nostro paese dalla condizione civile e sociale che sapremo garantire ai suoi cittadini.

 

 

Testo della proposta di legge

 

Art. 1.

In attuazione delle norme costituzionali concernenti l'as­sistenza e la beneficenza pubblica ed allo scopo di assicu­rare ad ogni cittadino il diritto al pieno sviluppo della pro­pria personalità, la Repubblica organizza idonei servizi so­ciali ed attua i necessari interventi economici.

 

Art. 2.

Le prestazioni di servizio sociale spettano a tutti i citta­dini italiani ed ai cittadini stranieri che si trovano sul ter­ritorio italiano.

 

Art. 3.

Quanto previsto dall'articolo 1 si realizza:

1) con un sistema pubblico di servizi sociali territo­riali integrati con i servizi sanitari ed i servizi formativi di base, qualificati come servizi sociali aperti, prevalentemen­te residenziali, domiciliari, a seminternato, con l'elimina­zione di qualsiasi interventi di tipo segregativo od emargi­nante, volti a mantenere nelle comunità familiari e civili tutti i cittadini ed al recupero e al reinserimento in esse di quanti, per diverse cause, ne sono stati esclusi ed hanno, sino ad oggi, fruito di un diverso trattamento;

2) con prestazioni economiche assistenziali:

a) ordinarie, sotto forma di pensione sociale, a tutti quei cittadini che per età, inabilità o per altri motivi indipendenti dalla loro volontà - e che non fruiscono di trattamento assicurativo previdenziale - non possono ac­cedere al lavoro e siano sprovvisti dei mezzi necessari per vivere;

b) straordinarie, per quei cittadini che si trovino in temporanea esigenza di prestazioni economiche.

Le prestazioni economiche assistenziali ordinarie sono definite con apposita legge dello Stato.

Le prestazioni straordinarie sono disciplinate con leggi regionali.

 

Art. 4.

Spettano alla regione la potestà legislativa e le funzioni amministrative riguardanti il sistema di servizio sociale, a norma degli articoli 117 e 118 della Costituzione, secondo i princìpi della presente legge.

Con l'entrata in vigore della presente legge decadono tutte le attribuzioni in materia di assistenza e beneficenza e attività ad esse inerenti della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero degli interni, degli altri Ministe­ri e di ogni altro ente ed organo periferico da essi dipen­dente.

Il personale di questi uffici ed enti è trasferito alle re­gioni.

 

Art. 5.

La Regione attua le finalità contenute negli articoli pre­cedenti mediante l'elaborazione - d'intesa con i comuni - del programma degli interventi pubblici assistenziali, coordinato con gli obiettivi generali dello sviluppo re­gionale.

La regione con propria legge:

a) fissa le norme generali per la istituzione, la orga­nizzazione e la gestione da parte dei comuni singoli o associati del complesso unitario di base dei servizi sociali, idoneo a soddisfare l'insieme delle esigenze sociali e assi­stenziali della popolazione, a garantirne il carattere decen­trato e la partecipazione diretta dei cittadini;

b) promuove, in accordo con i comuni, la ripartizione del territorio in comprensori comunali e intercomunali;

c) fissa i livelli e le forme delle prestazioni, privile­giando gli interventi diretti alla prevenzione;

d) assicura la qualificazione e la riqualificazione del personale e la necessaria assistenza tecnica per i servizi sociali pubblici;

e) definisce le forme di intervento nelle attività assi­stenziali e sociali pubbliche e private, in conformità alle norme degli statuti regionali.

 

Art. 6.

I comuni singoli o associati:

a) assicurano l'esercizio degli interventi sociali se­condo le finalità generali della presente legge e secondo la normativa regionale attraverso la gestione diretta e de­centrata del complesso dei servizi sociali localizzati nel loro territorio;

b) assicurano il diritto fondamentale dei cittadini di partecipare alla gestione del complesso di base dei servizi sociali e dei singoli servizi, a tutti i livelli e nei vari mo­menti di decisione, operativi e di controllo, attraverso l'in­tervento delle famiglie e delle rappresentanze delle forma­zioni organizzate nel territorio;

c) concorrono alla formazione degli obiettivi del pro­gramma regionale di sviluppo dei servizi sociali di cui all'articolo 5 della presente legge;

d) stipulano, se del caso, convenzioni con istituzioni private di assistenza capaci di erogare prestazioni conformi a quanto stabilito dalla normativa regionale con esclusione assoluta di quelle che agiscono a scopo di lucro.

 

Art. 7.

I consiglieri comunali e provinciali, i consiglieri della regione e i membri del Parlamento possono, in ogni mo­mento, effettuare sopralluoghi all'interno dei servizi di as­sistenza pubblica e privata per assicurare che negli stessi siano osservate le condizioni essenziali di civiltà e di ri­spetto della persona umana.

 

Art. 8.

È istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri un comitato consultivo per lo svolgimento di studi e ricer­che, per la raccolta di informazioni e per la formulazione di proposte in materia di servizi assistenziali, al Parlamen­to, al Governo e alle regioni.

Il comitato è formato da:

3 esperti nominati dal Presidente del Consiglio;

3 esperti nominati dall'Associazione dei comuni d'Italia;

10 rappresentanti delle regioni indicati dalla commis­sione interregionale di cui all'articolo 13 della legge 16 maggio 1970, numero 281.

Il Comitato si rinnova ogni 5 anni.

 

Art. 9.

Con la presente legge sono sciolti gli enti nazionali di assistenza secondo l'elenco allegato.

L'«Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali» è soppressa.

Il personale e gli uffici degli enti di cui al comma 1 e 2 del presente articolo sono trasferiti alle regioni, le funzioni amministrative esercitate da detti enti sono assunte dalle regioni.

Per quanto riguarda gli altri enti o associazioni nazionali che attualmente svolgono funzioni assistenziali assieme a funzioni diverse, viene istituita una commissione composta da 10 deputati e 10 senatori nominati dai Presidenti della Camera e del Senato sulla base delle designazioni dei grup­pi parlamentari, con il compito di definire entro un anno l'elenco di tutti gli enti e associazioni cui devono essere sottratti i compiti assistenziali definiti dalla presente legge.

Gli enti comunali di assistenza, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza regolate con la legge 17 luglio 1890 n. 6972 e successive integrazioni e modificazioni sono sciolte e le relative funzioni sono attribuite ai comuni, gli uffici ed il personale sono trasferiti ai comuni nel cui ter­ritorio ha sede legale l'ente.

I patrimoni immobiliari e le relative attrezzature degli enti di cui all'allegato A e quelli dell'Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali, sono trasfe­riti alle regioni nel cui territorio sono localizzati.

I patrimoni immobiliari e le relative attrezzature degli enti comunali di assistenza e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza sono trasferiti ai comuni nel cui territorio sono localizzati.

I beni di cui ai precedenti commi debbono essere desti­nati all'assistenza pubblica nei modi e nelle forme previsti dall'articolo 5 della presente legge anche nel caso di tra­sformazione patrimoniale.

 

Art. 11.

Le contribuzioni a carico dei pensionati INPS e dei lavo­ratori dipendenti, destinate al finanziamento dell'Opera nazionale pensionati italiani e dell'Ente nazionale assistenza orfani lavoratori italiani, sono soppresse.

 

Norma transitoria

Art. 12.

Per fare fronte alle spese derivanti dalla presente legge, fino alla data di promulgazione della legge sulle procedure della programmazione per la determinazione dei piani di sviluppo economico, con l'entrata in vigore della presente legge, il fondo comune, di cui all'articolo 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281 è maggiorato:

a) di tutti gli stanziamenti iscritti nei bilanci della Presidenza del Consiglio dei ministri e di tutti i Ministeri in capitoli di spesa per attività di assistenza e beneficenza pubblica;

b) dell'importo dei contributi ordinari e straordinari a favore di enti pubblici e privati di assistenza e benefi­cenza, comunque erogati dallo Stato;

c) dei patrimoni finanziari dell'AAI, degli enti nazio­nali soppressi, costituiti da obbligazioni, azioni e altri ti­toli, depositi bancari e liquidità monetaria;

d) degli utili delle lotterie nazionali.

 

Norma finale

Art. 13.

Sono abrogate le seguenti leggi: legge 17 luglio 1890, n. 6972 (IPAB); decreto-legge 23 marzo 1948, n. 327 (ENAOLI) ; legge 3 giugno 1937, n. 847 (ECA); decreto legislativo luogotenenziale 22 marzo 1945, n. 173 (Comitato provinciale assistenza e beneficenza), testo unico 24 di­cembre 1934 (ONMI); decreto-legge 23 marzo 1948, n. 361, e tutte le altre disposizioni contrarie a quelle previste dalla presente legge.

 

Allegato

 

1) Amministrazione per le attività assistenziali italiane e internazionali (AAI).

2) Opera nazionale per la protezione e l'assistenza del­la maternità e infanzia (ONMI).

3) Opera nazionale pensionati italiani (ONPI).

4) Ente nazionale assistenza orfani lavoratori italiani (ENAOLI).

5) Ente nazionale per la distribuzione dei soccorsi in Italia (ENDSI).

6) Commissariato per la gioventù italiana - ex GIL (GI).

7) Fondazione figli degli italiani all'estero (FFIE).

8) Opera nazionale di assistenza all'infanzia delle regio­ni di confine (ONAIRC).

9) Opera nazionale per i figli degli aviatori (ONFA).

10) Ente nazionale di lavoro per i ciechi (ENLC).

11) Ente nazionale per la protezione morale del fanciullo (ENPMF).

12) Istituto nazionale di beneficenza «Vittorio Emanuele III».

13) Istituto nazionale «Umberto e Margherita di Savoia».

14) Opera nazionale per l'assistenza degli orfani dei sanitari italiani (ONAOSI).

15) Unione italiana di assistenza all'infanzia (UIAI).

16) Ente nazionale di assistenza per gli orfani ed i figli dei militari della guardia di finanza (ENAOMGF).

17) Istituto «Andrea Doria» per gli orfani dei marinai morti in guerra o per cause di guerra.

18) Istituto di arti e mestieri per orfani dei lavoratori italiani caduti in guerra «F.D. Roosevelt».

19) Opera nazionale di assistenza per gli orfani di mi­litari di carriera dell'esercito.

20) Opera nazionale di assistenza per gli orfani di mili­tari dell'arma dei carabinieri (ONAOMAC).

21) Opera nazionale di assistenza per i figli dei vigili del fuoco.

22) Opera nazionale per il Mezzogiorno d'Italia.

23) Opera nazionale per le città dei ragazzi (già Opera per il ragazzo della strada).

24) Ente di assistenza orfani agenti di custodia.

25) Opera nazionale per l'assistenza agli orfani di guerra anormali psichici (ONAOGAP).

26) Fondazione pro juventute «Don Carlo Gnocchi».

27) Associazione nazionale mutilati invalidi civili (AM­NIC).

28) Opera nazionale orfani di guerra (ONOG).

 

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