Prospettive assistenziali, n. 18, aprile-giugno 1972

 

 

DOCUMENTI

 

SENTENZA DEL PRETORE DI TORINO

 

 

Riproduciamo un ampio stralcio della sentenza pronunciata dal pre­tore di Torino nei confronti di quattro dirigenti di istituti di assistenza.

Con la pubblicazione intendiamo anche rispondere a E. Delorenzi che, nell'articolo «Opinioni varie sull'opera assistenziale della Chiesa», in Medicina e morale, n. 1, 1972, afferma fra l'altro: «Non occorre scendere a particolari nella campagna che, in questi ultimi tempi, è stata condotta contro gli istituti assistenziali di vario genere, dagli ospedali agli asili, agli istituti di educazione della gioventù» e accusa l'Unione italiana per la pro­mozione dei diritti del minore e per la lotta contro l'emarginazione sociale di aver denunciato i quattro dirigenti processati.

Il Delorenzi afferma inoltre che i quattro dirigenti hanno ottenuto «piena assoluzione». Precisiamo invece che l'esposto presentato non si riferiva ad alcun istituto in particolare. Inoltre, come risulta dalla sentenza, l'assoluzione non fu «piena». Infatti il Pretore, accertato che il funziona­mento degli istituti senza la preventiva autorizzazione di cui all'articolo 50 del R.D. 15-4-192G n. 718 costituisce reato ai sensi dell'art. 665 del codice penale, ha ritenuto che «gli imputati in buona fede sono caduti in errore» non avendo né l'ONMI, né il Ministero dell'Interno, dal 1926 al 1969, mai richiesto l'applicazione della suddetta disposizione di legge.

Infine la sentenza smentisce il Delorenzi che nell'articolo citato rite­neva una «stranezza» l'affermazione che gli istituti religiosi di assistenza possano ricoverare i minori per mercede.

 

 

Il Pretore di Torino ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro

1) Veritier Agnese, nata a Villar Perosa il 16­12-1891, residente presso la «Congregazione Suore S.S. Natale, corso Francia 164 (TO)».

2) Bertollè Angioletta, nata a Tronzano Ver­cellese il 29-9-1919, residente presso «Pia Unio­ne casa Sacro Cuore», via Montebianco 36 S. Mauro Torinese.

3) Ferrero Giuseppe, nato a Torino il 7-1-1927 residente in viale dei Mughetti 13 Torino.

4) Arbinolo Giovanni Battista, nato a Torino il 17-11-1915, residente presso la «Città dei Ra­gazzi» strada del Traforo di Pino, 67 - Torino.

Imputati

la prima: a) del reato p. e p. dall'art. 665 c.p. per avere, quale rappresentante legale della «Congregazione del S.S. Natale», gestito l'istituto S. Natale di Rivalta (via Roma, 5), nel quale riceveva in convitto dei minori die­tro pagamento di rette o contributi, senza avere ottenuto la dichiarazione di idoneità a funzionare di cui all'art. 50 del R.D. 15-4-1926 n. 178;

la seconda: b) dello stesso reato indicato sub a) per avere, quale rappresentante legale del­la «Pia Unione Casa Sacro Cuore», gestito l'istituto «Sacro Cuore» sito in via Monte­bianco 36, San Mauro Torinese;

il terzo: c) del reato indicato sub a) per avere, quale rappresentante legale dell'Associazio­ne «Amici dei bimbi», gestito l'omonimo Istituto sito in viale dei Mughetti 13, Torino;

il quarto: d) del reato indicato sub a) per ave­re, quale rappresentante legale dell'opera diocesana «Madonna dei Poveri», gestito l'i­stituto «Città dei Ragazzi» sito in Torino, strada Traforo del Pino 67.

Fatti accertati in Torino il 30 marzo 1971.

 

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1 - Con distinti decreti penali Veritier Agnese, Bertollè Angioletta, Ferrero Giuseppe e Arbi­nolo Giovanni Battista venivano condannati all'ammenda di L. 150.000 per il reato come loro rispettivamente attribuito in rubrica. Avverso a tali decreti gli imputati proponevano tempestiva opposizione, e pertanto, riuniti i procedimenti ai sensi dell'art. 413 c.p.p., veniva celebrato, se­condo le norme di rito, il dibattimento, che si svolgeva nelle udienze del 28-9, 29-9 e 9-10-­1971 (1).

7 - Respinte le varie questioni preliminari, oc­corre esaminare se, nel caso de quo, sussistono concretamente tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie dell'art. 665 c.p. che, nella parte che ci interessa, dice: «chiunque, senza la licenza dell'Autorità; ... per mercede... riceve persone in convitto».

Nessun dubbio può sussistere sul fatto che gli istituti assistenziali ricevono i minori in «con­vitto». Questa espressione viene tradizionalmen­te riferita agli istituti che ai minori danno allog­gio, vitto, educazione e istruzione; i quattro im­putati, sia pure per altre ragioni, hanno esplici­tamente ammesso che fornivano ai minori non soltanto l'alloggio ed il vitto ma anche educazio­ne ed istruzione. Del tutto arbitrario è, pertanto, l'assunto difensivo secondo cui gli imputati non ricevono i minori in convitto.

8 - Gli imputati hanno vigorosamente sostenu­to che l'art. 665 c.p. non può essere applicato nei loro confronti, in quanto essi hanno ricevuto i minori in convitto per fine di beneficenza e senza alcuna mercede. Hanno assunto che non chiedono alcuna retta specifica, ma soltanto «una contribuzione volontaria che varia secon­do la possibilità della famiglia». Per tali ragioni alcuni minori sarebbero assistiti gratuitamente, e per altri v'è soltanto un modesto contributo dell'ONMI, del Comune, della Provincia o di altri Enti pubblici. Hanno affermato che la loro opera viene per la maggior parte finanziata da contri­buzioni volontarie di privati cittadini o di locali imprese commerciali ed hanno concluso che, non svolgendo l'assistenza per fine di lucro, non pos­sono essere destinatari della fattispecie dell'art. 665 c.p., che - col termine mercede - vuole riferirsi alle imprese che esercitano attività con fine di lucro.

Prima di esaminare il significato del termine «mercede» contenuto nell'art. 665 c.p. è oppor­tuno analizzare con quali fondi gli imputati gesti­vano i loro istituti. L'istruzione dibattimentale su questo punto s'è limitata a quanto è stato dichia­rato dagli stessi imputati, a ciò che risulta dai documenti da loro spontaneamente esibiti e alle deposizioni del teste Elia. Questo Pretore ha ri­tenuto superfluo svolgere altre indagini per pro­vare che percepivano somme maggiori, in quan­to ciò che è stato ammesso dagli imputati è pienamente sufficiente per giungere alla decisio­ne di questo processo.

Don Arbinolo Giovanni Battista ha dichiarato che la «Città dei Ragazzi», che ospita in media 120-130 minori, spende - secondo l'ultimo bi­lancio - L. 19 milioni annui. - Lo stesso isti­tuto mediamente incassa, sempre secondo l'im­putato, la somma di L. 11.000 mensili per ogni ragazzo ricoverato. A tale cifra si perviene te­nuto conto che alcuni ragazzi sono assistiti gra­tuitamente, per altri 2-3 v'è un contributo dell'ONMI, per altri 4-5 v'è una retta della Ammi­nistrazione Provinciale e per altri vi sono le ret­te pagate dalla famiglia di ammontare diverso a secondo le possibilità economiche. Effettuando la media di queste rette e contributi specifica­tamente versati per ogni minore, secondo l'Arbinolo, si giunge alla somma di L. 11.000 mensili incassati per ogni ragazzo.

Sulla base dei dati forniti dall'imputato si de­duce che la «Città dei Ragazzi» incassa, a tito­lo di retta, una somma complessiva annua aggi­rantesi tra L. 15.840.000 e L. 17.160.000 (tali ci­fre sono ricavate moltiplicando la retta media mensile di ogni ragazzo prima per 12: numero di mesi, e successivamente per 120 o 130: nu­mero dei ragazzi assistiti).

Ciò sta a significare che la spesa annua per l'assistenza (19 milioni) viene coperta quasi completamente dalle rette incassate per il rico­vero dei ragazzi e, pertanto, è erroneo sostenere che la «Città dei Ragazzi», si regge per la mas­sima parte sulle contribuzioni volontarie di pri­vati cittadini. Quest'ultime, secondo i dati forniti dallo stesso Arbinolo, coprirebbero al massimo un decimo delle spese totali, mentre per la re­stante parte i fondi derivano o da denaro pubbli­co o dalle rette versate dalle famiglie dei minori ricoverati.

Ma v'è ancora di più. L'imputato ha esibito una parte della corrispondenza intercorsa tra la «Cit­tà dei Ragazzi» e la Prefettura, il Comune, la Provincia e l'ONMI, allo scopo di provare come questi organi ed enti fossero a conoscenza dell'attività svolta dall'Istituto da lui diretto. Tali documenti, a parte il rilievo sull'elemento sog­gettivo del reato per cui sono stati esibiti, han­no anche rilevanza per comprendere meglio da dove derivano i fondi economici con i quali la «Città dei Ragazzi» svolge la sua attività. In queste lettere, infatti, v'è la prova che periodi­camente, quasi con regolarità, gli organi e gli Enti indicati forniscono mezzi economici alla «Città dei Ragazzi» per la sua attività assisten­ziale. L'esame analitico di questa corrisponden­za è molto istruttivo a tale riguardo.

Si inizia con una lettera del 10-1-1955 della Prefettura di Torino, «oggetto sussidio», ove è detto «Il Ministero dell'Interno con nota n. 25981 comunica di avere concesso a questo Ente una sovvenzione di 500.000 lire». Il 2-5-1955 è il co­mune di Torino, a mezzo del suo assessore Si­bille, che scrive: «mi è lieto comunicare alla S.V. che questo Comitato... ha determinato l'ero­gazione di un contributo straordinario di L. 500 mila a favore di codesta benemerita Opera». Il 12-4-1956 è la Provincia, tramite il suo presidente prof. Giuseppe Grosso, che comunica a Don Ar­binolo «sono lieto di comunicarLe che il Con­siglio provinciale nell'ultima sua seduta del 5 c.m., ha deliberato - su mia proposta - di as­segnare un contributo di L. 200.000 alla Sua Ope­ra, per la costruzione della nuova sede». Il 17-5-1956 è di nuovo il Comune, sempre median­te l'assessore Sibille, che riferisce «l'erogazione di un contributo straordinario di L. 2.000.000». Altri «contributi straordinari» di L. 3.000.000 (il 28-3-1957) e di L. 2.500.000 (il successivo 16-4­1957) sono deliberati dallo stesso assessore co­munale a favore della «Città dei Ragazzi». Nello stesso anno 1957, il 27-9, è il Prefetto dr. Sapo­riti che comunica l'approvazione della G.P.A. al­le delibere del Comune per la concessione di un contributo di L. 500.000 per «l'effettuazione di corsi di addestramento professionale», e di L. 6.000.000 «per la costruzione di un padiglione per laboratorio». Il successivo 20-12-1957, sempre il Prefetto, scrive «mi è gradito comunicarLe che usufruendo di un modesto residuo a disposizione ho assegnato a codesto Ente la somma di Li­re 100.000». Altre due comunicazioni dello stes­so Prefetto sono datate 15-1-1958 e 28-5-1958, la prima riguardante l'approvazione della G.P.A. al­la concessione di una «sovvenzione» di Lire 600.000 e la seconda dispone l'assegnazione di 15 quintali di grano «onde venire incontro alle particolari necessità assistenziali di codesta pia istituzione». Uguale assegnazione di 15 q. di grano (che poteva essere sostituita con denaro) il Prefetto delibera il 18-3-1959. Il 24-12-1959 lo stesso Prefetto scrive «ho assegnato, a favore di codesto Ente, la somma di L. 30.000. Davvero spiacente di non avere avuto la possibilità di intervenire più largamente - come sarebbe sta­to mio vivo desiderio - per il notevole numero di istituzioni di beneficenza meritevoli di aiuto». Il precedente 30-7-1959 era l'assessore dr. A­strua-Protto che in via non ufficiale comunicava a Don Arbinolo l'approvazione di un sussidio straordinario di L. 200.000 da parte del Consiglio Provinciale di Torino. Il 13-4-1960 il prefetto Sa­poriti con due distinte lettere comunicava «ho disposto l'assegnazione a favore di codesto Ente della somma di L. 120.000 a titolo di contributo straordinario», e nella seconda l'assegnazione di vestiario vario. Le missive continuano con lo stesso tono per gli anni successivi: 11-3-1960, L. 400.000, quale oblazione della città di Torino per lo sviluppo dei corsi di addestramento per lavoratori (firmato dall'assessore al lavoro, Mario Enrico); 27-7-1962 L. 200.000, dalla Provin­cia, per l'acquisto di attrezzature. Nell'anno 1965 v'è un contributo di L. 200.000 dalla Provincia (il 15-9), ed uno di L. 100.000 (il 20-3) dal prefetto Giuseppe Caso che scrive «mi è riuscito possi­bile assegnare a codesto ente un eccezionale contributo di lire 100.000». Vi sono ancora altre assegnazioni di merce varia negli anni successi­vi, su cui è inutile dilungarsi, essendo uguali nello spirito a quelle già indicate. È da notare anche la convenzione stipulata il 30-7-1965 con il comune, su richiesta della Città dei Ragazzi, con la quale l'amministrazione comunale s'impe­gnava a versare L. 35.000 per ogni ragazzo che frequentava la scuola elementare e media isti­tuita in locali della «Città dei Ragazzi», oltre ad un contributo straordinario di L. 750.000 per l’an­no scolastico 1963-1964.

Dall'esame della frammentaria corrispondenza esibita si può affermare che la «Città dei Ragaz­zi», oltre alle rette già indicate, ha ricevuto in questi anni dallo Stato, dal Comune e dalla Pro­vincia una grande massa di mezzi finanziari, am­montante a decine di milioni. Si può concludere che il predetto istituto ha finanziato la sua atti­vità quasi completamente con le rette pagate dalle famiglie dei ragazzi ricoverati, e con i con­tributi straordinari e sovvenzioni che a vario ti­tolo gli sono stati elargiti da Enti pubblici.

A conclusioni sostanzialmente simili si giunge per gli altri Istituti. È provato che «l'Associazio­ne Amici dei bimbi» riceveva dal Comune per ogni ragazzo assistito una retta di L. 1.500 gior­naliere (v. interrogatorio del Ferrero) cioè Li­re 45.000 mensili, somma che copriva quasi completamente il costo dell'assistenza. Nella stessa maniera rette dall'ONMI, dal Comune, dal­la Provincia (oltre che direttamente dai genitori) percepisce l'istituto S. Natale.

Chiarito che gli imputati, sostanzialmente non svolgono l'assistenza dei minori né con fondi propri, né di privati benefattori, ma con mezzi economici che a loro provengono o dai familiari dei ragazzi ospitati o direttamente dallo Stato o da altri Enti pubblici, resta da esaminare se tali somme integrano il concetto di mercede di cui all'art. 665 c.p. La risposta deve essere affer­mativa.

Innanzitutto è da notare che l'eventuale fine di beneficenza che ispirava gli imputati non esclu­de che essi potevano agire «per mercede», nel­la stessa maniera che il fine educativo di una scuola privata o il fine curativo di una clinica medica privata non esclude che tali attività pos­sono essere esercitate per mercede. Né alcun pregio giuridico ha la tesi sostenuta dai difensori secondo cui per la beneficenza occorrono fondi economici e pertanto gli imputati dovevano ne­cessariamente chiedere rette, contributi, sussidi ed altre elargizioni di denaro sia alle famiglie che dagli Enti pubblici. Ciò è esatto da un punto di vista pratico ma non ha alcuna rilevanza sull'elemento oggettivo del reato. Si noti che secon­do il combinato disposto dagli artt. 665 c.p. e 50 R.D. 15-4-1926 n. 718 non v'è reato quando l'assi­stenza ai minori viene praticata con mezzi eco­nomici propri (pur sussistendo l'obbligo, non sanzionato penalmente ma solo amministrativa­mente, di chiedere la preventiva dichiarazione di idoneità), mentre sussiste l'illecito penale quan­do s'impiegano fondi provenienti dalle famiglie dei ragazzi o da enti pubblici. In realtà gli attuali imputati non sono dei benefattori, ma semplice­mente, coordinando fattori economici non pro­pri, gestiscono il servizio dell'assistenza ai minori.

Non è esatto ritenere che il termine mercede abbia una colorazione psicologica e voglia dire per fine di lucro. Il vigente codice penale quando ha voluto richiedere tale scopo ha usato le e­spressioni «profitto» o «lucro», ma mai il ter­mine «mercede». Una guida per rettamente in­terpretare l'art. 665 c.p. la si può trarre dalla re­lazione al Re ove esplicitamente è detto che s'è usato il termine mercede per ricomprendere nel­la norma sia l'ipotesi di un vero e proprio eser­cizio professionale di carattere permanente, sia l'ipotesi di attività temporanea. Come si nota, si è su un piano completamente diverso dal fine di lucro. In realtà mercede significa soltanto corri­spettivo economico, indipendentemente se esso sia idoneo a generare un profitto. È certo che gli istituti diretti dagli imputati ricevono un corri­spettivo in denaro per l'attività svolta. Ciò inte­gra a sufficienza l'elemento materiale dell'arti­colo 665 c.p.

Questa interpretazione della norma penale in esame è del tutto conforme al dettato costituzio­nale. L'art. 38 Cost. prevede due tipi di assisten­za. Una del tutto libera, in quanto praticata con mezzi propri; un'altra, invece, integrata dallo Stato. È del tutto logico dedurre che gli istituti che operano con denaro pubblico siano soggetti a determinati obblighi e sanzioni.

Del resto guardando concretamente lo svilup­po economico degli istituti assistenziali non si può negare che essi traggano un «profitto» dal­la loro attività. Ciò lo si deduce ponendo a con­fronto i mezzi economici che avevano nel momen­to in cui sorsero e quelli che hanno attualmente.

Dai documenti esibiti risulta che all'atto della fondazione erano provvisti di un patrimonio del tutto irrisorio (la Città dei Ragazzi aveva nel 1949 un patrimonio di L. 200.000: vedi decreto Presidente Repubblica 7-10-1949; l'Associazione amici dei bimbi è sorta con L. 120.000: vedi il suo statuto del 2-12-1965) e svolgevano la loro attività in maniera del tutto precaria (la Città dei Ragazzi aveva due stanze al Regio Parco ed il Santo Natale ne aveva soltanto qualcuna in più in via delle Scuole 15). Attualmente questi Istituti, svolgendo soltanto opera di assistenza ai minori per fine di beneficenza, sono titolari di un patrimonio immobiliare considerevolissimo. L'ascesa economica della Città dei Ragazzi appa­re « miracolosa ». Dalle due stanze del Regio Parco del 1949 è divenuta proprietaria di un in­tero villaggio in Sassi, che si sviluppa su una notevole estensione di terreno, con molteplici padiglioni per dormitori e per laboratori, con co­lonia agricola, scuole, chiesa, campo sportivo, piscina, palestra. Stipula convenzioni col Comu­ne, con le quali - dietro corrispettivo economi­co - accoglie nei suoi edifici, che ospitano scuole pubbliche, i ragazzi del quartiere.

Parimenti notevole è stato lo sviluppo del San­to Natale che ha esteso la sua attività in 40 case sparse nelle diocesi di Torino, Milano, Novara, Bergamo, Pinerolo, Vercelli, Ivrea e Mon­dovì, ove possiede beni immobili. Ha anche una casa al mare a Cesenatico e case per villeggia­tura a Ressago ed Usseglio.

I risultati economici conseguiti dai predetti Istituti indicano a sufficienza che gli stessi dall'attività svolta hanno conseguito un «profitto».

9 - Stabilito che il comportamento degli impu­tati integra la fattispecie obbiettiva dell'art. 665 c.p., per affermare la loro penale responsabilità bisogna analizzare se sussiste l'elemento sog­gettivo del reato.

È stato sostenuto dalla difesa che gli imputati in buona fede sono caduti in errore su legge ex­tra-penale e, pertanto, devono essere assolti per mancanza dell'elemento soggettivo. Il problema merita di essere ampiamente esaminato.

Nel corso dell'istruttoria dibattimentale è e­merso che nessuno degli istituti assistenziali per minori esistenti nella provincia di Torino (sono circa 180) aveva ottenuto il 30-3-1971 - data di accertamento del reato da parte di questo Pre­tore - la prescritta dichiarazione d'idoneità (v. deposizione del teste Elia). - È anche risultato che questa situazione non è limitata a Torino, ma riguarda tutta l'Italia. Da ciò si deduce che il ci­tato art. 50, che nel 1926 introduceva nel nostro ordinamento giuridico l'istituto della dichiarazio­ne d'idoneità, non è mai stato applicato.

Per rettamente giudicare l'azione degli impu­tati è necessario comprendere i motivi per cui non soltanto loro quattro, ma tutti i direttori de­gli istituti assistenziali esistenti in Italia, non hanno preventivamente chiesto la dichiarazione di idoneità, né gli organi dello Stato - preposti al loro controllo - hanno richiesto l'osservanza della norma violata. A tale uopo occorre inqua­drare l'art. 50 del R.D. 1926 nel momento stori­co in cui fu posto.

Sino al 1925 non v'è nella nostra legislazione alcuna norma che regoli espressamente gli isti­tuti di assistenza ai minori, tranne quelle dettate per le opere pie in genere. Lo Stato, secondo i principi liberali prevalenti in quell'epoca, si di­sinteressava completamente del problema dei minori bisognosi di assistenza. Nell'800 e nei primi del 900 sorsero - specialmente per inizia­tiva di cattolici - molteplici istituti privati di assistenza, che erano del tutto liberi ed agivano senza alcun controllo pubblico.

Tra il 1925 ed il 1927 lo Stato interviene per la prima volta con varie leggi e regolamenti (v. L. 10-12-1925 n. 2277; R.D. 15-4-1926 n. 718; R.D.L. 8-5-1927 n. 798; R.D. 29-12-1927 n. 2822). Il prin­cipio-base di tale normativa è, come già visto in precedenza, che lo Stato ritiene che l'assistenza ai minori sia suo compito esclusivo. Per tale mo­tivo istituisce un apposito ente (ONMI) nel qua­le sono accentrati tutti i poteri relativi all'assi­stenza. Gli istituti privati possono esercitare l'assistenza ai minori soltanto alle dipendenze dell'ONMI, che è l'unica a decidere i fini e le modalità della assistenza con effetti vincolanti sugli istituti privati. L'ONMI può modificare gli statuti dei predetti istituti per uniformarli ai suoi indirizzi. Per l'attuazione di questi scopi all'ONMI vengono attribuiti vasti poteri di controllo sia preventivi (dichiarazione di idoneità) che succes­sivi sugli istituti. Inoltre, tenuto conto che gli istituti privati, per effetto di tali mutamenti legislativi, di fatto gestivano l'assistenza per conto dello Stato, vengono loro concessi - da parte dell'ONMI - mezzi finanziari sotto la forma di rette e contributi.

Ma ciò che è importante notare è che questa normativa restò sin dall'inizio del tutto inattuata. L'ONMI, infatti, non istituì la diretta assistenza dei minori, né operò i prescritti controlli, né chie­se la preventiva dichiarazione d'idoneità ai nuo­vi istituti privati, né coordinò i servizi di assisten­za. La situazione restò uguale a quella esistente in precedenza e i privati istituti continuarono ad agire ed a sorgere liberamente. L'unica novità era costituita dalla presenza dell'ONMI, che sa limitò ad esercitare i poteri discrezionali ad essa conferiti, soltanto nella erogazione dei contributi e dei sussidi agli istituti assistenziali. Favoriti da tali contribuzioni gli istituti privati, special­mente quelli di ispirazione religiosa, aumenta­rono di numero ed ampliarono la loro influenza.

La differenza tra la normativa in vigore e la prassi che si istituì in quegli anni è talmente profonda ed ampia che non si può ritenere che si sia verificata una semplice inattuazione di nor­me e di istituti, come molte volte avviene, ma si deve pensare che successivamente al 1927 è intervenuto qualche fatto nuovo che ha causato un mutamento della volontà statuale. La Costi­tuzione repubblicana ha radicalmente innovato i principi ispiratori dell'assistenza ai minori, da un lato non considerandola più come una forma di carità o di beneficenza ma un preciso dovere dello Stato che deve provvedervi direttamente con suoi istituti, da un altro lato ha riconosciuto ai privati il diritto di esercitarla liberamente.

Ma anche le norme costituzionali sono rima­ste inattuate in quanto non sono stati creati i previsti istituti assistenziali, né è stata emanata la necessaria legislazione ordinaria che adeguas­se la situazione ai principi costituzionali. La P.A. ha continuato a regolare i rapporti con gli istituti privati assistenziali in base alla «prassi» creatasi durante il regime fascista, senza ade­guarla, non soltanto alla Costituzione, ma nean­che alla legislazione emanata dal 1925 al 1934 che, nella parte non viziata da illegittimità costi­tuzionale, è da ritenersi tuttora in vigore. Gli istituti privati hanno continuato ad operare in re­gime di assoluta libertà, al di fuori di qualsiasi controllo pubblico sia preventivo (dichiarazione d'idoneità) che successivo. L'ONMI ha continua­to la sua attività di ente erogatore di contributi e sovvenzioni, affiancata in ciò da altri organi dello Stato - specialmente le prefetture - e da gli enti pubblici territoriali (comune e provin­cia). Sono continuati in questo periodo a sorgere altri istituti privati (specialmente per iniziativa di religiosi) sempre al di fuori di qualsiasi con­trollo.

Questa situazione di completa indifferenza cir­ca l'attività degli istituti assistenziali e dell'ONMI è durata sino circa al 1969, quando l'opinione pub­blica ha cominciato ad interessarsi al problema dei minori abbandonati e gruppi di privati citta­dini hanno presentato le prime denunzie alla ma­gistratura. L'ONMI soltanto in questo momento ha mostrato la volontà di adeguare la prassi alla normativa in vigore, ha iniziato un certo control­lo ed ha richiesto la dichiarazione d'idoneità a tutti gli istituti sorti successivamente al 1926. Essa s'è subito accorta, però, che gli istituti pri­vati, che non erano mai stati sottoposti a qual­siasi forma di controllo, erano privi dei requisiti richiesti dalla legge e, tenuto conto che non po­tevano adeguarsi alla normativa in vigore imme­diatamente, e, sul presupposto che non poteva disporsi la loro chiusura per mancanza di altri istituti ove ricoverare i minori da loro assistiti, ritenne opportuno concedere un termine per «ot­tenere, attraverso un realistico senso, di gradua­lità, il rispetto della legislazione vigente in ma­teria» (v. lettera dell'8-8-1969 dell'on. Angela Gotelli, Presidente Nazionale dell'ONMI diretta all'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore). Ed ancora il 23-7-1971, quando que­sto pretore aveva già emesso vari decreti penali di condanna per il reato di cui in epigrafe ed ave­va iniziato indagini di polizia giudiziaria per l'ac­claramento di altri eventuali reati commessi nel campo dell'assistenza ai minori, la Federazione provinciale dell'ONMI di Torino ha inviato ai lo­cali istituti un opuscolo in cui, dopo avere men­zionato i requisiti igienico-sanitari richiesti dalla legge, concede loro per porsi in regola un termi­ne sino all'1-11-1971. Si noti che i requisiti elen­cati riguardano l'obbligo della vaccinazione, del controllo sanitario del personale, dell'igiene dei locali etc., che rappresentano i requisiti minimi per potere dare asilo ai minori. Ebbene anche per questi, non essendosi in tempo utile operato un adeguato controllo, l'ONMI è costretta a conce­dere un termine, ben sapendo che non sono sem­pre presenti nella totalità degli istituti.

È in questa situazione che oggi interviene per la prima volta la magistratura per formulare un giudizio di responsabilità penale a carico degli attuali imputati. Bisogna partire dalla considera­zione che questi hanno iniziato a svolgere la loro attività quando la «prassi» menzionata s'era già creata e consolidata da lunghissimo tempo (da 23 anni per don Arbinolo e da quasi 40 per il Ferrero). Da tale lato la tesi difensiva, secondo cui gli imputati in buona fede sono caduti in er­rore, è attendibile. Tale errore non è stato deter­minato da un comportamento singolo della pub­blica amministrazione, che non sarebbe certa­mente sufficiente ad eliminare la responsabilità penale, ma è stato causato dal comportamento tenuto in maniera univoca per 45 anni da tutto lo Stato. Gli istituti erano quotidianamente in contatto per la loro attività con l'ONMI e la pre­fettura che, non soltanto non richiedevano la di­chiarazione d'idoneità, ma, quantunque fossero a conoscenza che ne erano sprovvisti, affidavano loro i minori, che per espressa disposizione di legge possono essere affidati soltanto agli isti­tuti «idonei». Non si possono ritenere gli attuali imputati responsabili di una carenza voluta dallo Stato in generale, e causata anche dal comporta­mento dell'ONMI e del Ministero degli Interni che per legge sono tenuti al controllo degli isti­tuti assistenziali. E che la situazione è stata de­terminata principalmente dagli organi dello Sta­to è provato dal fatto che, quando l'ONMI di Torino il 1-8-1969 (per la prima volta) ha inviato una circolare diretta all'adempimento della pre­scrizione stabilita nel citato art. 50, i quattro im­putati - come del resto tutti gli istituti esistenti nella provincia di Torino - hanno presentato la relativa domanda.

Tenuto conto che l'art. 50 R.D. 15-4-1926 n. 718 è sottoposto alla disciplina dell'art. 47 c.p., e ritenuto che gli imputati in buona fede sono ca­duti in errore, gli stessi vanno assolti per man­canza dell'elemento soggettivo del reato.

 

P.Q.M.

 

Il Pretore,

Visto l'art. 479 c.p.p. assolve Arbinolo Giovanni Battista, Ferrero Giuseppe, Bertollè Angioletta ed Agnese Veritier, in quanto persone non pu­nibili perché il fatto non costituisce reato.

 

Torino, 9-10-1971.

IL PRETORE (F. PALMISANO)

 

 

(1) Non riportiamo le parti dal n. 2 al n. 6 che trattano varie questioni preliminari strettamente giuridiche.

 

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