Prospettive assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972

 

 

DOCUMENTI

 

DOCUMENTO DELLA C.E.I. SULL'ASSISTENZA

 

 

Riportiamo integralmente da L'Osservatore Romano del 15-7-1972 il do­cumento della C.E.1. sull'assistenza.

 

L'istituzione delle Regioni a statuto ordinario ed il con­seguente trasferimento alle competenze di queste di al­cuni settori e funzioni dell'amministrazione statale, tra cui l'assistenza sociale, ripropongono ad un nuovo livello ed in modo più urgente, il problema dei rapporti fra in­tervento pubblico ed intervento privato, sia esso di ispi­razione religiosa che di ispirazione laica, e quindi fra isti­tuzioni ed opere assistenziali.

Sembra necessaria una chiarificazione in merito, anche a motivo della carenza di una «legge-quadro» che regoli chiaramente la materia, nell'intento di illuminare maggior­mente la pubblica opinione, di giungere ad una corretta soluzione di un problema così importante per la vita na­zionale, [non per fini polemici o per difesa di privilegi e di interessi, ma per l'armonia dei rapporti sociali e quin­di per il maggior benessere della comunità e dei citta­dini].

La soluzione del problema che, a livello di enunciazio­ne teorica, trova il suo fondamento nel dettato costitu­zionale, è chiaramente espressa nel «parere» della Com­missione Parlamentare delle questioni regionali per il tra­sferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di pubblica beneficenza, nel quale si afferma che:

«...la competenza delle Regioni in materia di beneficenza pubblica (art. 117 Cost.) potrà e dovrà esercitarsi anche nei confronti delle attività delle istituzioni di assistenza privata in quanto tali attività rivestono carattere di servi­zio pubblico».

L'enunciazione traduce ed esprime i compiti dello Sta­to democratico ed il modo più opportuno di porsi di fron­te alla realtà della Nazione ed al suo patrimonio sociale e civico, come di fronte ai gruppi e ai cittadini.

Vengono così ad essere superate le divisioni della com­pagine nazionale, evitando dannose discriminazioni ed inutili tensioni.

C'è da augurarsi che questo rapporto di intesa e di col­laborazione, in piena sintonia con lo spirito e la lettera della costituzione, sia una meta della democrazia italiana storicamente e culturalmente acquisita.

Solo in questo modo lo Stato è e potrà dirsi democra­tico. Lo Stato democratico, infatti, in forza della sua stes­sa ragion d'essere, accetta e sollecita una vera partecipa­zione alla soluzione dei problemi nazionali, senza che so­luzioni ed interventi siano imposti soltanto dall'alto, ma lasciando un opportuno spazio alla libertà dei singoli e dei gruppi ed alla loro iniziativa, ed operando una opportuna mediazione tra esercizio del potere e governo, tra popolo e cittadini, sviluppando e facendo crescere in essi il sen­so di responsabilità. Questo è il senso dei rapporti fra Stato e cittadini.

Uno Stato democratico, inoltre, non può non essere ri­spettoso delle opere realizzate e delle iniziative in atto nella comunità nazionale, divenute parte viva nel tessuto della nazione e mantenute in vita con notevoli sforzi di generosità e con impegno culturale e finanziario; come non può non essere sollecito ed interessato all'apporto delle forze e delle possibilità in esse esistenti, specie quando queste risultino di pubblica utilità e siano in gra­do di offrire un contributo vero e qualificato alle esigen­ze della società ed alla soluzione dei problemi nazionali.

D'altronde sarebbe un grave errore, storicamente im­perdonabile, ignorare o peggio mortificare le opere, le iniziative, le forze, le possibilità, e in particolare le isti­tuzioni assistenziali nella comunità nazionale, quasi fos­sero un attentato contro le funzioni dello Stato; esse so­no piuttosto da coordinarsi, da sollecitarsi, da integrarsi, e nel caso da migliorarsi, nell'intento appunto di promuo­vere un benessere sempre più ampio e totale dei cittadini e di servire la comune causa del progresso sociale e ci­vile.

Un retto funzionamento delle istituzioni di uno Stato democratico non può mai giustificare situazioni di mono­polio, perché mortificherebbero le persone e la libertà, e finirebbero con l'impoverire e depauperare valori e le rea­lizzazioni di una comunità, affievolendo e forse spegnen­do ogni senso di responsabilità e di fattiva collaborazione.

Anche quando un servizio, nato dallo spirito sociale, viene ad assumere rilevanza di interesse pubblico, non è detto che l'esercizio di tale funzione debba diventare un'esclusiva dell'organo statuale. Detta funzione, per sé, può essere compiuta sia da organismi statali che da or­ganismi non statali, i quali assolvono perciò una funzione di pubblica utilità.

Voler perciò ignorare quanto istituzioni ed opere assi­stenziali hanno realizzato in secoli di presenza e di atti­vità al di fuori delle iniziative statali e degli enti pubbli­ci, si risolverebbe in uno sperpero inutile e dannoso ed in un atto ingiustificato e realmente ingiusto verso la comu­nità nazionale, oltre che in un atteggiamento irriguardoso verso gli iniziatori e i responsabili delle istituzioni, i quali invece sono unanimemente reputati dei benefattori della società.

L'assistenza sociale, più che un problema di dipenden­za dallo Stato o dagli organi pubblici, è un problema la cui soluzione necessita di una più decisa volontà politica, del­la capacità e dedizione delle persone che vi sono prepo­ste e della buona impostazione e conduzione delle opere.

C'è da augurarsi, di vero cuore, che lo Stato italiano ed i suoi organi responsabili, studino il settore dell'assisten­za e dei servizi sociali in questa prospettiva e con questo spirito, senza ulteriori remore ed attese, con sano rea­lismo e in una visione non aprioristica e preconcetta della realtà, con formule che consentano la più ampia presenza e collaborazione dei cittadini anche nella fase di elabo­razione culturale e nel momento di programmazione.

L'assistenza sociale, infatti, è un aspetto indispensabi­le di una equilibrata politica sociale, che consente ed as­sicura a tutti i cittadini, specie quelli diseredati o in sta­to di bisogno, di fruire concretamente dei propri diritti più essenziali ed elementari riconosciuti dalla Costitu­zione.

Ogni giorno migliaia di persone, animate dalla carità cristiana, prestano il loro amorevole servizio negli istitu­ti educativo-assistenziali, negli ospedali, nelle case di cu­ra per anziani, negli istituti per minorati fisici e psichici e in molte altre analoghe opere destinate al prossimo sof­ferente o comunque bisognoso. Sono laici, uomini e don­ne, sacerdoti, religiosi, religiose, che attendono alle esi­genze di numerosissime istituzioni di assistenza sociale, alle quali hanno dato vita, spesso con gravi sacrifici e ge­neroso impegno. Il loro servizio fa parte di una scelta to­tale, volontariamente maturata nel contesto della fede cristiana che insegna a vedere il prossimo come «perso­ne da amare» e il servizio al prossimo come una vocazio­ne capace di «riempire» l'esistenza.

La maggioranza di queste persone è formata da suore, le quali per meglio servire il prossimo hanno rinunciato ad una propria famiglia. Per esse la dedizione ai «picco­li», ai malati, ai poveri, non è tanto un «lavoro» quan­to piuttosto un «ideale di vita». In molte zone la loro presenza fra i bambini e i bisognosi è ancora l'unica espressione concreta di solidarietà sociale che porta un soffio di umanità e di speranza. Ordinariamente le fami­glie, anche non praticanti, sono portate a scegliere, per i loro figli o i loro malati, le suore. Esistono inoltre mino­razioni fisiche e psichiche alle quali le istituzioni religio­se si sono dedicate con impegno eccezionale e in certi casi, esclusivo.

Di tutto questo non si usa fare pubblicità. Oggi si ten­de piuttosto a svolgere una azione critica al fine di sotto­lineare le inevitabili lacune e stimolare un continuo mi­glioramento. Anche questo può essere positivo, a patto però che siano rispettate la buona reputazione delle isti­tuzioni e le esigenze della giustizia. Ciò, ad esempio, non è avvenuto quando, recentemente, le attività di una ex suora, che peraltro non aveva niente a che vedere con le istituzioni religiose, hanno indotto la stampa a suscitare una pesante ondata di sospetto contro tutte le opere assi­stenziali cattoliche; e quando una inchiesta della magi­stratura e il successivo riscontro di alcune irregolarità bu­rocratiche, hanno spinto la stessa stampa ad una vera e propria diffamazione, in una atmosfera di anacronistica «caccia alle streghe».

In tali circostanze si sono dette e scritte cose talmen­te infondate da far pensare che l'assalto denigratorio al­le opere assistenziali di ispirazione religiosa fosse sol­tanto un pretesto finalizzato a mete politiche di parte. L'affermazione è pesante; ma assai gravi sono anche i fatti che l'hanno originata.

Basti citare la dichiarazione di un esponente di parti­to, secondo cui «la carità religiosa e privata» conside­rerebbe come «fatali» le condizioni degli infelici e si ispi­rerebbe allo strano criterio per cui «quello che conta è l'anima e non il corpo»; di conseguenza queste istituzio­ni caritative si dedicherebbero alla custodia dei bambini e degli adulti infelici solo «per alleviarne le pene, ma non certo per riabilitarli e reinserirli nella società». Ci si domanda come sia possibile una affermazione del genere, palesemente contraria al pensiero e alla pratica assisten­ziale di ispirazione religiosa. Ma chi pronunciava questo assurdo giudizio aveva un suo scopo: appoggiare cioè, non soltanto la necessaria riforma dell'assistenza in Italia, ma soprattutto «una certa riforma», intesa in senso mo­nopolistico e discriminatorio, che dovrebbe, nei progetti della sua e di altre parti politiche, «far sparire» (questo è il punto!) «migliaia di enti religiosi e privati».

Esamineremo più avanti che cosa, in concreto, è sta­to fatto o non è stato fatto in Italia in questo settore. Avremo pure occasione di documentare che cosa pensa­no e che cosa fanno i responsabili e gli operatori delle istituzioni assistenziali di ispirazione cristiana. Apparirà chiaro che questi non sono affatto «contro», ma «per» una autentica riforma, che non sia però lesiva dei diritti dei cittadini e in particolare degli assistiti. Una riforma del genere è dai cattolici, e non da oggi, reclamata ed auspicata.

È doveroso anzitutto contestare certi attacchi precon­cetti contro la carità cristiana. Bisogna però premettere, a scanso di equivoci, che quando si parla di carità non si intende affatto avallare quel concetto deformato che fa di essa un alibi per coprire l'ingiustizia. La carità cristiana nasce da una visione globale dell'uomo ed ispira nei suoi confronti un atteggiamento di amore e di dedizione nel ri­spetto della sua dignità e di tutte le sue esigenze mate­riali e spirituali.

La carità non esaurisce il servizio ai poveri e agli emarginati: tale servizio anzi richiede e coinvolge l'im­pegno prioritario della giustizia; quando la giustizia è ca­rente, la carità ne supplisce il vuoto e ne reclama la pre­senza; quando la giustizia opera, la carità le offre un'anima. Questo è il pensiero e la prassi della Chiesa. La sua storia lo dimostra. Quando la società negava al povero i suoi diritti, e quindi la giustizia, la Chiesa ha creato e po­sto al loro servizio le sue opere di carità; e in tal modo, non solo ha salvato milioni di persone dall'abbandono e dalla disperazione, ma ne ha pure proclamato la dignità, stimolando con la sua testimonianza la coscienza della so­cietà stessa.

I Gerolamo Emiliani, i Camillo De Lellis, i Benedetto Cottolengo, i Giovanni Bosco, i Giuseppe Murialdo, i Gio­vanni Guanella; e ancora i don Orione, i don Gnocchi, i don Facibeni e centinaia di altri uomini e donne, fondato­ri di grandi istituzioni o promotori di modeste iniziative, sono altrettanti protagonisti, assieme ai loro seguaci dal ruolo di supplenza e, per certi aspetti, profetico, svolto dalla carità cristiana nella storia del nostro paese.

L'aggettivo «profetico» non è affatto retorico. Questi uomini e queste donne, infatti, non si limitarono a realiz­zare una generica supplenza alle lacune della società ci­vile, ma fa loro carità li spinse a ricercare una specializ­zazione «avant la lettre» nei settori e nei metodi del lo­ro impegno, dando vita ad autentiche strutture assisten­ziali che anticiparono, sia pure in modo pionieristico, gli orientamenti maturati assai più tardi negli organi pubbli­ci e nella società stessa. Una storia completa e dettaglia­ta dell'azione assistenziale della Chiesa non è stata scrit­ta, ma bastano i fatti di pubblico dominio per constatare come, specialmente negli ultimi secoli, siano sorti ordini e congregazioni religiose, maschili e femminili, con spe­cifiche vocazioni di servizio a determinati bisogni emer­genti nella società, quali ad esempio l'educazione dei ra­gazzi abbandonati, l'istruzione di quelli poveri, la cura dei malati e degli anziani, l'assistenza e la rieducazione dei vari tipi di minorati (sordomuti, ciechi ecc.), la pre­parazione professionale dei giovani.

Ma il ruolo profetico della carità cristiana si scopre nel­la sua completezza esaminando l'atteggiamento che i grandi fondatori assunsero, e cercarono di ispirare ai loro seguaci, verso la persona degli assistiti. È eloquente a questo proposito la testimonianza di Ignazio Silone, re­centemente citata da Carlo Arturo Jemolo in un articolo su don Orione. «Silone - scrive Jemolo - ci ha descrit­to in una efficace pagina il suo (di don Orione) compor­tamento di fronte a lui, ragazzo ribelle, sospettoso della tunica del prete; don Orione chiede al sedicenne se desi­dera un giornale da leggere nel lungo viaggio, e il sedicen­ne chiede “L'Avanti!”, che appare allora il foglio della rivolta; ed il piccolo prete non ha un gesto di riprova­zione, ed alla prima stazione scende e gli compra il gior­nale; e poi parla a lungo col ragazzo, sempre trattandolo come un eguale, mai presentandosi come un benefattore, mai con un discorso che possa apparire tentativo di pro­selitismo». Jemolo esprime la sua ammirazione «per quest'opera di aiuto ai ragazzi, volta a farne uomini co­raggiosi, atti alla vita della collettività di molti che ri­schiano di precipitare attraverso la miseria nelle vie del vizio»; e il suo giudizio appare assai più obiettivo e ri­spettoso della storia che non le illazioni di cui si è detto sopra.

Alla base della carità cristiana autenticamente vissuta sta la convinzione che l'assistito è un essere umano, tito­lare di una dignità che la società non gli ha consentito di soddisfare pienamente; una dignità che fa di quest'uomo il soggetto di un preciso diritto e che impone alla società il dovere di considerarlo e di aiutarlo concretamente ad essere un uomo «come gli altri».

Nelle relazioni fra società ed assistito, la carità susci­ta un «modo» di agire, che, superando il freddo ed ano­nimo atteggiamento burocratico, instaura un autentico rapporto umano, in cui emerge il rispetto della persona o l'autentica partecipazione ai suoi problemi. Inoltre, per certi tipi di bisogni, di fronte ai quali anche le migliori leggi e le più perfette strutture sono quasi impotenti (si pensi ai ricoverati al «Cottolengo»), oseremmo dire che solo la carità può garantire il servizio umanamente più adeguato: solo chi riesce a vedere nell'uomo sofferente la immagine di Cristo può compiere amorevolmente quei gesti di eroismo richiesti per la cura di certe sconcertan­ti infermità.

Le istituzioni religiose, offrendo questo tipo di testi­monianza in epoche in cui i poveri erano praticamente emarginati, e in altre epoche più recenti in cui la società «si degnava» di assisterli con la beneficenza, concepita come una elargizione, hanno contribuito alla evoluzione della società stessa, anticipando di secoli le convinzioni acquisite successivamente dallo Stato democratico, alme­no nella Carta costituzionale. Questo è ancor oggi il si­gnificato profondo del servizio di quelle istituzioni che ispirano il loro impegno sociale al comando evangelico dell'amore del prossimo. «In questo senso - come dice il Papa Paolo VI - la carità precede ed integra la giusti­zia, e l'ora è venuta di farne l'apologia come fermento di qualsiasi sistema economico e sociale».

Le polemiche sorte in Italia in questi ultimi tempi, ol­tre a negare il valore della ispirazione religiosa nelle ope­re di assistenza, hanno pure tentato di svalutare la pre­senza concreta e il tipo di servizio delle istituzioni religio­se nella situazione odierna. Non si dispone di una stati­stica religiosa nel settore dell'assistenza nel nostro pae­se. È certo però che essa assume proporzioni massicce. A titolo esemplificativo riportiamo alcuni dati di una inda­gine di qualche anno fa. Da essa risulta che nel 1967 gli istituti di ricovero dipendenti da enti religiosi erano 2116, pari al 30 per cento del totale. Nella stessa epoca risulta­vano operanti ben 5826 istituti per la ricezione diurna dei minori. Queste cifre comprendono anche istituzioni non cattoliche, che però in Italia sono una esigua minoranza.

Per quanto riguarda il numero dei religiosi e delle reli­giose impegnati nelle opere di assistenza, i dati in nostro possesso comprendono anche quelli che prestano servi­zio negli istituti pubblici. Nei 1967 operavano, negli isti­tuti di ricovero pubblici e privati, ben 43 714 religiosi (il 47 per cento del totale), di cui 6010 uomini e 37704 don­ne. Aggiungendo a questi, i religiosi impegnati negli isti­tuti di ricezione diurna, sia pubblici che privati, l'entità del personale religioso addetto all'assistenza nel nostro paese superava di molto le centomila unità.

Ma per poterne valutare obiettivamente il servizio oc­corre conoscere anche la situazione di notevole disagio in cui sono venute a trovarsi le istituzioni religiose o co­munque non statali che si occupano di assistenza. Esse sono costrette a far fronte ad un complesso di problemi nuovi che non possono più essere risolti con i soli mezzi a loro disposizione. In una moderna democrazia infatti non è più concepibile che l'enorme problema dell'assistenza venga scaricato sul volontariato e sulla dedizione delle istituzioni libere. Lo stesso «modo» di concepire l'assi­stenza ha subito radicali mutamenti sotto la spinta dell'evoluzione culturale e sociale. La soluzione del proble­ma coinvolge l'intera comunità, e soprattutto esige che i pubblici poteri si assumano le loro responsabilità.

In Italia, nonostante che la Costituzione imponesse una completa regolamentazione di tutto il settore, si è proce­duto fino ad oggi con una legge che risale nientemeno che al 1890. Le istituzioni assistenziali operano in un con­testo normativo antiquato e caotico in cui si possono ve­rificare, e non sempre per colpa di chi le dirige, anche abusi e lacune. Dopo la seconda guerra mondiale l'opera di ricostruzione ha dato la precedenza a settori di imme­diata urgenza vitale. Il settore assistenziale è stato fati­cosamente ricostruito ma non mai adeguatamente aggior­nato. D'altra parte il progresso sociale ha provocato una presa di coscienza sempre più forte; molte parti della co­munità politica hanno fatto pressioni perché il problema venisse affrontato in modo radicale; gli stessi operatori sociali si sono impegnati a fondo in tale senso, come è dimostrato dai numerosi contributi da essi dati in convegni di studio, pubblicazioni e documentazioni di alto valo­re. Tutto questo tuttavia non ha ancora portato a provve­dimenti legislativi adeguati.

Per farsi un'idea più completa della situazione è neces­sario tener presente che nel quadro delle leggi vigenti si interessano dell'assistenza almeno cinque ministeri in modo stabile, ed altri in modo saltuario, con uffici centrali e periferici; che esistono diversi enti pubblici nazionali operanti a favore di determinate categorie di bisognosi; che, accanto a questi, sono sorte numerose associazioni nazionali di categoria con funzioni anche assistenziali; che pure gli enti previdenziali svolgono attività assistenziali.

Perifericamente le competenze sono suddivise fra le province (assistenza a illegittimi e a minorati psichici), i comuni (inabili, assistenza medico-farmaceutica, centri as­sistenziali), gli enti comunali di assistenza (assistenza generica e centri assistenziali), gli istituti di pubblica as­sistenza e beneficenza (che gestiscono asili, istituti per minori, per minorati e per anziani), le istituzioni private con o senza personalità giuridica, le cui attività sono par­zialmente, ed in misura diversa, finanziate dallo Stato o da Enti pubblici. In questa confusa cornice strutturale man­ca un vertice politico-amministrativo che attui il coordi­namento degli interventi nel quadro di una adeguata pro­grammazione; si verificano sovrapposizioni e conflitti di competenze in alcuni settori, mentre altri restano scoper­ti; ha luogo una forte tendenza degli enti di categoria a rinchiudersi in un ghetto corporativo.

Sotto il profilo funzionale la situazione è caratterizzata da gravi anomalie: il prevalente criterio occasionale e di­screzionale favorisce la cronicità del bisogno, crea dispa­rità ed insufficienze di trattamento, isola gli assistiti e non ne promuove l'inserimento nella società. Tutto ciò non risana le situazioni di bisogno nella loro radice, come non le risanano le prestazioni integrative erogate saltua­riamente per sopperire a lacune sanitarie, previdenziali o scolastiche. La politica assistenziale italiana non si è an­cora del tutto liberata dai residui di una mentalità e di una prassi in auge nel secolo scorso; e pertanto i suoi interventi costituiscono piuttosto una cura disordinata de­gli effetti, anziché un efficace tentativo di rimuovere le cause del bisogno. Con la conseguenza che il povero re­sta ancora, in pratica, un peso fastidioso anziché un «ca­so di coscienza» per la società.

Sono molti i fatti che dimostrano il persistere di at­teggiamenti paternalistici, classisti, economicisti nella pra­tica assistenziale; e non sono del tutto scomparsi colo­ro che, anche ad alto livello, considerano gli indigenti co­me una categoria da cui la società deve «difendersi», e l'assistenza come uno dei mezzi destinati a tale scopo. Per completare il quadro si deve rilevare un'altra serie di anacronismi del sistema attuale: esso infatti favorisce la clientelizzazione degli assistiti, ignora o rompe la dimen­sione familiare, assolutizza il ricovero, alimenta l'emar­ginazione, esclude la partecipazione della comunità, non punta sul personale qualificato mentre gonfia il volume di quello amministrativo.

In una situazione del genere le istituzioni assistenzia­li non statali sono spesso costrette ad un continuo e snervante logorio, e non di rado ad una povertà paraliz­zante. Non è infrequente il caso di istituti che, per rende­re un servizio più rispondente alle esigenze dei tempi, dovrebbero e potrebbero delimitare il loro campo di impegno, ma ne sono impediti dal fatto che non esiste la possibili­tà di collocare altrove i propri assistiti. Anzi, questi stes­si istituti, mentre da un lato vengono aspramente critica­ti, dall'altro sono sottoposti a pressioni di autorità e di enti pubblici affinché accettino in custodia, in qualsiasi modo, minori o minorati che lo Stato non sa come assi­stere e dove collocare.

Si pretende che gli enti non statali di assistenza prov­vedano in modo completo e decoroso alla educazione dei minori loro affidati: ma forse pochi sanno che la cosiddet­ta «retta di Stato» sale al massimo a 800-1000 lire gior­naliere. Per di più tale retta non raramente viene corri­sposta con estenuanti ritardi; molti istituti sono credito­ri verso gli Enti pubblici di parecchi milioni.

Comunque va precisato che, nonostante tutto, i casi di inadeguatezza non costituiscono affatto un fenomeno ge­nerale. Anzi, va sottolineato (come vedremo) che moltis­sime istituzioni cattoliche hanno tentato di affrontare i problemi nuovi di propria iniziativa, ridimensionando le opere in base ai reali bisogni emergenti in una determina­ta zona; preoccupandosi di preparare in modo adeguato gli operatori sociali; ammodernando le strutture e i meto­di in armonia con le esigenze moderne ed optando per de­terminati tipi di servizi sociali. I risultati faticosamente raggiunti sono da considerarsi tanto più meritori quanto meno gli istituti sono stati aiutati dagli organi pubblici. In tutti i modi non si può certo affermare che le istituzioni pubbliche di assistenza si collochino sempre ad un livel­lo più avanzato rispetto a quelle religioso-private.

Ciononostante abbiamo avuto in Italia una improvvisa e clamorosa campagna scandalistica la cui eco, rimbal­zata anche all'estero, non si è ancora spenta. A noi sem­bra che il vero scandalo consista nel tentativo di attribui­re la responsabilità di lacune, dovute anche all'inadem­pienza dei pubblici poteri, solamente a coloro, istituzioni e persone, che invece ne hanno dovuto subire le conse­guenze, pur continuando a prodigarsi nel sacrificio e nel disinteresse a servizio dei bisognosi.

Quanto si è detto finora non vuole essere un'accusa al­la classe politica per il fatto che non è riuscita ad opera­re un tempestivo ed adeguato aggiornamento rispetto alla evoluzione della società. E neppure vuole essere una esal­tazione acritica delle istituzioni assistenziali libere, le qua­li hanno pure le loro lacune, e se ne rendono conto. Si è insistito sulle responsabilità della società civile perché si riteneva necessario offrire all'opinione pubblica, sconcer­tata da accuse unilaterali e sproporzionate, un quadro completo della situazione che aiuti a formulare giudizi più equilibrati e, diciamolo pure, più onesti. Come non lo usiamo noi, così non pretendiamo dagli altri che si usi l'incenso verso le istituzioni religiose; pretendiamo però (come vivacemente afferma un esperto operatore) che «almeno non si usi l'arsenico».

Allo scopo di favorire una valutazione più serena ed obiettiva della situazione assistenziale in Italia, è oppor­tuno accennare rapidamente al contributo che gli studio­si e gli operatori sociali cristianamente ispirati hanno da­to alla formazione di una moderna concezione dell'assi­stenza nel nostro paese. Senza voler negare che possano sussistere anche in ambienti cattolici strascichi di men­talità arretrate, è doveroso prendere atto di questa real­tà, la quale dimostra il prevalere di una mentalità orienta­ta, alle più coraggiose riforme.

Da diversi anni i cattolici in Italia svolgono un ruolo di sollecitazione e di stimoli nei confronti dei pubblici po­teri, affinché venga attuata una radicale ristrutturazione di tutto il sistema assistenziale. Le loro ricerche, i loro studi, le loro proposte, le loro iniziative, messe a punto e pubblicizzate in convegni e riviste, costituiscono un rapporto avanzato e spesso originale, tanto da essere con­siderati un valido punto di riferimento da parte di altri gruppi politici e sociali. Basterebbe citare il documento della «Fondazione Zancan», firmato dai rappresentanti del­le istituzioni cattoliche più qualificate nel settore, sui principi e sui modi che dovrebbero presiedere una seria riforma. Esso ha avuto larga eco ed è stato pubblicato o citato da autorevoli riviste.

Sono pure di attualità le concrete proposte elaborate in recenti documenti dall'UNEBA e dal CIF per una leg­ge quadro che risponda alle moderne esigenze. Ma esisto­no altre numerosissime pubblicazioni a livello scientifico e divulgativo, nonché documenti e rapporti di cui è im­possibile qui offrire una adeguata rassegna. Promotrici di tali contributi sono istituzioni ed organizzazioni specializ­zate nel campo dello studio e della ricerca, quali la Uni­versità Cattolica, l'ICAS, la «Fondazione Zancan»; oppu­re organizzazioni operative e promozionali come l'UNEBA, la FIRAS, il CIF. Tutto questo patrimonio culturale, accu­mulato dal primo dopo-guerra ad oggi, traspare anche ne­gli ultimi progetti di legge elaborati in seno al partito de­mocratico-cristiano, grazie alla presenza in esso di perso­ne competenti che a questo problema hanno dedicato le loro energie.

L'orientamento dei cattolici è a favore di una delimi­tazione dei compiti dell'assistenza intesa come rimedio allo stato di povertà. Si vuole invece, in conformità alle più moderne concezioni, un sistema di sicurezza sociale, in seno al quale una gran parte dei bisogni, oggi in qual­che modo tamponati mediante iniziative assistenziali ina­deguate, siano affrontati in radice attraverso una politi­ca di interventi globali nei settori della produzione, della distribuzione del reddito, della istruzione, della tutela del­la salute, della casa, della sicurezza sociale, dei servizi sociali. Molti dei bisogni oggi demandati all'assistenza de­vono essere coperti con interventi economici di sicurezza sociale (anziani, inabili, invalidi) perché sia consentito a tutti di programmare la propria vita senza dipendere da varie forme di assistenza pubblica o privata. L'assistenza vera e propria verrebbe in tal modo limitata alle situazio­ni straordinarie e contingenti che comportino spese im­prevedibili. Per tutte le altre situazioni di difficoltà do­vrebbe essere promossa una vasta rete di servizi sociali per tutti i cittadini.

In questo nuovo modo di concepire l'assistenza si de­ve seguire il criterio di dare uguali prestazioni ad uguali bisogni, affinché l'intervento corrisponda ai reali bisogni della persona senza essere condizionato all'appartenenza o meno ad una determinata categoria. Occorre inoltre preoccuparsi di prevenire i bisogni e comunque di evita­re lo «sradicamento» del bisognoso dal suo ambiente familiare e sociale. Viene pure sottolineata la dimensio­ne familiare degli interventi, che devono tendere ad aiuta­re la famiglia piuttosto che a sostituirsi ad essa, a dare prestazioni economiche in casa piuttosto che «rette» in istituti. Di grande rilievo è pure l'accento che si pone sulla partecipazione della comunità, le comunità locali de­vono essere direttamente interessate a questi problemi, sia a livello di rapporti umani sia a livello di strutture, par­tecipando alla programmazione, alla gestione e al con­trollo dei servizi.

C'è un punto sul quale il pensiero cattolico insiste con particolare decisione: la salvaguardia della libera iniziati­va nel campo dell'assistenza, peraltro in armonia con la Costituzione che afferma appunto: «l'iniziativa privata è li­bera». Su questo punto i cattolici si distinguono e non di rado si contrappongono a quanti vorrebbero un monopo­lio totale ed esclusivo dello Stato. L'affermazione della li­bertà di iniziativa richiede una spiegazione. Non si tratta, come credono alcuni, di una assurda rivendicazione di privilegi o di esenzioni da doveri; al contrario si tratta di rendere possibile concretamente il concorso di tutti alla costruzione della società, favorendo tutte le energie ca­paci di offrire un apporto qualitativamente originale e stimolante, ed evitando i rischi di dirigismo politico uni­laterale.

Nel campo specifico dell'assistenza si deve ricordare (come già si è accennato) che non è in gioco soltanto un problema di tecniche e di strutture, ma anche e soprattut­to di rapporti umani: e quando si tratta di rapporti inter­personali il volontariato e l'ispirazione religiosa sono ele­menti di fondamentale importanza.

Sostenendo la libertà di iniziativa si chiede, in sostan­za, che le attività delle istituzioni non statali di assisten­za siano riconosciute come attività che «rivestano carat­teri di servizio pubblico», con tutte le conseguenze che ne derivano. Tale richiesta, del resto, coincide con quella espressa anche nel «Parere della Commissione parlamen­tare per le questioni regionali, per il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di benefi­cenza pubblica». Mentre il servizio di assistenza econo­mica viene necessariamente ad essere di competenza pub­blica, deve restare aperta alla libera iniziativa la possi­bilità di trasferire la gestione dei servizi sociali ad altri soggetti che, oltre ad operare in vista delle finalità fissate dalla programmazione, offrano garanzie di prestazioni ade­guate sul piano qualificativo.

Non quindi concorrenza, non duplicali, ma autentica, solidale e responsabile partecipazione. Con il vantaggio che l'iniziativa libera, potrebbe svolgere anche un ruolo di sperimentazione e di anticipazione in quei settori nei qua­li l'iniziativa pubblica, per sua natura, può muoversi con maggior difficoltà e lentezza. «È questo a nostro avviso - si legge nella relazione introduttiva a un disegno di legge democristiano - il modo reale di verificare e ga­rantire il valore positivo del pluralismo. Il pluralismo as­sistenziale, infatti, nel suo significato più autentico, non può voler dire frazionamento e disarticolazione di inter­venti e di risorse, ma, al contrario, convergenza di libere iniziative, di differenziate esperienze, di positiva ricerca di nuove tecniche operative, indirizzando tutto ciò al ser­vizio della comunità, e quindi realizzando quel finalizzarsi di iniziative private verso obiettivi comuni, che deve tro­vare nei pubblici poteri il suo momento di sintesi, di espansione e di guida».

Le istituzioni di assistenza gestite da enti religiosi sono sinceramente dominate da uno spirito di lealtà verso lo Stato, di servizio alla comunità e di solidale adegua­mento alle finalità delle riforme. Per esse l'impegno con­creto al servizio dei bisognosi, attuato anche con inizia­tive proprie, è un aspetto irrinunciabile della testimonian­za cristiana. Tale impegno emana direttamente dalla fe­de, la quale non può essere professata solo a parole, ma deve essere tradotta in un amore concreto verso il pros­simo, specialmente verso i più poveri. Fin dai primi tem­pi della Chiesa il servizio ai fratelli fu praticato come im­pegno non solo personale ma comunitario e fu istituito un apposito «ministero» (il diaconato) che si affiancò ai ministeri della parola e della grazia.

Se la comunità politica volesse forzatamente allonta­nare l'apporto del servizio ispirato dalla fede, si creereb­be un vuoto difficilmente colmabile. Tale servizio infatti si colloca fra i contributi più importanti e necessari per la costruzione di una società che non si limita a far fron­te ai bisogni materiali dell'uomo, ma soddisfi anche il profondo anelito di fraternità, di conforto morale, di ami­cizia.

Chi opera con questo spirito è inoltre particolarmente qualificato ad impegnarsi nella «scoperta» e nel servizio dei «nuovi poveri», vittime impotenti dei fattori di squi­librio, di disuguaglianza e di oppressione, tipici della so­cietà moderna, di cui parla la «Populorum progressio» (n. 47): «In una società dell'abbondanza la povertà non si misura solo in base al reddito di cui si dispone o al li­vello di vita di cui si gode. Ma vi è pure una povertà che si riferisce alle condizioni di vita, al sentimento di sentirsi respinti dall'evoluzione dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità... La povertà non è solo quella del denaro, ma anche la mancanza di salute, la solitudine affettiva, l'insuccesso professionale, l'assenza di relazioni, gli han­dicaps fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le fru­strazioni che provengono da una incapacità a integrarsi nel gruppo umano più prossimo. In definitiva il povero non è forse colui che non conta nulla, che non viene mai ascol­tato, di cui si dispone senza domandargli il suo parere, e che si chiude in un isolamento così dolorosamente soffer­to che può andare talora fino ai gesti irreparabili della di­sperazione? Una società si giudica dal posto che essa ri­serva ai più diseredati dei suoi membri, dalla preoccupa­zione che essa dimostra nel farla accedere a una vita pie­namente umana, dove essi ritrovino delle ragioni per vive­re e per sperare».

Le istituzioni assistenziali di ispirazione religiosa ri­vendicano dunque il diritto ad esistere e ad operare con il pieno riconoscimento della società. La loro disponibili­tà ad adeguarsi alle nuove esigenze imposte sia dalla evo­luzione sociale sia dal crescente intervento dello Stato, è fuori discussione. Ciò che esse respingono, è l'intento di chi vorrebbe estendere arbitrariamente i poteri dello Sta­to al di là di quelli connessi con il suo ruolo di promozio­ne, di alta direzione, di coordinamento, di integrazione e di controllo (che però non sia, come è attualmente, confuso, contraddittorio e paralizzante); di chi vorrebbe cioè la scomparsa di tali istituzioni o la eliminazione della loro originalità, soggiogandole anche alle conseguenze ideolo­giche delle politiche dominanti.

Anche prescindendo dalle ragioni di diritto e di demo­crazia, basti pensare che, nell'attuale situazione, lo Stato italiano si trova a far fronte a colossali problemi primo fra tutti quello del personale specializzato. Sembra assurdo in tale situazione qualcuno si preoccupi di eliminare quel­lo già esistente, solo perché è «religioso» eppure la tesi secondo cui le libere istituzioni sarebbero appena da tol­lerare, sembra obiettiva. La realtà dimostra che queste istituzioni costituiscono la struttura portante dell'assisten­za sociale nel nostro paese; e sarà così ancora per molto tempo. In altri stati moderni queste istituzioni sono assai più obiettivamente considerate e valorizzate; esse ven­gono favorevolmente accolte sia per la loro operatività immediata, sia per la preparazione del loro personale, es­se inoltre sono considerate strumenti di necessaria col­laborazione alla organizzazione pubblica dei servizi so­ciali.

In questi ultimi anni le istituzioni di assistenza gestite da enti religiosi hanno avviato un concreto sforzo per l'aggiornamento delle proprie strutture. I pastori della Chiesa hanno incoraggiato tale sforzo e, per renderlo più efficace, hanno istituito a livello nazionale, regionale e dio­cesano consulte e commissioni permanenti con compiti di promozione e di coordinamento.

I due cardini del rinnovamento sono le «scelte di campo» e la qualificazione delle prestazioni. Per quanto riguarda le scelte di campo emerge il problema di armo­nizzare il servizio delle libere istituzioni con le esigenze della programmazione. Si tratta cioè di individuare tipi di servizio che meglio rispondono alla testimonianza di valo­ri prioritari, che contribuiscano a colmare lacune più ur­genti e meno avvertite da altri, che rivestano un significa­to anticipatorio ed esemplare.

Più complesso è il problema della qualificazione. Sono stati promossi studi, incontri e dibattiti sulle esigenze di una moderna assistenza che richiede, oltre alla insostitui­bile animazione interiore, una adeguata preparazione cul­turale e tecnica, nonché una specifica attitudine ad una azione assistenziale «aperta» e «liberatrice» dal biso­gno. In uno studio elaborato da un gruppo di esperti della CEI e divulgato tra gli operatori assistenziali cattolici, si offre, ad esempio, uno standard di massima per la condu­zione degli istituti educativo-assistenziali per minori, in base alle esigenze acquisite dalla scienza e dall'esperien­za. Lo studio traccia tra l'altro un quadro dei bisogni ca­ratteristici del minore, suppone la preminenza del ruolo della famiglia nella sua educazione, afferma la tempora­neità della funzione dell'istituto e sostiene la necessità di un collegamento permanente con le famiglie e con la comunità esterna. Altri servizi del genere sono in prepa­razione per i diversi settori assistenziali.

Ma lo sforzo di aggiornamento è anche vivo all'interno delle congregazioni religiose impegnate con proprie istitu­zioni nel settore dell'assistenza. L'aggiornamento ha per oggetto le scelte prioritarie da compiere in un prossimo futuro (scelte imposte anche dalla diminuzione delle vo­cazioni), nonché la formazione specializzata dei religiosi e delle religiose.

Tipico è l'esempio offerto dalla Federazione Italiana del­le Religiose addette all'assistenza sociale (FIRAS), la quale svolge da molti anni un serio e impegnativo lavoro a livello tecnico e culturale per la specializzazione delle suore operanti negli istituti educativo-assistenziali, nelle case di rieducazione, nei centri di osservazione, negli isti­tuti per anziani, nelle carceri, ecc. La FIRAS gestisce da venti anni una scuola superiore di servizio sociale la qua­le, attraverso un severo curriculum di studi triennali (più un quarto anno praticamente obbligatorio) ha conferito a diverse centinaia di suore l'idoneità dell'esercizio della professione di assistente sociale.

Un'altra iniziativa della FIRAS è la scuola di formazio­ne psico-pedagogica per educatrici, con sede a Roma e sezioni in varie regioni d'Italia, che ha già offerto una specifica preparazione a migliaia di religiose che svolgo­no funzioni educative negli istituti assistenziali e nei col­legi. Esistono in Italia parecchie altre scuole che si ispira­no all'impostazione di quelle della FIRAS.

Parallelamente a queste attività la FIRAS ha organiz­zato sistematici corsi di aggiornamento sia per le supe­riore degli istituti, sia per le diplomate, sia per altre mi­gliaia di suore. Di particolare rilievo sono inoltre i corsi di specializzazione della FIRAS per suore addette ai set­tori della rieducazione, degli ipodotati, degli anziani ecc. Per quanto riguarda gli anziani (un ramo in cui le carenze legislative sono particolarmente marcate) sono in corso, sperimentazioni in vista di una scuola permanente atta a qualificare anche questo tipo di assistenza.

Al termine di queste note stese col solo desiderio di rendere giustizia alle libere istituzioni assistenziali, è doveroso sottolineare l'importanza e la delicatezza del momento in cui è venuto a trovarsi il problema dell'assi­stenza nel nostro paese. Grazie ad una presa di coscien­za che va crescendo nella società italiana, emergono con sempre maggior chiarezza le lacune del settore, gli orien­tamenti più validi per una efficace riforma, le complesse difficoltà che ostacolano il cammino. Esistono molte con­vergenze fra le forze sociali e politiche chiamate a contri­buire alle scelte definitive. Ma esistono anche non lievi divergenze su punti veramente vitali. La posta in gioco è altissima: si tratta della persona umana, da servire nel momento più drammatico della sua esistenza, quello cioè della formazione, del dolore, dell'umiliazione, del biso­gno, della infermità. È necessario che le decisioni matu­rino al di fuori delle polemiche e delle passioni di parte, in un clima di responsabilità e di collaborazione, affinché le scelte che saranno compiute esprimano un autentico esempio di solidarietà sociale, che miri al bene comune nel rispetto dei diritti e delle esigenze di tutti i cittadini.

 

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