Prospettive assistenziali, n. 18, aprile-giugno 1972

 

 

NON SIAMO I SOLI A DIRLO

 

 

PROBLEMI DELLE MIGRAZIONI (1)

 

(...) In una società ad alto livello di sviluppo la mobilità territoriale e professionale è un aspetto normale. Ma la conclamata libera circolazione interna e internazionale, diventa solo un miraggio e una copertura all'in­giustizia, quando in pratica l'emigrazione rappresenta ancora l'unica alter­nativa di sopravvivenza (...).

Provocate come sono, in massima parte, dalla necessità, le migra­zioni comportano una serie di gravi e complessi problemi (...) .

(...) Protagonisti infatti del fenomeno ancora massiccio della emi­grazione sono in prevalenza i lavoratori più poveri e meno qualificati, costretti ad emigrare per procurare a se stessi ed alle loro famiglie i mezzi di sussistenza lontani dal luogo natio che non offre possibilità di impiego e di vita decorosa. Ad essi sono riservate attività umili o meno gradite. Ad essi si oppone sovente una muraglia di incomprensione, se non di ostilità (...).

(...) La soluzione di una problematica vasta, seria e gravida di conse­guenze, quale è quella posta dalla mobilità territoriale deve essere cer­cata nel quadro della problematica globale dell'attuale sistema socio­economico. Non è serio, non è morale continuare a guardare alle migra­zioni con una mentalità e un atteggiamento liberistico, lasciando ad ogni persona o alle singole famiglie di rimediare in qualche modo alle difficoltà e agli squilibri (...) .

(...) La responsabilità primaria di questa situazione va ricercata nel gioco delle forze economiche che hanno ritenuto più facile e più concreto spostare l'uomo anziché il capitale, con tutte le logiche conseguenze sul piano umano e sociale (...). L'emigrazione è stata vista come una valvola di sicurezza o di decongestionamento sociale in zone dove più accentuata era la sproporzione tra popolazione e risorse fino al punto di esaltare, con adeguata retorica verbale, chi, risolvendo con iniziativa personale, attra­verso l'emigrazione, la sua precaria ed a volte disperata situazione eco­nomica, veniva a sgravare la coscienza delle pubbliche autorità dalla re­sponsabilità di un intervento adeguato in tali zone (...).

(...) Non possiamo perciò che rallegrarci dei primi timidi passi sulla strada di una programmazione che tenga conto anche del problema migra­torio, così come ci rallegriamo dell'assunzione da parte delle Regioni di una responsabilità operativa, anche se siamo ancora lontani, in settori fondamentali come la casa, la scuola, la sanità e le rimesse, da modelli introdotti in Paesi da poco tempo giunti alla ribalta dell'emigrazione.

Non è onesto né tanto meno conforme all'ispirazione cristiana, cui pure molti si rifanno, far passare in secondo piano e rimandare interventi solo perché questi milioni di fratelli non hanno sufficiente voce e potere di far pesare sulle scelte interne e internazionali. Una società che difende e promuove chi sta meglio e trascura chi sta peggio, sicuramente è fuori del piano di Dio e la sua democrazia rischia di diventare una formalità (...) .

(...) Non possiamo come Chiesa limitarci a svegliare delle coscienze e a denunciare delle situazioni di ingiustizia. «Non basta ricordare i prin­cipi - scrive Paolo VI nella “Octogesima adveniens” - affermare le in­tenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denuncie profeti­che: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da una azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri le responsa­bilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzitutto la conversione personale» ( ...) .

(...) Occorre preoccuparci sul serio dei fratelli che arrivano nelle no­stre comunità cristiane, creando condizioni favorevoli per il loro graduale inserimento nella famiglia parrocchiale (...).

 

 

ADOZIONE ORDINARIA E ADOZIONE SPECIALE (2)

 

La stampa, anche quotidiana, ha dato notizia con giusta indignazione della assurda situazione di una bambina, Monica D., tolta e rimessa in seno a due famiglie diverse a seconda che un organo giudiziario o un altro rite­nesse prevalente il sistema instaurato con l'adozione speciale o il tradizio­nale sistema della adozione ordinaria. Il dramma di questa bambina - più volte privata dell'affetto a cui aveva diritto - ha posto in luce con estrema ma salutare crudezza sia l'insensibilità di uomini attenti più alle astratte teorie che alla realtà della vita sia l'assurdità di un sistema che fa convi­vere - o meglio che consente che sia interpretato in modo da far con­vivere - due istituti profondamente diversi.

In realtà il problema della coesistenza dell'istituto della adozione spe­ciale con quello della adozione ordinaria è problema che deve essere chia­ramente affrontato e risolto, se non è possibile in via interpretativa, quan­to meno in via legislativa. Il caso della piccola Monica non è infatti caso isolato se è vero, come è vero, che dall'entrata in vigore della legge sulla adozione speciale si sono avute ben 4.252 pronuncie di adozione ordinaria contro 12.828 pronuncie di adozione speciale (ed è singolare che in alcune zone - Trento, Campobasso, Lecce, Catanzaro, Messina, Caltanissetta, Catania - vi siano state più adozioni ordinarie che adozioni speciali).

Purtroppo - tranne che nella sentenza dei Tribunale di Trento - sia la Corte d'appello di Milano che la Corte d'appello di Trento, che si sono occupate dei caso della piccola Monica, hanno dato netta prevalenza alla adozione ordinaria, misconoscendo il profondo valore innovativo dell'isti­tuto dell'adozione speciale introdotto nel nostro ordinamento per tutelare concretamente il diritto dei fanciullo ad avere un ambiente familiare ido­neo a sviluppare armonicamente la sua personalità.

In realtà la adozione tradizionale è un istituto che tende essenzialmen­te ad assicurare agli adulti il conforto di un sostegno alla propria vecchiaia ovvero a consentire una trasmissione dei patrimonio a chi non ha figli e vuole eludere gli oneri derivanti da una successione tra estranei: è per questo che è vietata l'adozione ordinaria a chi ha figli legittimi; che è prevista un'età avanzata per potere effettuare l'adozione; che è sancita l'impossibilità di adottare più persone se non con il medesimo atto; che è consentito anche alla persona sola di effettuare l'adozione; che è possi­bile adottare anche chi ha una famiglia che adempie adeguatamente ai suoi compiti educativi. Le finalità vere dell'adozione ordinaria sono state messe bene in luce dalla giurisprudenza della Cassazione che ha affermato: «La finalità principale, essenziale e connaturata nella adozione è il procurare all'adottato il beneficio patrimoniale di potere essere erede legittimo 0 legittimario dell'adottante oltre che dei propri genitori e degli altri propri parenti» (Cass. 5 novembre 1959 n. 3277).

Sostanzialmente diverse sono le finalità dell'adozione speciale: attra­verso questo strumento giuridico l'ordinamento tende solo ad assicurare al minore in stato di abbandono una famiglia stabile, organica e presumibil­mente durevole, che abbia una specifica idoneità a svolgere quel compito educativo e a realizzare quel clima affettivo che è indispensabile al minore e a cui lo stesso ha diritto per potersi evolvere da «individuo» in «per­sona». Ma se queste sono le profonde differenze tra i due istituti appare evidente che alla adozione ordinaria deve essere preferita quella speciale tutte le volte in cui ci si trovi di fronte ad un minore abbandonato e cioè ad un soggetto che ha bisogno di ricostruire intorno a sé quella famiglia che non ha mai avuto.

Si è sostenuto in proposito - e la tesi deve essere a nostro parere condivisa - che con l'entrata in vigore della legge sull'adozione speciale non vi è più la possibilità di consentire l'adozione ordinaria per i minori degli anni otto in stato di abbandono.

In realtà con l'introduzione nel nostro ordinamento di questo speciale istituto vi è stata una implicita abrogazione dell'istituto dell'adozione ordi­naria per la parte di quest'ultima che si riferisce anche ai minori degli anni otto in stato di abbandono, essendo incompatibile il sistema dell'adozione ordinaria per quei soggetti che, essendo in particolari condizioni ed aven­do bisogno di vedersi ricostruita una famiglia, sono appositamente tutelati dalla legge sulla adozione speciale.

Basta al riguardo rilevare come il minore degli anni otto abbandonato ha - secondo la legge sulla adozione speciale - diritto ad una famiglia (e tale non può essere considerata la persona sola che pure ha la possi­bilità di procedere all'adozione ordinaria); che lo stesso ha diritto ad una famiglia idonea a svolgere quel particolare compito educativo necessario nei confronti di soggetti in età infantile (mentre l'adozione ordinaria può essere compiuta da persone anziane incapaci di creare un valido rapporto con un ragazzo o da persone comunque prive di quei requisiti che la legge, e le acquisizioni delle scienze biologiche e psicologiche, ritengono essen­ziali per la formazione della personalità e del carattere del minore); che ha diritto a quella vigilanza particolare del giudice che il magistrato eser­cita dopo l'affidamento preadottivo sulla nuova famiglia, vigilanza che è resa particolarmente necessaria dallo stato di abbandono del minore (il che non avviene nei confronti di coloro che abbiano posto in essere una adozione ordinaria); che ha diritto a vedere definitivamente troncato ogni rapporto con i genitori naturali che, dimentichi dei loro doveri, lo abbiano abbandonato (mentre con l'adozione ordinaria questi legami permango­no). La contraddittorietà dei due sistemi appare evidente per cui non può disconoscersi che la legge successiva, e speciale, abbia tacitamente abro­gato la legge anteriore, e generale, per quanto riguarda i soggetti alla par­ticolare disciplina della legge speciale.

Il che è stato riconosciuto anche da parie della giurisprudenza: il tri­bunale di Milano (sent. 7-6-1968) ha infatti affermato che «non è ammis­sibile l'adozione ordinaria di un minore figlio di ignoti e in stato di abban­dono nell'ipotesi in cui ricorrano i presupposti per la adozione speciale». Se però la giurisprudenza non vorrà accedere a questa tesi - che non sembra affatto peregrina - sarà opportuno che intervenga il legislatore con una norma interpretativa che eviti la possibile coesistenza del doppio sistema, causa non ultima di quel turpe «mercato nero» dei bambini che da molte parti è stato denunciato.

Ma anche se le considerazioni sopra fatte non fossero ritenute valide, non si potrebbe comunque mai accedere alla tesi sostenuta dalla Corte d'appello di Trento (4 gennaio 1971) secondo cui «la pronuncia dell'ado­zione ordinaria pone termine alla procedura di adozione speciale rendendo inefficaci l'affidamento preadottivo ed il provvedimento di dichiarazione dello stato di adottabilità».

Una simile tesi è francamente inaccettabile non solo per ragioni giu­ridiche ma principalmente per motivi umani e sociali, provocando in per­sonalità già duramente provate per il lungo stato di abbandono in cui sono state lasciate un nuovo, forse irreparabile, trauma nel momento in cui il minore viene strappato, come è avvenuto alla povera Monica, alla famiglia affidataria - in cui si era faticosamente inserito e in cui aveva ritrovato quel clima affettivo di cui era assetato - per essere consegnato ad una persona sola o a dei coniugi anziani che si presentano a lui come degli estranei.

Ma neppure sul piano giuridico la tesi sostenuta dalla Corte di Trento può essere condivisa: è infatti innegabile che - pur ammettendo per i minori degli anni otto in stato di abbandono la coesistenza della possibi­lità tanto della adozione speciale che di quella ordinaria - deve essere almeno riconosciuta una preferenza dell'ordinamento alla adozione specia­le nei confronti di quella ordinaria. Solo l'adozione speciale infatti per­mette al ragazzo abbandonato, come già si è detto, di essere inserito in una vera famiglia che sarà definitivamente la «sua» famiglia; solo essa tronca il rapporto con chi - dimentico dei propri doveri o incapace di assolver­li - ha abbandonato il ragazzo ad un triste destino; solo essa permette al ragazzo di entrare in una famiglia giovane, composta anche di altri ragazzi, con cui potrà intessere un normale rapporto affettivo pluripersonale; solo l'adozione speciale consente di valutare appieno, prima del provvedimento definitivo, la capacità educativa del nuovo nucleo familiare. In altre parole solo l'adozione speciale consente di realizzare appieno il diritto del mi­nore ad avere una «vera» famiglia - e non un simulacro di essa - e per­tanto tale istituto deve essere considerato «prevalente» rispetto alla tra­dizionale adozione.

Con il ritenere invece prevalente l'adozione ordinaria si viene palese­mente a violare la nuova legge sull'adozione speciale, frustrandone le fina­lità altamente sociali, e si abdica a quella funzione protettiva dell'infanzia abbandonata, e di promozione del diritto del minore ad una famiglia, che l'ordinamento ha chiaramente affidato al giudice.

Ed accettando la tesi esposta dalla Corte d'appello di Trento si giunge all'assurdo di ritenere che il vincolo nato dall'adozione ordinaria sia de­cisamente superiore al vincolo che nasce dalla generazione: mentre que­sto, infatti, non potrà esser fatto valere nei confronti del bambino dichia­rato in stato di adottabilità - ove non sia stata fatta opposizione entro il termine perentorio di decadenza di trenta giorni dalla dichiarazione di adottabilità - sarà sempre possibile far cadere nel nulla la dichiarazione di adottabilità e lo stesso affidamento preadottivo ricorrendo alla adozione ordinaria.

Si è così indicata una nuova via al genitore immemore delle proprie responsabilità; non sarà necessario - anzi sarà inopportuno - ricorrere al riconoscimento del figlio abbandonato o far comunque richiamo al di­ritto del sangue; sarà produttivo solo il ricorrere alla facile via della ado­zione ordinaria per eludere un espresso divieto posto nella legge sull'ado­zione speciale a tutela del minore.

E, se fosse riconosciuta valida la tesi della Corte d'appello di Trento, si andrebbe incontro ad un'altra gravissima conseguenza: chi vorrà adot­tare un bambino sarà stimolato a ricorrere all'istituto dell'adozione ordi­naria - per avere una migliore garanzia contro le turbative che da più parti possono sopraggiungere - e cioè a un istituto che l'ordinamento ha chiaramente ritenuto meno idoneo a perseguire fondamentali finalità sociali.

Il che dimostra come la giurisprudenza - quando non sappia cogliere il vero significato delle profonde innovazioni legislative apportate al no­stro sistema giuridico - possa praticamente svuotare, o tacitamente abro­gare, una legge di grande valore sociale.

Può ancora ritenersi - e ci riagganciamo a quanto detto prima - che il giudice sia solo il tecnico del diritto e che non porti nella sua attività una carica «politica» nel senso di essere colui che fa vivere o meno a seconda della sua sensibilità sociale, i valori che nella società vogliono trovare adeguata tutela?

 

 

LA FIRMA «ANORMALE» DELLO SPASTICO (3)

 

Sono un giovane spastico di 25 anni e mi rivolgo a lei, quale dirigente di uno degli organi di stampa più diffusi nel nostro Paese, affinché venga posto l'accento su alcune barriere che la nostra società, basata su leggi retrograde e conservatrici, oppone ad un insieme di individui che, di di­verso dalla cosiddetta «normalità», hanno soltanto alcuni movimenti in più o in meno.

Una società che si definisce civile, non dovrebbe permettere frustra­zioni morali, specialmente ai danni di persone che, già di per se stesse, trovano gravi difficoltà, di ordine pratico e psicologico, al graduale inseri­mento in quella comunità a cui hanno diritto di far parte.

Per dimostrare che i miei argomenti non sono frutto di sola immagi­nazione, mi vedo costretto a render palese alcuni inconvenienti che hanno offeso la mia dignità di uomo e di cittadino.

A causa delle mie ipercinesie mi è possibile firmare, ma non «nor­malmente» e, questo fatto mi ha portato a delle limitazioni che hanno dell'assurdo, perché previste soltanto per gli interdetti, sia morali che mentali.

Molte banche mi hanno fatto attendere un anno e mezzo prima di ca­pire che era mio diritto avere un c/c, e questo non per esplicare le normali pratiche previste per tale operazione, ma per avere garanzie sulla firma «anormale»; un notaio di Torre Maura si è rifiutato di notificarmi la firma; e così via.

Non credo che la Costituzione, basata sull'eguaglianza sociale, preve­da distinzioni fra cittadino e cittadino; tuttavia, a mio avviso, occorre ri­muovere quelle errate interpretazioni che portano gli spastici a non essere parte integrante della nostra comunità.

 

 

 

(1) da COMMISSIONE EPISCOPALE ITALIANA PER LE MIGRAZIONI, I problemi delle migrazioni, oggi, Roma, 12 novembre 1971.

(2) da ALFREDO CARLO MORO, Giurisprudenza in materia familiare, in «La famiglia», Brescia, gennaio-febbraio 1971, pag. 43 e segg.

(3) da BRUNO GRECO, Lettera pubblicata da l'Unità del 6 marzo 1972.

 

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