Prospettive assistenziali, n. 17, gennaio-marzo 1972

 

 

DOCUMENTI

 

NEUROPSICOFARMACOLOGIA COME REPRESSIONE (1)

GIULIO A. MACCACARO

 

 

Se a questo mio intervento seguirà una di­scussione, mi auguro che nessuno riterrà neces­sario ricordarmi che ci sono psicofarmaci ca­paci di dare beneficio a certi malati e malati che trovano sollievo nell'assunzione di certi psico­farmaci.

Il problema che intendo proporre è un altro: il passaggio dalla sperimentazione psicofarmaco­logica come caso particolare del più generale uso medico dell'uomo - già analizzato altrove come momento di violenza classista - all'uso dello psicofarmaco come modello generale di quella gestione repressiva della società capita­lista che nella medicina ha soltanto uno strumen­to particolare.

Non mi sfuggono né la gravità di questa enun­ciazione né il dovere di giustificarla, né la diffi­coltà di adempiere a tale dovere nel breve tempo a mia disposizione.

Per questo, consegno alla Presidenza fotoco­pia di un lavoro intitolato «Sperimentazione tera­peutica della propericiazina in bambini di 3-6 anni» a firma di G. Battista Cavazzuti, Filadelfo Amore e Maurizio Giacalone, pubblicato da pag. 288 a pag. 302 del volume 98 della rivista «Neu­ropsichiatria infantile» del 1969.

È possibile e mi auguro che gli autori siano presenti in quest'aula perché il lavoro è stato compiuto a Modena, come collaborazione dell'Ufficio Igiene e Sanità del Comune, diretto dal prof. F. Vivoli e della Clinica Pediatrica Univer­sitaria, diretta dal prof. Renato Pachioli.

Il mio intervento sarebbe già svolto se dessi lettura integrale di questo lavoro, scelto solo per ragioni di prossimità topografica tra molti altri analoghi. Dovrò invece riassumerlo e cor­redarlo con qualche altra notizia:

1) Il lavoro precisa che il farmaco sperimentato è il «Neuleptil», una specialità della ditta Farmitalia, che viene ringraziata in una nota a piè di pagina 295.

2) Da autorevoli fonti, non industriali, di lingua inglese, leggo testualmente che il «Neulep­til» «è usato per la cura della schizofrenia acuta e cronica e per la correzione delle tur­be comportamentali nelle malattie psichiatri­che gravi. È anche utile nella cura della an­sietà grave e degli stati di tensione».

3) Dalle stesse fonti leggo che gli «Effetti tos­sici» gli «Antidoti» e le «Controindicazio­ni» del Neuleptil sono gli stessi della Clor­promazina, con una segnalazione particolare di «ipotensione posturale e tachicardia» per i bambini.

4) Leggo infine che, nei bambini affetti dalle ma­lattie per le quali il Neuleptil è indicato, la dose iniziale non deve superare 0,5 mg al giorno per anno di età e cioè 1,5 mg per bimbo di 3 anni e 3 mg per un bimbo di 6 anni.

Date queste documentate premesse è natu­rale chiedersi in quale ospedale psichiatrico i colleghi di Modena abbiano trovato i loro piccoli pazienti, e da quali «gravi malattie psichiatri­che» gli sventurati fossero affetti.

La risposta la leggo testualmente nel lavoro a pag. 293: «Per le nostre esperienze abbiamo scelto i bambini frequentanti le Scuole Materne Comunali di Modena. Tale materiale ci ha assi­curato una soddisfacente omogeneità di speri­mentazione, trattandosi di soggetti osservati dal­lo stesso personale, negli stessi orari e nello stesso ambiente. Inoltre il rilievo dei comporta­menti dei bambini ha potuto essere effettuato da persone competenti, libere dalla suggestione fa­miliare».

Leggo ancora a pag. 294: «Su un totale di 629 bambini di età compresa tra 3 e 6 anni frequen­tanti 6 scuole materne, sono stati scelti per la sperimentazione 150 soggetti, segnalati per tur­be del comportamento nell'ambito della scuola».

A proposito di tale segnalazione merita di es­sere ricordato che in una noticina a piè di pa­gina 293 «gli autori ringraziano il corpo inse­gnante delle scuole materne comunali per la va­lida collaborazione».

Alla segnalazione-denuncia segue l'istruttoria, cioè usando le parole degli autori: «tutti i bam­bini sono stati sottoposti ad un periodo di osser­vazione preliminare di 6 giorni, durante il quale, giorno per giorno, sono state annotate l'inten­sità e la frequenza dei disturbi».

Alla fine i capi di accusa contro i 150 piccoli criminali di 3, 4 o 5 anni sono ormai formulati con la inappellabile severità del linguaggio me­dico-scientifico: «aggressività, crisi di collera, isolamento, mutacismo, anoressia nervosa, vo­miti funzionali, enuresi diurna o notturna, enco­presi, onicofagia, masturbazione, fobie, sonnam­bulismo, balbuzie».

Ma che città è Modena, dove 1 infante su 4 nelle scuole comunali ordinarie è in queste con­dizioni? La domanda ha tanto più senso se si ricorda che alla guida della ricerca partecipava il direttore dell'Ufficio igiene e sanità del Co­mune. Ma egli non poteva porsela perché aveva già stipulato con gli altri autori la clausola meto­dologica che si legge a pag. 294: «restare nel piano dell'osservazione obbiettiva, quindi feno­menologica, senza spingersi ad interpretazioni nosografiche e motivazionali dei comporta­menti».

Il dibattimento è dunque inutile, la flagranza è indubbia, la sentenza definitiva: si tengano 50 bambini in osservazione come controllo e agli altri 100 si somministrino per 40 giorni da 4 a 6 mg al giorno di Neuleptil: cioè il doppio della dose massima indicata dai trattati internazionali.

I risultati appaiono subito eccellenti: i piccoli rei di aggressività e crisi di collera diventano «adattati, socievoli e tranquilli». Quelli colpe­voli di «isolamento e mutacismo» si omogeniz­zano con gli altri. Qualcuno che aveva il «vomito funzionale» non sporca più. Uno che si mastur­bava perde interesse alla faccenda. Con gli enu­retici e i balbuzienti le cose vanno meno bene ma non sarà questo ad impedire agli autori di affermare compiaciutamente a pag. 296 che il Neuleptil ha operato nei bambini un vero «cam­biamento di carattere». Pertanto il «Commento conclusivo» da pag. 298 a pag. 299 può essere prima illuminante quando dichiara che i compor­tamenti devianti sono «fenomeni reattivi di per­sonalità affettivamente immature», poi sugge­stivo quando afferma che il Neuleptil è un medi­camento capace di «aprire ai pazienti prospetti­ve di corrette relazioni interumane e ambientali» perché, tra l'altro «sembra rimuovere quelle ca­riche aggressive che condizionano la reattività abnorme», infine trionfale quando conclude l'elo­gio definendolo: «farmaco elettivamente socia­lizzante anche per il bambino di 3-6 anni frequen­tante la scuola materna».

Le insegnanti, già ringraziate, ringraziano com­puntamente. La Farmitalia, compuntamente o no, non è certamente da meno.

Ed il lavoro va alle stampe su una rivista scien­tifica il cui comitato direzionale e referenziale è probabilmente molto rappresentato in questa sala.

Ebbene, questo lavoro - che non è più censu­rabile di molti altri - è una piccola summa di tante cose.

La manifesta incapacità di intendere del sog­getto della sperimentazione, il diaframma alzato tra i bambini-cavia e la loro famiglia, l'uso disin­volto di dosi elevate, l'esposizione a pericoli di vario genere: sono i connotati di un volto che abbiamo già conosciuto e descritto come quello di una sperimentazione che è violenza sull'uomo, compiuta nell'indifferenza morale camuffata da neutralità scientifica. Riconoscerli sulla base di questo e di molti altri lavori che aggravano il mio archivio significa constatare che la speri­mentazione neuropsichiatrica in generale e quel­la neuropsicofarmacologica in particolare non si distinguono eticamente dalle altre concepite e compiute in diversi settori della medicina clinica. Questa era la prima parte della tesi che ho inizialmente proposta.

Vorrei dedicare i minuti che mi restano allo sviluppo della seconda. Posso farlo riferendomi ancora al già citato lavoro.

Sulla scena che vi ho presentata, leggendone fedelmente il copione, sono apparsi i quattro personaggi di primo piano in ogni storia di que­sto genere: l'industria, l'istituzione, la scienza e l'autorità. La parte dell'industria farmaceutica è abbastanza risaputa; cito da SCIENCE: «al fine di espandere il mercato potenziale per i suoi pro­dotti, essa cerca di ridefinire e riclassificare, come problemi medici che richiedono l'uso di farmaci, un ampio spettro di comportamenti uma­ni naturali che sono parte dei cimenti e delle prove della nostra esistenza...» (LEONARD, EP­STEIN, BERNSTEIN e RANSON, 1970).

Che cos'è infatti l'aggressività di un bambino? Risponderò con SHIELDS (1971): «il tentativo di costringere l'ambiente ad occuparsi, anche reat­tivamente, di lui, a mitigare la sua delusione affettiva».

È la domanda di un bene smarrito, non di 10 gocce di Diazepam. Cosa significa la collera di un fanciullo? Risponderò con WINNICOTT (1958): «un segno favorevole nella misura in cui è in­terpretato ed usato come superstite possibilità di recuperare un rapporto perduto», non una pa­stiglia di clordiazepoxide.

Cosa significa il primo furto di un ragazzo? Risponderò con ZILBOORG (1954): «chi di noi non è cresciuto un ladro è stato un bambino for­tunato. Fortunato perché nel giorno del suo pri­mo piccolo crimine egli è stato amato ed ha po­tuto restituire il suo amore» non perché gli sono stati somministrati 6 mg di propericiazina.

Ma non tutti i bambini sono fortunati e quelli poveri lo sono meno degli altri.

Per essi aggressività, collera, furto sono non soltanto l'espressione di una delusione affettiva ma di una deprivazione obbiettiva, dicono non solo l'insufficienza di un rapporto familiare ma anche quella di un possesso di cose con le quali

e sulle quali gli altri bambini crescono e diven­gono. Chi erano socialmente quei 150 fanciulli «segnalati» dalle insegnanti, quali discriminanti di classe avevano contribuito a separarli dagli altri per farne degli «imputati di devianza»?

Non c'è traccia di risposta a questa domanda, anzi ce n'è il rifiuto. Non sarà certo l'industria farmaceutica a riproporla. Il suo pensiero in pro­posito ci è noto perché - quali ne siano le buo­ne intenzioni coltivate nei laboratori e dichiarate nei congressi - il suo messaggio, diffuso tra i medici e insinuato nella popolazione, è sotto gli occhi di tutti: dice che il LIBRIUM può tacitare l'ansia prodotta negli operai da un lavoro peri­coloso e da un cottimo assillante; suggerisce l’ATARAX per domare l'inquietudine dei giovani e alla depressione degli sconfitti propone il con­forto del TOFRANIL.

Così facendo e così assumendo per sé quell'onere e quell'onore della ricerca cui accennava con tanta considerazione il collega Buscaino, es­sa non serve soltanto il capitale farmaceutico, ma si rende benemerita del capitale quale siste­ma: per farlo come si deve ha bisogno però, a sua volta, di essere servita dalla scienza medica e dall'autorità sanitaria.

Ed ecco allora comparire l'una e l'altra sulla scena della nostra favola nera. Ecco il pediatra universitario che sceglie i suoi soggetti speri­mentali secondo criteri e giudizi dei quali si ri­tiene il solo autorizzato titolare, secondo scelte e discriminazioni per le quali non ha ritenuto necessario il consenso, secondo propositi e ri­sultati dei quali incredibilmente si compiace. Chi gli ha dato il diritto di «cambiare il carattere» di un bambino? Chi gli ha permesso di compiere questa così violenta operazione «libero da sug­gestioni familiari»? per conto di chi ha chiuso gli occhi su tutto ciò che in quel carattere di quel bimbo poteva essere ietto intorno alla si­tuazione di quella famiglia?

E in nome di quale autorità il Medico Capo del Comune, che qui doveva tener luogo di quel «Comitato» cui non credo anche se credo che il collega Terrori ci creda, ha legalizzato questa «strage delle devianze innocenti» aprendo al nuovo Erode in pillole le porte di quelle Scuole Materne cui le madri consegnano ogni mattina i loro bimbi con ben altre intenzioni, con ben altre speranze? Facile operazione del resto in una istituzione - il quarto personaggio! - che segnala il 25% dei suoi membri come portatori di «turbe del comportamento» avviandone per­ciò stesso più d'uno alla carriera di stigmatizzato ed escluso, come alternativa a quella di concul­cato e represso.

A questo punto l'esperimento può diventare «routine» e infatti, a distanza di 20 mesi e di venticinque chilometri, si scopre che nell'asilo-­nido dell'ONMI di Reggio Emilia il VALIUM 2 vie­ne somministrato sistematicamente a lattanti perfettamente sani al solo scopo di evitare che piangano e disturbino.

La repressione neuropsicofarmacologica può cominciare dalla culla, è già cominciata. Ma per l'istituzione, l'autorità, la scienza medica e l'in­dustria essa ha altro nome: si chiama socializ­zazione. È questa incauta parola, usata dai nostri colleghi, che rivela l'identità del mandante: il sistema capitalista che sta facendo qui come altrove le sue grandi manovre per trasferire nell'area medica e risolvere nel piano farmacologico la conflittualità sociale e particolarmente giova­nile.

È questo sistema, che dettando alla società i suoi modi di produzione, subordinando alle esi­genze del suo profitto quelli della convivenza, piegando al suo bisogno di conformismo l'origi­nalità dell'individuo, sacrificando alla divisione del lavoro l'unità del singolo e della famiglia, ef­fettivamente lacera il tessuto, sfregia il volto della società.

È lui che produce la malattia come conflitto, ed è quindi ancora lui che gestisce la medicina come repressione, perché la ribellione sia espul­sa come malattia e la malattia sia soffocata co­me ribellione.

È questa medicina che dopo aver aiutato l'indi­viduo a interiorizzare tutte le contraddizioni del sistema fino a soffrirne come di proprie, fino a smarrire ogni equilibrio e benessere, gli vieta persino l'espressione della sua sofferenza che sarebbe denuncia delle sue cause: all'appello dei sintomi risponde o negandoli, con il trasferimen­to del malato nel ruolo del disadattato, o silen­ziandoli con il bavaglio della sedazione farmaco­logica.

Così anche i rapporti più naturali si deforma no, come ha detto bene anche il collega Giberti: chi doveva essere difeso è definito offensore, chi doveva difendere è abilitato all'offesa. Con l'uso sociale dello psicofarmaco è il medico che si di­fende dal malato, l'insegnante dall'allievo, il pa­dre dal figlio.

Più atrocemente ancora è il fanciullo che viene indotto a difendersi da se stesso, da ciò che in lui è più naturale, vivo ed urgente. Quel fanciullo diverrà ragazzo, giovane e uomo: e avrà impa­rato che c'è un altro modo di porsi in rapporto con la realtà. Non già come impegno di lotta soli­dale, ma come fuga solitaria: nel farmaco o nella droga, che differenza fa? Eppure fa differenza perché se il primo lo avrà ridotto alla conformità necessaria, cioè alla autorepressione spontanea, egli sarà tollerato da chi invece non gli conce­derà alcuna pietà se nella seconda avrà cercato un'illusione di rivolta.

È comunque e sempre una rivolta contro il terrore di non essere, una domanda di aiuto per ­esistere ciò che grida nel pianto di un bimbo, nel gesto aggressivo di un fanciullo, nel tremore di un ansioso, nel lamento di un depresso. nella imprecazione di un folle.

Quando avremo soffocato questo grido, quando la protesta sarà afona, la sofferenza muta, la collera spenta, quando finalmente crederemo di poterci ascoltare l'un l'altro, non resterà più nulla da dirci: soltanto un vuoto silenzio nel qua­le risuoni la voce del potere.

Ho finito. Anch'io sono stato aggressivo, col­lerico, urtante ma non mi giustifica l'inconsape­volezza del bimbo. Eppure, come la sua anche la mia accusa è una domanda, la mia protesta è una speranza. Formulate dall'interno di un siste­ma nel quale io stesso vivo il mio impegno, ma anche la mia contraddizione.

Per questo non ho caro quello che ho detto, ma l'ho detto per chi mi è caro: un altro medico come me, un altro ricercatore come me, un altro insegnante come me che dia a me la certezza che ho cercato di suscitare in lui. Che in ogni punto del sistema - in ogni sede, in ogni lavo­ro, in ogni funzione - c'è un posto di lotta se vogliamo combatterla insieme, insieme con i compagni della unica lotta che conti.

 

 

 

(1) Intervento presentato alla IV riunione della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia (Bologna, 23-24 ottobre 1971).

 

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