Prospettive assistenziali, n. 20, ottobre-dicembre 1972

 

 

LIBRI

 

 

ASSESSORATO AI SERVIZI SOCIALI DEL COMU­NE DI PISTOIA, Convegno provinciale sull'in­fanzia, Pistoia, 14-16 maggio 1971, pag. 300.

 

Ci pare innanzitutto utile segnalare che il con­vegno non è stato organizzato secondo schemi tradizionali, essendo stato preceduto da nume­rose riunioni fra gli organismi promotori (Ammi­nistrazione comunale, Amministrazione provincia­le, Associazione italiana per l'assistenza agli spastici) con i Comuni della provincia, le forze politiche, i sindacati, le associazioni, i gruppi spontanei, i medici condotti e scolastici, gli in­segnanti delle scuole materne e dell'obbligo, il personale degli asili nido e degli istituti educa­tivo-assistenziali e medico-psico-pedagogici.

Fra le varie esperienze riferite nel corso del convegno, riportiamo quella riguardante la deistituzionalizzazione completa di un gruppo di ra­gazzi con handicaps intellettivi medio-gravi, ospi­ti dell'istituto medico-psico-pedagogico Don Gua­nella di Perugia.

Questa deistituzionalizzazione radicale è sta­ta resa possibile dalla scelta fatta dall'Ammini­strazione provinciale e dagli operatori dei Cen­tri di igiene mentale impegnati a realizzarla.

I momenti significati dall'azione sono stati:

1) Presentazione e chiarificazione della nuova impostazione assistenziale alle famiglie dei ra­gazzi che venivano tolti dall'istituto ed appoggio economico nei casi più bisognosi;

2) Coinvolgimento della scuola che doveva ac­cogliere questi minori;

3) Coinvolgimento di operatori politici e sin­dacali per un'azione fiancheggiatrice e per una sensibilizzazione generale ai problemi più vitali del nostro tempo;

4) Animazione di gruppi di giovani volontari che hanno gestito attività di doposcuola nello spirito di un nuovo stile assistenziale e di ap­proccio ai minori emarginati.

Quali sono i punti positivi certamente conseguiti?

1) Si è maturata una reale crisi - in senso culturale - della soluzione istituzionale come ottimale per realizzare un'assistenza positiva ai ragazzi, siano essi subnormali o non;

2) Si è raggiunta da parte degli operatori che vi agivano una generale svalutazione delle istitu­zioni scolastiche proposte al recupero in quanto più che un recupero hanno realizzato una strut­tura in definitiva parallela a quella per i cosiddet­ti normali;

3) Si è approfondita una già diffusa sconten­tezza nelle famiglie dei bambini handicappati per la precarietà delle soluzioni assistenziali e tecni­che ai fini del recupero;

4) Sui piano operativo specifico, in ragione anche della disponibilità di alcuni direttori didat­tici e di molti insegnanti a recepire un nuovo di­scorso sulla scuola - come scuola dell'obbligo - e ad impegnarsi nella sperimentazione propo­sta, sono stati inseriti, in altrettante classi nor­mali, i circa 30 soggetti con insufficienza menta­le non solo di medio, ma anche di grave grado.

Questa sperimentazione è pienamente riuscita e si è avvalorata l'ipotesi:

a) che è l'ambiente normale il più autentico supporto per i bambini subnormali;

b) che il bambino subnormale lungi dall'abbas­sare il tenore della classe è stato suscitatore di solidarietà e di amicizia nei compagni di scuola e questo è il vero momento significativo che distrugge la tendenza all'esclusione che, assente nei bambini, è certamente indotta dall'atteggia­mento escludente degli adulti;

c) che il criterio discriminatore per la scola­rizzazione di un minore non è il quoziente intel­lettuale, ma solo la possibilità del bambino stes­so di essere comunque scolarizzato.

L'esperienza è dunque riuscita e lo si può affer­mare sulla base dei seguenti dati:

1) Tutti i minori subnormali - anche i più gra­vi - hanno realizzato un deciso progresso sia sul piano dell'apprendimento che della socializ­zazione e ciò soltanto attraverso l'attività didat­tica ordinaria ed un nostro supporto esterno - non specificatamente tecnico - specie nei con­fronti delle insegnanti.

2) Tale progresso è ampiamente riconosciuto dagli operatori della scuola e dalle stesse fami­glie.

3) È sulla base di una simile sperimentazione che il discorso per l'eliminazione non solo delle classi differenziali, ma anche delle classi specia­li è diventato, nell'ambito in cui l'esperienza è stata condotta, più incisivo e convincente.

 

 

AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI PARMA, Atti del convegno regionale «Contro l'istitu­zionalizzazione, la discriminazione e l'esclu­sione dei minori», Parma, 6-7 maggio 1971, pag. 306.

 

Il convegno di Parma si è posto già nelle enun­ciazioni programmatiche su un terreno di lotta e di rivendicazione in un campo circoscritto e sin­tomatico di una situazione abnorme circa la si­tuazione dei minori oggetto di discriminazione ed esclusione. È il campo della povertà spinta all'eccesso in cui la miseria economica ha debilita­to, annullato, direi distrutto i figli dei poveri, i fi­gli «non ereditieri», ma quelli della «speranza» quelli su cui il popolo conta per un riscatto ed una vita migliore. Ma anche questo riscatto è sta­to precluso perché questi figli li troviamo am­massati ed annichiliti nelle case di correzione, negli istituti di beneficenza, nei centri medico­psico-pedagogici, nelle scuole speciali, nelle clas­si differenziali.

Certo un convegno sembra non adatto a smuo­vere certe cose, a modificare, a spostare i ter­mini di una situazione, ma quello di Parma è sem­brato non solo voler indurre la maggior parte delle persone a prendere coscienza del proble­ma, ma ha portato esempi concreti di un possi­bile cambiamento di interventi e quindi pur nel­la confusione ideologica e pratica che certi ar­gomenti portano necessariamente quando si ri­chiede chiarezza programmatica e concretizza­zione strumentale, esso è servito a puntualizza­re in modo irreversibile la situazione drammatica delle istituzionalizzazioni e quindi la necessità da parte dei politici, dei tecnici, della comunità tutta di adoperarsi per distruggerla e sostituirla con alternative valide a ridare ai figli dei poveri la possibilità di vivere una vita a misura umana non più vittime di sopraffazione ed esclusione.

Questa nostra società capitalistica ha creato il mito della efficienza e della produzione favo­rendo vittime nella popolazione che a questo mi­to non si adegua e ha modellato un sistema assi­stenziale non in funzione dell'uomo, ma in fun­zione della produzione in modo che è diventato «produttivo anche l'improduttivo dato che gli istituti privati che gestiscono tutta la frangia di marginali, sono grosse fonti di guadagno».

Ha razionalizzato la situazione creando dei tec­nici su misura, ai quali non si richiede un ritmo di lavoro intenso, ma una accettazione ideologica del sistema assistenziale ripagandoli con presti­gi e guadagni.

Cosa si può fare per eliminare la discrimina­zione e le contraddizioni? Certo non si possono accettare le contraddizioni proprie dell'uomo, ma si possono e si devono rifiutare le contraddizioni prodotte dalla situazione esterna, perché se è vero che il malato ed il sano ci sono in tutte le società, solo nei poveri a il meno acquista un si­gnificato ed un valore irreversibile ». Contraddi­zione sì, ma non differenziazione e discriminazio­ne a beneficio di pochi e distruzione dei più.

Nel convegno si è parlato di un subnormale, del modo come questi è stato riabilitato, e cioè con l'intervento dei compagni di lavoro e non dei tecnici. Questo sta a significare che scientifica­mente serve la solidarietà di una comunità per la soluzione delle contraddizioni che esistono nel­la vita reale e come tali devono essere affrontate. Bisogna consentire ai meno di vivere realmente in una situazione di solidarietà da parte della co­munità. Questo non vuol dire trasformare la par­tecipazione comunitaria in istituzione perché in quel momento si inventa una nuova tecnica e non si esce dal sistema; non si deve riprodurre un rapporto di tipo individualistico-tecnico perché quando si dà spazio per esempio alla partecipa­zione comunitaria nasce una serie di contraddi­zioni, ad esempio di fronte alla liberalizzazione di certi comportamenti; non solo ma nel momen­to in cui si dice che il punto di riferimento per un intervento non è un tipo di istituzione, ma il bambino con i suoi bisogni sorgono una serie di rivendicazioni sindacali da parte del personale adibito ai servizi che contrastano con il bisogno del bambino.

Tutto questo è anche giusto, ma dimostra come non ci sia un modo di alternativa di istituzione di servizi buoni o meno buoni per cui o l'istituzione si nega mentre si trasforma, o non si modifica un bel niente.

Il convegno ha ribadito la necessità che la co­munità deve potersi confrontare con la sorte del minore in difficoltà, la cui istituzionalizzazione è una questione a valle di tutta una serie di ina­dempienze precedenti e l'intervento deve essere orientato a colmare il vuoto che c'è a monte nel­lo stesso tempo che si affronta il discorso a val­le. Il modello di lotta perciò non di è singole per­sone o gruppi di tecnici, ma il coinvolgimento di tutti nei problemi. Quindi le alternative alle isti­tuzioni non sono alternative tecniche, ma alter­native di trasformazione sociale, cioè identifica­zione del minore non in un altro individuo, ma del minore nella comunità, cioè il modello comuni­tario di gestione dei problemi della società.

Il momento politico deve consentire la parte­cipazione dei tecnici e delle forze sociali, e con essi costruire la scelta politica proprio per non delegare nessuno ad eseguire soluzioni politiche.

JOLE MEO SOSSO

 

 

AA.VV., Il laboratorio protetto (Sussidi tecnici per i servizi sociali n. 19), Ed. A.A.I., Roma, 1971, pag. 200, L. 1.000.

 

Nell'attuale società, essendo il lavoro impo­stato sul profitto, le persone che presentano de­gli handicaps, tali da ridurre il loro rendimento, vengono escluse dal ciclo produttivo.

Ne consegue che fino a quando non saranno rivoluzionati i fini suddetti, il lavoro non potrà essere inteso come mezzo per lo sviluppo, nello stesso tempo, delle singole persone e della co­munità intera.

Solo allo sviluppo di questa società potranno contribuire in modo uguale tutti i cittadini, cia­scuno in base alle proprie possibilità, e senza che per impossibilità lavorative totali o parzia­li vengano limitati i propri bisogni individuali e sociali.

Nella società così ipotizzata, il laboratorio pro­tetto non avrebbe perciò nessuna ragione di esi­stere in quanto, escluso il fine del profitto, cia­scuno darebbe e riceverebbe in base alle sue esigenze individuali e collettive. Ma ammetten­do oggi come «necessità contingente» il labo­ratorio protetto, non possiamo accettare la de­finizione dei suoi fini data a pag. 13 del manuale suddetto: «le finalità del laboratorio protetto consistono nella riabilitazione sociale dell'insuf­ficiente mentale attraverso l'attività lavorativa».

Tutte le persone, in quanto tali, sono social­mente abilitate, ivi compresi gli insufficienti men­tali.

Non si comprende quindi perché essi debba­no essere riabilitati con il lavoro (o con qualsia­si altro mezzo). Si dovranno invece garantire agli insufficienti mentali (come a tutte le persone) le prestazioni e gli interventi necessari perché il loro sviluppo avvenga nella massima pienezza possibile, senza che ciò si debba tradurre in una qualsiasi forma di emarginazione anche tempo­ranea.

L'obiettivo da perseguire rimane dunque quel­lo di una collocazione sociale ugualitaria e quin­di di una attività lavorativa in cui ciascuno occu­pi il posto più consono alle sue possibilità.

Poiché evidentemente il raggiungimento di que­sto obiettivo richiede tempi lunghi, resta il pro­blema dell'inserimento sociale e lavorativo de­gli insufficienti mentali. Il laboratorio protetto può oggi rappresentare una soluzione che si de­ve accettare poiché non esiste altra possibilità migliore, ma occorre rendersi conto che si trat­ta di una forma di emarginazione.

È importante perciò che il laboratorio protet­to costituisca una soluzione ponte e che venga­no sistematicamente ricercate soluzioni interne meno emarginanti (ad esempio stabilendo una capienza limitata a 20-25 handicappati), preve­dendo l'inserimento di un numero uguale o su­periore di operai non handicappati, eliminando ogni loro dipendenza amministrativa dal setto­re «assistenza» e collegandolo con il settore «lavoro», inserendo esclusivamente personale non assistenziale, istituendo laboratori protetti di quartiere democraticamente controllati, ecc.

A tale riguardo debbono essere eliminate le discriminazioni, come le annotazioni previste dal­la scheda di osservazione del laboratorio protet­to di Torino nella quale giornalmente vengono indicati addirittura i comportamenti positivi o ne­gativi con i compagni, i superiori, la qualità delle lavorazioni, la diligenza o negligenza, la buona o la cattiva volontà.

Occorre soprattutto che siano ricercati siste­maticamente contatti (incontri, dibattiti, ecc.) con il mondo del lavoro e con le forze sindacali. Infatti l'inserimento nel lavoro comune degli han­dicappati non è un fatto meccanico o di buona volontà, ma richiede un profondo cambiamento della finalizzazione del lavoro. A questo proces­so, evidentemente, sono interessati tutti i lavo­ratori e solo la presa di coscienza e la lotta del movimento operaio e delle sue organizzazioni (sindacati, leghe, consigli di fabbrica, delegati) potranno rendere possibile l'eliminazione di ogni discriminazione nel lavoro e nella società.

Pur nei suoi limiti tecnici (sono trattati solo i laboratori protetti per insufficienti mentali) e nei più gravi e importanti limiti politici (il problema è esaminato al di fuori della realtà politico-eco­nomico-sociale), il manuale è di utile consulta­zione per operatori sociali, tecnici, amministra­tori, sindacalisti, politici, che potranno conosce­re quali sono le attuali caratteristiche emarginan­ti dei laboratori protetti e ricercare le soluzioni per attuare una organizzazione del lavoro che rispetti le esigenze individuali e collettive di tut­ti (handicappati e non handicappati).

 

 

CGIL, Vandeani contro la scuola a Pino Torinese, Gruppo Editoriale Piemontese, Torino, 1972, pag. 46, L. 400.

 

Nella pubblicazione è stata raccolta e sistema­tizzata una parte del materiale scritto e prodot­to attorno alle vicende della scuola media di Pi­no Torinese, stralciato ampiamente da volantini e documenti di organizzazioni varie di Pino e di Torino, delle ACLI, del Sindacato Scuola CGIL e dal testo della Conferenza stampa tenuta dal Se­gretario della Camera del Lavoro di Torino, Gianni Alasia. Questo materiale vuole ambientare sociologicamente la scuola e l'ambiente famiglia­re di provenienza degli alunni per meglio eviden­ziarne la vicenda.

Pino Torinese, località a 5.5 Km da Torino, è un quartiere residenziale di ville e di abitazioni di lusso di industriali, dirigenti, professionisti qui attratti dal clima migliore, dall'aria pura e dalla vicinanza con la città. A Pino ci sono ancora dei contadini, ma essi sono in sempre minor nume­ro; e nel vecchio paese agricolo si sono insedia­ti immigrati e operai, che con le loro famiglie formano una minoranza sia come numero sia per la loro struttura sociale.

Quelli che premono sulla amministrazione e si fanno sentire sono i ricchi che formano un am­biente gretto, chiuso, geloso dei propri privilegi e preoccupato di ogni novità.

È così che quando nell'ottobre 1968 viene a dirigere la scuola media di Pino una preside che vuole realizzare una formazione seria, aperta al­la realtà e non selettiva, scoppia lo scandalo. So­no le assemblee, le discussione nei gruppi di stu­dio, gli incontri coi genitori, il voto unico, la pau­ra che i propri figli non «possono andare avanti a provocare gli esposti del signor Bertola». Pio­vono petizioni perché venga allontanata la pre­side, vengono richieste visite ispettive, intervie­ne l'ufficiale sanitario a dichiarare che «l'abitu­dine di raggruppare i banchi pone molti alunni in cattive condizioni di luce, causando atteggiamen­ti di struttura scorretta che possono esser causa di disformismi» (!): il corpo insegnante è po­sto sotto accusa perché gli alunni non entrano né escono da scuola in fila, perché i ragazzi discu­tono e «perdono tempo» in lavori di gruppo.

In un clima di caccia alle streghe vengono li­cenziate bidelle e verrà imbastito anche un pro­cesso.

Sarà l'amministrazione comunale, premuta dai «benpensanti» del paese, a cercare gli appigli per arrivare all'allontanamento della preside ma­scherando, sotto il presunto scarso rendimento degli allievi e altri pretesti, la propria reaziona­ria risposta alla lotta del Comitato operai e stu­denti di Pino, alle pressioni di una base che vuol far sentire la propria voce, alla ricerca di alcuni insegnanti di cambiar qualcosa nella scuola e di abolire la discriminazione.

 

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