Prospettive assistenziali, n. 18, aprile-giugno 1972

 

 

DOCUMENTI

 

COMMISSIONE DIOCESANA PER LA PASTORALE DELL'ASSISTENZA BOZZA DI DOCUMENTO PROGRAMMATICO SUL RUOLO DELLA CHIESA LOCALE IN MATERIA DI ASSISTENZA

 

 

Nella Diocesi di Torino alcune iniziative e alcuni documenti ufficiali indicano nuovi indirizzi nella pastorale dell'assistenza.

Nel n. 14 di «Prospettive Assistenziali» avevamo già pubblicato un importante articolo del delegato del Vescovo per i problemi assistenziali, don Luciano Allais: Carità e assistenza nella Chiesa di oggi.

L'8 dicembre 1971 usciva la lettera pastorale del Card. Michele Pelle­grino «Camminare insieme. Linee programmatiche per una pastorale della Chiesa torinese». La lettera che ha suscitato tanti meritati consensi con­tiene pure alcune indicazioni importanti di ordine generale per la pastorale dell'assistenza. In particolare si sofferma sulla «denuncia doverosa» dei bisogni, delle loro cause, delle responsabilità del sistema attuale. Si deve «denunciare l'abuso del denaro e del potere, così come si devono denun­ciare (o si dovrebbero denunciare) tutti i peccati» (n. 10). Si deve «de­nunciare quel consumismo nel quale si esplica un'altra forma immorale di potere, mascherato ma non meno deleterio, che invece di cercare il van­taggio dell'uomo, proponendogli quello che veramente giova per le sue necessità reali e per il suo sviluppo, cerca unicamente di sfruttarlo a bene­ficio della produzione e del capitale, attentando alla sua libertà e minando le sue strutture propriamente umane» (n. 10). Questa denuncia è «l'aspet­to negativo ma necessario dell'annuncio salvifico che deve manifestare ai fratelli l'amore del Padre e di Cristo salvatore» (n. 13).

Nello spirito dei tre valori fondamentali della povertà, libertà, frater­nità, la comunità cristiana deve operare affinché:

- diventi autenticamente evangelica nel considerare il fratello più bisognoso a carico di tutti, da servire all'interno della comunità stessa senza creare «categorie di persone che non contano, di cui si dispone senza chiedere il loro parere, i cui membri per il solo fatto di appartenervi non riescono a farsi sentire, a far valere i propri diritti, ma restano automatica­mente emarginati, esclusi dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità» (n. 12) ;

- realizzi «un'esperienza di libertà» e superi «tutto ciò che nella prassi e nelle forme contrasta con la libertà, considerando l'evoluzione storica delle esigenze della persona umana. La libertà vissuta dal cristiano è ordinata all'amore, cioè a dare possibilità a ogni uomo di realizzare libe­ramente quell'immagine unica che il Creatore ha impresso di sé in lui» (n. 15);

- creda nei mezzi poveri, nella potenza della tede e della carità che non si identifica con i mezzi economici, le strutture, le opere, l'efficientismo che può «facilmente favorire la tendenza a imporsi agli altri, ad agire con un autoritarismo che non rispetta la libertà del fratello e le tappe del lavoro della Grazia, che troppo facilmente sostituisce l'azione dell'uomo all'azione di Dio» (n. 7);

- animi i servizi sociali con la testimonianza evangelica, proponendo il modello della comunità cristiana, operando nei servizi sociali in spirito di servizio, promuovendo esperienze nuove «per vincere le tentazioni di un conformismo pigro e inerte che trova più comodo fare ciò che si è sempre fatto, cioè che non scontenta nessuno» (n. 18).

Intanto la Commissione per la pastorale dell'assistenza predisponeva una bozza di documento che è giunto ora alla seconda stesura, dopo che si sono accolti i contributi di vari enti e persone interpellate. Ci sembra estre­mamente indicativa questa bozza di documento, da una parte per la sua aderenza a un'impostazione moderna dei problemi dell'assistenza, dall'altra per uno sforzo notevole teso al ripensamento della «funzione assistenziale» della Chiesa.

Qui di seguito nella prima colonna viene riprodotta tale bozza di docu­mento, nella seconda colonna viene riportato un contributo di studio e di critica, fra i più notevoli che la Commissione ha ricevuto: si tratta del con­tributo delle Suore Vincenzine di Maria Immacolata di Lanzo Torinese.

 

 

I - PREMESSA: LA SITUAZIONE ATTUALE (QUA­DRO DI RIFERIMENTO)

 

1. Sviluppo economico, povertà ed emarginazione

Gran parte delle situazioni di povertà oggi, ben lungi dal giustificarsi in nome di una sorta di fa­talità insita nella stessa condizione umana, na­scono da precisi meccanismi economici che la Chiesa ha più volte chiaramente e autorevolmen­te condannato.

«Bisogna opporsi con tutte le forze in nome del Vangelo contro il primato di un economismo che tenderebbe a legittimare una povertà residua come il tributo necessariamente pagato alla cre­scita e allo sviluppo. Se alcuni hanno potuto af­fermare che la ricchezza sarebbe una macchina per fabbricare i poveri, bisogna denunciare una concezione così disumana, e impegnarsi con tut­te le forze contro un egoismo multiforme, per promuovere uno sviluppo autentico e integrale, cioè di ogni uomo e di tutto l'uomo (Populorum progressio, n. 14). Un tale sforzo tenderà in pri­mo luogo a impedire che certe categorie di per­sone vittime in vari modi dello sviluppo econo­mico, siano come respinte e messe ai margini della società, fino a costituire dei gruppi sub­umani, e che questi emarginati, secondo il termi­ne significativo che si dà loro, siano come im­prigionati nella loro povertà (1).

 

Nulla da obiettare, anzi fa piacere rilevare che la Chiesa, ufficialmente, constati e condanni le strutture economico-sociali che in buona parte sono causa della povertà di oggi; sorprende per­sino che questo venga denunciato così aperta­mente in modo inequivocabile perché «di fatto» la Chiesa, è noto, a tutti i livelli è non di rado ancora legata a tali strutture e a tali mentalità.

 

 

(1) Card. G. Villot, Lettera inviata a nome del S. Padre, in data 24-5-1970, in occasione della 57' Settimana Sociale di Francia, tenuta a Parigi dal 1o al 5 luglio sul tema «I poveri nella società dei ricchi», cfr. Osservatore Romano, 2-7-1970, pag. 1.

 

2. Prevalenza del potere economico sul potere politico

Questo processo di emarginazione nasce da una impostazione puramente economicistica su cui si fonda la nostra società, dove esiste chiara­mente un profondo squilibrio di forze fra il po­tere economico (aziende e gruppi finanziari pri­vati e pubblici) e il potere politico, sia quello costituito dalle istituzioni tradizionali (Stato, en­ti locali, partiti, sindacati) che quello che nasce dalle nuove più genuine forme di partecipazione (quartieri, associazioni, gruppi spontanei, ecc.).

Molti oggi riconoscono che nelle decisioni ha ben spesso la prevalenza il potere economico. Il potere politico si limita a razionalizzare la vita della comunità entro i termini già fissati dalle scelte del potere economico.

 

 

 

È triste, ma è così.

Oggi, però, sempre di più viene riconosciuta e condannata questa crescente ingerenza del po­tere economico su quello politico.

Di questo stato di cose sono a conoscenza, per motivi di lavoro, anche alcuni nostri elementi e per questo motivo anche in comunità se ne parla, sia pure con schieramenti diversi.

 

3. Sistema assistenziale in funzione di scelte economiche

Sono proprio la priorità dei fini produttivistici e le carenze delle risposte sociali e politiche a creare gli emarginati e i poveri. In particolare, lo sviluppo caotico, la congestione urbana, il de­pauperamento progressivo di zone che avrebbero potuto trovare valide possibilità di sviluppo, e soprattutto la disfunzione dei vari settori sociali (casa, scuola, sanità, trasporti, previdenza socia­le, salari, ecc.) creano dei bisogni che vengono convogliati verso il settore assistenziale perché siano soddisfatti e gestiti nel modo più indolore possibile, per non turbare la cosiddetta «pace sociale» necessaria al buon andamento della produzione e del consumo.

 

 

Non si può negare, oggi, la strumentalizzazio­ne dell'assistenza; inoltre molte di noi (persone di Chiesa) sono inserite in questo tipo di ingra­naggio assistenziale per un complesso di circo­stanze: tradizione, buona fede, necessità...

Si sta discutendo da un po' di tempo come poter uscire, in pratica, da questa assistenza di tipo tradizionale che ci portiamo dietro dalla fon­dazione dell'Istituto, per inserirci in un servizio più consono alle esigenze di oggi che sono poi le esigenze più profonde dell'uomo e del cri­stiano.

La difficoltà prima che è sembrata emergere dalla discussione è quella dovuta più che alla mancanza di sensibilità umana, alla mentalità delle religiose che in genere sono ancora quelle di «ieri», anche quelle animate dal cosiddetto «buon spirito».

 

4. Società dell'abbondanza e nuove forme di po­vertà

«Su questo punto bisogna che voi con corag­gio e lucidità, risvegliate la coscienza "che ha una voce nuova nella nostra epoca" (Populorum progressio, n. 47), che siate attenti ai nuovi po­veri e che vi sforziate di rimediare anche ai fat­tori di squilibrio, di disuguaglianza, di oppressio­ne di cui essi sono spesso le vittime impotenti. In una società dell'abbondanza, la povertà non si misura del resto solo in base al reddito di cui si dispone, e al livello di vita di cui si gode. Ma vi è pure una povertà che si riferisce alle condizioni di vita, al sentimento di sentirsi re­spinto dall'evoluzione, dal progresso, dalla cul­tura, dalle responsabilità. Diventato un fenome­no complesso, in cui converge l'azione di molte­plici fattori economici, psicologici e sociocultu­rali, la povertà non è solo quella del denaro, ma anche la mancanza di salute, la solitudine affet­tiva, l'insuccesso professionale, l'assenza di re­lazioni, gli handicaps fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che provengono da una incapacità a integrarsi nel gruppo umano più prossimo. In definitiva, il povero non è forse colui che non conta nulla, che non viene mai ascoltato, di cui si dispone senza domandargli il suo parere, e che si chiude in un isolamento così dolorosamente sofferto che può andare talora fi­no ai gesti irreparabili della disperazione? Una società si giudica dal posto che essa riserva ai più diseredati dei suoi membri, dalla preoccupa­zione che essa dimostra nel farli accedere a una vita pienamente umana, dove essi ritrovino delle ragioni per vivere e sperare» (2).

 

(2) Dalla stessa lettera del Card. G. Villot.

 

 

 

Quanto dice Paolo VI nella «Populorum pro­gressio» circa la povertà e i poveri nella so­cietà progredita di oggi è ovviamente una pano­ramica oggettiva della società e nello stesso tempo un programma di lavoro che viene a noi proposto con una mentalità nuova e con parole più che mai convincenti.

E questo ci ha messo in crisi da tempo; stiamo infatti revisionando un po' la nostra situazione, non ci siamo ancora slanciate molto, per non creare troppe fratture interne e non mettere «vino nuovo» in «otri vecchi» e sciupare ogni cosa; qualcosa però sembra muoversi (abbiamo ceduto a laici una clinica chirurgica a Torino e alcune suore sono rimaste a servizio degli am­malati).

 

 

5. Responsabilità della Chiesa torinese

In questa prospettiva dobbiamo giudicare la realtà torinese e il ruolo che oggettivamente vi svolge la Chiesa. In una città come Torino si pre­sentano, in forma acuta, quei fenomeni e mecca­nismi tipici di una situazione di rapida industria­lizzazione caratterizzata dal netto prevalere di scelte economiche. Occorre che i cristiani pren­dano coscienza che nella situazione in cui vive oggi la Chiesa torinese mentre gestisce, in pro­prio o su mandato, gran parte delle opere assi­stenziali, diventa di fatto (al di là delle buone intenzioni dei singoli e dei gruppi) uno strumen­to al servizio di questa inversione di valori ope­rata dalla società.

 

 

Questo fa pensare e seriamente perché siamo, sia pure marginalmente, anche noi coinvolte. Pe­rò non sappiamo e non possiamo per ora fare qualcosa in merito.

6. Nuova visione della riforma assistenziale

Oggi la riforma del settore assistenziale non si può attuare solo con il perfezionamento tecno­cratico degli strumenti d'intervento, in quanto certe nuove tecniche sono di fatto ancora al ser­vizio della razionalizzazione dell'esclusione e non mettono in discussione la scala di valori su cui l'attuale sistema si fonda.

Il non chiarito rapporto carità-giustizia fa ac­cettare da molti cristiani la povertà come un fat­to ineluttabile, a cui ci si accosta con una sfidu­cia radicale nel povero, indicato spesso come primo responsabile della sua situazione, solo per­ché non si tengono presenti i fattori più generali che producono la povertà e non ci si colloca in una dimensione di interventi più ampia e gene­ralizzata.

 

 

Quanto esposto nella «nuova visione della riforma assistenziale» presuppone la conoscenza di un più vasto problema politico-sociale che sfugge alla grande maggioranza delle religiose.

Sono affermazioni ardite ma non si possono dire non vere.

Ci sentiamo però dalla sua parte fino in fondo (non tutte, però, anzi una minoranza molto ri­dotta).

7. Scelta fondamentale della Chiesa torinese

Anche la Chiesa torinese quindi si trova di fronte alla urgente necessità di una revisione critica del suo intervento assistenziale e di una scelta fondamentale: non prestarsi in maniera acritica alle vecchie e nuove forme di assistenza programmata (da un ampio disegno socio-politico che la sovrasta e la condiziona) senza la parte­cipazione delle persone, ma in autentico spirito comunitario svolgere la sua originaria missione di animare con spirito profetico l'azione di libe­razione dell'uomo.

 

 

Per coerenza, la Chiesa torinese non può non far queste scelte, siamo noi che non riusciamo a stare al passo perché dalla maggioranza an­cora non è stato capito fino in fondo - non dico la problematica di oggi - ma lo spirito del Vangelo.

II - PRINCIPI GENERALI: COME DEVE COLLO­CARSI LA CHIESA TORINESE

 

8. Chiesa: comunione e servizio

La Chiesa è essenzialmente comunità, cioè frutto di carità e di fede in Dio che portano all'unione. Il servizio ai fratelli è la realizzazione e il segno dell'unità. Sono questi alcuni elementi essenziali dell'essere Chiesa di Cristo che emer­gono nella narrazione di Giovanni dell'ultima ce­na, dalla lavanda dei piedi alla preghiera di Gesù (Giovanni, cap. XIII-XVII).

Proprio perché il servizio ai fratelli è un segno della Chiesa, fin dall'inizio si sente il bisogno di renderlo anche ministero.

«I Dodici convocarono allora la moltitudine dei discepoli e dissero: "Non è bene che noi abban­doniamo la Parola di Dio per servire alle mense. Perciò dovete scegliere fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza, e affideremo loro questo ufficio. Noi invece continueremo ad essere assidui all'ora­zione e al ministero della parola» (At. VI, 2-4).

 

 

La Chiesa «dovrebbe» essere comunità di fe­de e di carità.

Il servizio ai fratelli «dovrebbe» essere se­gno della Chiesa.

Le parole tratte dagli Atti degli Apostoli ci sono sembrate un aperto invito per noi religiose a dedicarci ad una attività di servizio al fine di lasciare il sacerdote libero per il suo ministero, ma nello stesso tempo sembra che ci inviti a lasciare, a nostra volta, ai laici quei compiti che possono essere svolti benissimo anche da loro e forse anche meglio.

9. Carità e opere assistenziali

All'interno della comunità fraterna la diaconia, essenziale per ogni fedele, diventa anche diaco­nato, cioè ministero che si affianca a quello della parola e dell'orazione. Il servizio così concepito è frutto e funzione dell'unità fra i fratelli e come tale è più azione spontanea di carità che fatto tecnico, più missione che professione. Il mini­stero diaconale concorre a realizzare nei fatti l'ideale di fraternità e di eguaglianza annunciato dalla comunità ecclesiale, affrontando i bisogni che nascono in tale comunità nei termini di fra­tellanza in Cristo e eguaglianza in Dio Padre. Esso trae origine e si giustifica come un mo­mento della vita della comunità, la quale non si estrania dai problemi del bisogno, ma concorre solidalmente alla loro soluzione con la parteci­pazione di tutti.

Tutt'altra cosa è un servizio di assistenza. Es­so è un fatto della comunità sociale ed è quindi regolato da norme tecniche che possono sì ispi­rarsi al messaggio evangelico della carità frater­na, ma che comunque rimangono nella sfera dell'organizzazione civile.

Da questa distinzione consegue che quando un cristiano attua un'opera assistenziale diventa un operatore sociale, entra nel campo dei servizi e ne deve perciò accettare le regole, senza far con­fusioni fra carità e servizio, essendo la prima atto religioso e sostanza della comunione frater­na, il secondo fatto sociale e funzione della co­munità civile con strumenti ed obiettivi autonomi.

 

 

Grazie: queste righe ci hanno chiarito idee ancora confuse sulla distinzione tra servizio re­ligioso e servizio sociale nell'assistenza e ci han­no aperto un orizzonte quasi ignoto, tanto siamo abituate a lavorare solo e sempre nelle strutture sociali o anche religiose.

Nella misura in cui uno viene a conoscere la Verità si sente maggiormente impegnato. Sarà questo un nuovo motivo per rivedere a fondo la nostra vita e la nostra attività.

10. Comunità e impegno sociale

Poiché il servizio ai fratelli realizza concreta­mente l'unione dei credenti nella carità, il cri­stiano trova proprio nella sua fede il più efficace stimolo ad un impegno sociale. Al tempo stesso la Chiesa, riproponendo al mondo la suggestione della comunità fraterna, rilancia una delle sue funzioni originarie e può nuovamente presentarsi agli uomini nella sua fisionomia autentica come si presentò Cristo nell'annuncio del Regno di Dio.

 

 

Questa riscoperta del valore e della necessità del servizio libero e personale sembra portare un po' di ossigeno alla nostra vita di cristiane e di suore.

11. Situazione passata e prospettive attuali

Nel passato, poiché la comunità civile o non era in grado di farsi carico dell'attività assisten­ziale o gliene mancava la sensibilità, tale attività è stata organizzata in proprio dalla Chiesa, il cui impegno religioso si è tradotto nel settore so­ciale con istituzioni, spesso di notevoli dimen­sioni, che sono state per secoli una testimonian­za dell'impegno assistenziale dei cristiani.

Con l'attuale livello di organizzazione sociale e di sviluppo tecnologico, che esiste nell'area torinese, la comunità civile è oggi in grado di as­sumersi tutti questi settori, a patto che una di­versa volontà politica capovolga i criteri che de­terminano le scelte prioritarie negli investimen­ti; in conseguenza di questo processo la Chiesa potrà gradualmente alleggerirsi delle sue opere assistenziali.

Ma intanto nella nostra società il bisogno ri­mane: risolto un problema ne nasce uno nuovo, vinto un tipo di bisogno un altro si produce, tal­volta come una delle conseguenze dello stesso progresso tecnico che ha permesso di debellar­lo, per cui può nascere l'opportunità di nuove presenze.

Ma là dove l'impegno temporale può continua­re ad avere una funzione, la Chiesa dovrà avere chiara coscienza di non agire come tale e per­tanto di occupare un posto non suo, che succes­sivamente deve accettare, anzi cercare di cedere in spirito di vero servizio.

 

 

Pieno l'accordo da parte di alcune religiose, parecchie riserve da parte della maggioranza che vede l'assistenza organizzata ancora come com­pito specifico, così come era un secolo fa, non rendendosi conto che il momento storico è cam­biato e di molto.

12. Compito specifico della Chiesa oggi

Ciò che deve caratterizzare la missione del cristiano e della Chiesa oggi, in una società la cui rapida trasformazione tecnologica minaccia di soffocare l'uomo, deve essere un preciso im­pegno per un progresso al servizio dell'uomo nella sua integrità.

Le nuove situazioni economiche e sociali crea­no un nuovo tipo di poveri e questi chiedono alla carità modi nuovi di attuarsi. Ne consegue l'ine­vitabile abbandono delle vecchie forme assisten­ziali e la revisione dell'atteggiamento dei cri­stiani, in particolare del genere di impegno delle stesse vocazioni religiose.

 

 

III - ORIENTAMENTI OPERATIVI NELLA SITUA­ZIONE TORINESE

 

13. Promuovere e denunciare in difesa dell'uomo

Adempiere ad una fondamentale istanza della carità che è quella di svolgere un ruolo di promo­zione e di difesa a favore dell'uomo nei confronti della comunità civile. Per assumere tale ruolo è necessario che i cristiani sgombrino il terreno dalle preoccupazioni di rispettare e accettare il sistema in cui devono operare.

Quando accade che il sistema attua le sue scelte prioritarie in base alla legge del profitto e alle istanze del progresso tecnologico confi­nando ai margini della società i più deboli e i meno dotati, il primo dovere della carità è quel­lo di denunciare con fermezza, il secondo è quel­lo di operare perché il sistema si umanizzi tra­sformando la sua logica e correggendo la sua scala di valori.

Denuncia e promozione sembrano essere in questo momento gli impegni più gravi della Chie­sa torinese e delle sue componenti.

 

 

Sono parole forti, ma non si possono e non si devono controbattere: mettono il dito sulla piaga. Per noi è sembrato un dovere di coscienza orientarci in questa visione di cose. Certo oc­corre coraggio, e non aver paura di compromet­terci e di perderci.

La maggioranza delle nostre suore però non è disposta: occorre ancora tempo e pazienza; oc­corre opera di sensibilizzazione e di convinzione, anche se non si troveranno mai tutte concordi su questa visione delle cose.

14. Responsabilizzare la comunità civile

Stimolare la comunità civile ad assumersi le funzioni e attività che le sono proprie, prepa­rando il passaggio in spirito di collaborazione, senza speculazioni e rimpianti. Tale politica as­sume particolare rilievo in questo momento in cui la competenza nel settore assistenziale viene trasferita dallo Stato alle Regioni.

Una serena programmazione di questo gradua­le passaggio non suonerà disarmo e rinuncia. Un modo, ad esempio, di non disarmare è quello di non lasciare inutilizzato personale qualificato che può benissimo operare anche in una istitu­zione laica, senza togliere nulla al valore della propria testimonianza cristiana.

Inoltre nella visione pluralistica di una società aliena da qualsiasi totalitarismo, l'operazione di trasferimento non significa di fatto una rinuncia alla attività assistenziale, bensì un ridimensiona­mento doveroso di essa.

 

 

Esatto: a condizione però che si sia preparate sul serio per prestare servizio nelle istituzioni laiche.

15. Proporre esperienze nuove

Tentare esperienze nuove là dove spazi vuoti possono costituire un invito a mettersi a servi­zio dell'uomo con rinnovata energia. In questo caso la carità stimola l'inventiva e l'ardimento e non potrà dar luogo a sospetti di interferenza e di concorrenza il fatto che si è presenti dove nessuno lo è ancora.

 

Ci sembra necessario tentare esperienze nuo­ve, ma incontriamo sempre due ostacoli: il «di­lettantismo» che semplifica tutto e trova tutto facile, e l'eccesso opposto: il «perfezionismo» che nulla mai farebbe per timore sempre di sba­gliare e di non fare bene come si vorrebbe.

Questo stato di cose ci paralizza nelle deci­sioni da prendere.

 

16. Animare le istituzioni assistenziali

Animare le istituzioni assistenziali con la pre­senza in esse di operatori specializzati che con la loro qualificazione professionale più seria por­tino l'aspirazione a testimoniare il Vangelo attra­verso l'impegno del proprio lavoro svolto non solo come servizio ma in spirito di servizio.

 

 

Comprendiamo che per continuare l'attività nelle istituzioni assistenziali occorrerebbe non solo migliorare locali e strutture, ma anche aver «operatori specializzati», cosa però che si rea­lizza sì, ma in genere non nella misura in cui sarebbe necessario.

17. Proporre il modello della comunità cristiana alle istituzioni civili

Realizzare delle comunità autenticamente evan­geliche dove il fratello più bisognoso è a carico di tutti e non solo non viene estromesso perché è il più debole e il «più piccolo», ma anzi è il più importante perché più atto a rappresentare Cristo: nelle sue applicazioni sociali questo è anche il modello che si propone alla comunità civile che viene così chiamata in causa, perché si faccia carico del problema assistenziale e ne ricerchi comunitariamente le soluzioni più valide per una crescita armoniosa e integrale della per­sona.

Proposte come quella fondamentale delle uni­tà locali dei servizi, della creazione di focolari in sostituzione degli istituti, dell'affidamento fa­miliare, dell'adozione, dei servizi di aiuto alla famiglia per evitare l'internamento dei minori e degli anziani, sono esattamente discorsi di ap­plicazione profana e tecnica delle istanze della carità e del significato concreto della comunione dei fratelli.

 

 

 

Come proposta nulla da obiettare, anzi è quan­to di meglio si possa desiderare come uomini e come credenti.

Il difficile in pratica è dare noi il modello of­frendo l'esempio delle nostre comunità...

18. La linea comunitaria nelle nostre istituzioni

Per quanto riguarda gli istituti ad internato con personale religioso realizzare tutto ciò che fin d'ora è possibile fare nella linea comunitaria. Alcune proposte possono essere fatte e attuate subito, ad esempio vivere con gli assistiti, par­tecipare alla loro vita, anche nelle forme ester­ne, e ai loro problemi, farli partecipare alla ge­stione dividendo con loro le responsabilità, di­battendo insieme le questioni di interesse co­mune relative all'andamento dell'istituzione e al­la società in cui sono inserite. Lo spirito comu­nitario spingerà a cercare il dialogo e la parte­cipazione nei confronti della comunità in cui l'istituto assistenziale opera, e ciò per quanto riguarda persone, gruppi ed enti.

 

 

Il nostro personale religioso, nella maggioran­za dei casi, non è adatto a tale tipo di assistenza; per mentalità e preparazione sta in piedi solo continuando il ritmo tradizionale.

È doloroso rilevarlo, ma è la verità.

19. Credere nei mezzi poveri

Scegliere i mezzi più poveri. La fede nello Spi­rito e nella potenza della carità deve spingere a rifiutare la identificazione tra l'amore ai poveri e la necessità di opere, di strutture, di mezzi economici.

Il segno che la Buona Novella viene annun­ciata ai poveri non si ritrova negli strumenti ma­teriali, ma in alcuni essenziali atteggiamenti pro­fetici quali la pratica della povertà, il dialogo con i poveri, l'ascolto dei loro problemi, l'accoglien­za, l'ospitalità, il servizio e la partecipazione alla loro vita dividendo con tutti ciò che si è e ciò che si ha.

 

Per noi questo punto è stato il più rivoluzio­nario di tutti, perché abbiamo sempre dato molta importanza agli strumenti materiali del nostro apostolato.

Andiamo comprendendo adesso, anche per esperienza personale, come la povertà dei mez­zi, se unita allo spirito evangelico, dà potenza ed efficacia all'opera apostolica.

Andiamo comprendendo, dico, ma abbiamo a questo riguardo ancora tanta strada da fare.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it