Prospettive assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

I RAPPORTI CHIESA-MONDO E IMPEGNO SOCIALE DEI CRISTIANI PER UN RIESAME DEI PROBLEMI DAL PUNTO DI VISTA CRISTIANO

 

Con questo titolo è apparso nella Rivista di Servizio Sociale (n. 3/1972) un articolo di Gianni Macchiavelli di cui pubblichiamo alcuni stralci.

La stessa rivista presentandolo e riferendosi alle recenti prese di posi­zione della C.E.I. (Vedi Prospettive assistenziali 19) dice dell'autore che ha il merito di togliere ogni alibi ad una attività assistenziale che ha precisi connotati politici «in un momento in cui, anche in corrispondenza di una congiuntura politica favorevole, taluni ambienti hanno iniziato una massiccia azione per vedere garantite posizioni di potere, assicurando in cambio permanenza di indirizzi e prassi di intervento».

(...) La prospettiva della Chiesa di fronte allo Stato, risulta molto chiara:

1. Lealmente gli deve tutto quanto è necessario alla sua vita, evitando ogni tentazione sostitutiva che si risolve sempre, a lunga o breve scadenza, con l'assumere compiti che non le sono propri (tutto ciò che esula dall'annun­cio dell'Evangelo e dalla messa in pratica di questo, non è proprio della Chiesa in quanto tale; certamente sarà compito dei cristiani, in quanto uo­mini redenti in modo del tutto speciale ed impegnativo, ma non della Chie­sa, neppure della Chiesa istituzionale);

2. Deve mantenersi in una posizione di libertà critica (libertà che non si conserva certamente inserendosi nelle strutture di un certo tipo di Stato in chiave di potere), pronta a denunciare eventuali slittamenti dello Stato con pretese totalitarie e globali sull'uomo (...).

Le società temporali non possono essere «anonime» ad ogni costo e sotto tutti i punti di vista anche quando, per esempio, comprendono dei cri­stiani. Qual è il compito dei cristiani in questo caso? Nessuna distinzione ed etichetta, se non un impegno attivo più forte, più cosciente e totale de­rivante dalla propria fede. I cristiani, con un rispetto infinito per la libertà di tutti e per la natura propria e limitata delle associazioni alle quali aderi­scono come uomini, hanno il diritto-dovere di una testimonianza concreta, con sensibile attenzione a non provocare col loro atteggiamento ulteriori fratture, invece di comporle. Resta quindi evidente, a mio parere, che è proprio dell'attività libera e responsabile dei cristiani in quanto uomini, e non della Chiesa in quanto tale, il compito di svolgere attività umane e uma­nizzanti. Quando la Chiesa tenta di inglobare a pieno diritto (e poi di conse­guenza eliminare) l'elemento intermedio «laico» al fine di «sacralizzare» la vita secolare, finisce inevitabilmente per arrivare all'opposto: «secola­rizza» se stessa.

Molti nella chiesa, ancor oggi, obbiettano che ci sono delle circostanze storiche nelle quali si riscontra un vuoto d'autorità o la presenza di una struttura sociale incapace di far fronte ai reali bisogni; in tali congiunture la struttura ecclesiastica si sente sospinta ad imporsi come sostitutiva. Ciò indubbiamente, a norma di tutti i principi di diritto, può essere legittimo: ad una carenza di autorità di diritto subentra un'autorità di fatto che si eser­cita per il bene pubblico. Successivamente però, l'autorità di fatto diventa autorità di diritto, entrando nella logica del potere per cui una posizione rag­giunta difficilmente è volontariamente e liberamente cedibile, anche quan­do le motivazioni giuste che l'hanno originata vengono a cessare.

È quanto credo di poter constatare se si considera il modo con cui la Chiesa ha trattato certi problemi che qui interessano direttamente, nel suo anche recente passato. La Chiesa istituzionale, perdendo l'antica suprema­zia in una società di un certo tipo (quando, per esempio, si sostituì al po­tere dello Stato dopo la caduta dell'Impero Romano; nel Medioevo; nelle società rurali e contadine; ecc.), si è trovata in una situazione di emargi­nazione al nascere della società moderna capitalista e si è inserita dove ha trovato carenze. Si è quindi proposta, mettendo a disposizione della società le risorse della carità e dei suoi beni, per rendere più sopportabili i mali del tempo, conquistando una posizione di monopolio nel campo.

All'inizio questa posizione, considerata in sé, poteva avere senz'altro motivazioni giuste e concrete (o svolgere ruoli provvidenziali, come si di­ce, senza badare a sprechi di aggettivi molto grossi!), ma poi si giunse all'assurdo di certi cattolici che dichiararono che lo Stato non doveva occu­parsi dei poveri: tale compito era proprio della Chiesa perché riservatole da Dio. In certe dichiarazioni, anche recentissime, le prospettive non so­no molto cambiate, a parte le parole, quando si rivendicano dei «diritti» che nel pensiero, ed anche nella lettera, neotestamentario non trovano ri­scontro.

Posto il principio, le conseguenze sono spesso imprevedibili. È sempre molto pericoloso per la Chiesa trovarsi o meglio porsi in situazioni da do­ver esercitare funzioni proprie dello Stato e delle associazioni temporali. Non è questa la sede per un'analisi approfondita. Già ho rilevato come ad una supremazia anche caritativa o assistenziale difficilmente si rinuncia spontaneamente (e vale soprattutto per la Chiesa oggi che vede diminuire giorno per giorno il campo della propria influenza determinante); potrei ag­giungere, come indicazione per un ulteriore studio, che cercando di giusti­ficare se stessa agli occhi del mondo e dare un fine alla propria attività ca­ritativa partendo dalla società così com'è e inserendosi in essa, la Chiesa finisce per essere impossibilitata a mettere in discussione tale società che crea tante carenze, ne diventa complice, ponendosi essa stessa come cau­sa, anche se indiretta o non voluta, della stabilizzazione di ingiustizia e del­lo stato di squilibrio sociale.

Se in linea di principio è giustificabile qualsiasi attività suppletoria del­la Chiesa, in pratica tale attività diventa pericolosissima. Come agire in si­mili circostanze? Sarebbe molto più utile e meno gravido di conseguenze negative, oggi facilmente riscontrabili, se la Chiesa invece di sostituire la sua struttura alla struttura carente si preoccupasse della formazione in pro­fondità di persone mature, capaci di usare la loro libertà. La Chiesa non ha competenze dirette nel campo delle strutture sociali e profane, mentre il cristiano, come uomo, sì; essa deve lasciare che l'uomo cristiano, nella li­bertà. dei mezzi e dei modi, con la sua immagine di uomo che deriva certa­mente dalla fede, si ponga liberamente all'interno delle strutture già esi­stenti, senza crearne delle nuove (perché se non per motivi di vago «pre­stigio», «condizionamento», ecc.? La domanda è legittima), salvo casi ec­cezionali ed anche qui con infinita prudenza, con l'impegno di dare loro un ordine, efficienza, incisività concreta in modo significativo e responsabi­le (...) .

Come uomo il cristiano (e più degli altri) è obbligato a collaborare al­lo sfarzo delle componenti la società al fine di umanizzarla sempre più. Egli però deve sapere che in questi campi non ha nessuna terapia migliore o de­finitiva da presentare, per cui possa rivendicare a priori un qualsiasi privi­legio o posto di preminenza nella conduzione delle operazioni sociali, deve invece lottare con e come tutti per soluzioni migliori. È solidale con e fra gli uomini impegnati in tale sforzo. L'unica distinzione è che il cristiano co­nosce l'impegno di Dio per il mondo e ci crede, e di conseguenza ha davanti un orizzonte più vasto e completo; anche di ciò egli deve dare testimonian­za non solo con la professione della sua fede, ma concretamente nel pro­prio impegno di lavoro e cooperazione.

I cristiani, dunque, debbono essere segno e presenza dell'iniziativa di Dio per l'umanità. Non può avere senso una Chiesa che si realizza in un ghetto di iniziati o di uomini tagliati fuori dalla vita, con le sue strutture, i suoi mezzi di azione, le sue opere, ecc.; tutto «privato» insomma!

Tale presenza si realizza e si attua nella società attraverso quella «ca­ritas» che non è la carità così com'è intesa da larghi strati di cattolici, co­me elemosina, beneficenza o filantropia (istituti di carità; opere di carità; suore di carità; ecc.), tutti modi (bisogna finalmente riconoscerlo!) che fi­niscono per non rimuovere quel che c'è d'ingiustizia; non è «caritas» l'ele­mosina, anche se fatta alla Chiesa, al fine di sfamare per esempio un certo numero di poveri, quando chi la fa non cerca di dare alla sua azione una di­mensione «politica» cioè non si sforza di identificare, con un'analisi poli­tica e storica e sociale, le cause degli squilibri, non impegna tutto se stesso per chiedere anche una riforma dello Stato e dell'assistenza pubblica e pri­vata, eventualmente lottando perché questa riforma si attui contro le resi­stenze.

Purtroppo nella Chiesa italiana è presente da lungo tempo, a parte casi significativi, la tendenza a porre l'azione caritativa o sul piano dei rapporti con forze politiche o su quello esclusivamente della carità-elemosina.

L'elemosina, i pacchi ai poveri, le visite varie, tutte le attività tradizio­nalmente «vincenziane», sono gesti certamente nobili ma non risolutivi perché incapaci di mettere in moto i meccanismi che rimuovono le cause del male e gli aspetti patologici della realtà sociale. Il tutto a prescindere da situazioni storiche in cui viviamo.

Da qui la giusta denuncia di vago astrattismo o scandaloso anacroni­smo. Si deve fare strada con chiarezza una reale volontà di servizio nei con­fronti di questa società, in rapporto ai problemi più vivi che si presentano. Bisogna superare, non solo sul piano della riflessione teologica, ma anche nella prassi, quel vago «solidarismo caritativo» che spesso diventa un vero alibi.

Non è il caso di indicare qui i modi, i mezzi e i sistemi: nelle pagine precedenti ho appena accennato ad alcuni principi che mi sembrano fonda­mentali per un ripensamento del problema generale; ora basta ricordare le varie strutture di servizio e assistenza sociale già esistenti, imperfette fin che si vuole ma esistenti, nelle quali è il caso d'inserirsi, modificandole e potenziandole dove è necessario, ma sempre al di là di ogni proselitismo o forzato etichettamento cristiano.

Un accenno solo alla scelta operativa che oggi passa sotto il nome di «volontariato». Esso diventa sempre più testimonianza concreta di rap­porti fondati sulla comprensione e la cooperazione, anche per l'alto grado di credibilità che possiede, almeno all'inizio, nei confronti dell'ambiente che lo riceve (pur tenendo presente il pericolo di «cattura» da parte del potere dominante nel tentativo d'inserire questa forza potenziale all'inter­no della propria struttura: l'esempio dei famosi «corpi della pace» ameri­cani è significativo!).

Si tratta di una scelta che deve ancora perdere un certo carattere di improvvisazione, per essere sottoposta ad una continua verifica e messa in discussione degli obbiettivi da raggiungere e delle motivazioni di par­tenza. Per esempio, ci si sta accorgendo che il volontario non deve presen­tarsi primariamente come colui che dà a chi non ha o colui che insegna agli ignoranti, quanto piuttosto colui che vive assieme e cresce insieme alla comunità in cui ha deciso di operare, stimolandone dal di dentro le inizia­tive e le forze creatrici. Prima e importante constatazione è il valore comu­nitario del volontariato: il fare insieme è indiscriminante e qualificante di per sé contro l'individualismo di quanti credono ancora possibile condurre anacronistiche battaglie private che non portano a nessun risultato soprat­tutto perché non agiscono quasi mai a livello di coscienze, raramente anche a livello di strutture.

Il metodo è sempre subordinato al «perché» dell'azione, mentre alla base di tutto il processo ci deve essere la comprensione giusta dei reali problemi. Ciò comporta un'analisi critica della realtà sociale, politica ed economica che evita il pericolo di cadere nel semplice umanitarismo o nei procedimenti caritativi (nel senso deteriore del termine). Di qui, all'altra conseguenza: professionalità del volontariato, nel senso di una preparazio­ne professionale che consenta prima l'analisi critica della situazione e poi la scelta e l'uso degli strumenti adatti alla situazione specifica. Volontarie­tà, messa a disposizione spontanea della propria persona intera per opera­re al fine dell'affermazione di valori misconosciuti o assenti, partecipazione alla vita del gruppo dove si vuole operare, e professionalità: questi mi sem­brano essere i tre elementi principalmente caratterizzanti il volontariato.

Una scelta, quella del volontariato, che mi sembra particolarmente si­gnificativa e funzionale alla prospettiva dell'impegno cristiano nella società con l'autentica carità che non può mai essere una serie di gesti simbolici e tranquillizzanti le coscienze, perché è fedeltà ad un evento che mette in questione gli squilibri raggiunti dalle forze sociali dominati al fine di rag­giungere chi in qualche modo è escluso ed inserirlo a pieno diritto nella co­munità umana.

 

 

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