Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre 1971

 

 

STUDI

 

RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI Di CATEGORIA

GIANNI SELLERI

 

 

La libertà di associazione e l'organizzazione «pluralistica» dell'assistenza indicata nell'arti­colo 38 della Costituzione hanno favorito nel dopoguerra un'abnorme moltiplicazione di enti e di associazioni che operano (spesso senza con­trollo) soprattutto nel settore degli handicappa­ti. È evidente come il fenomeno concorra ad au­mentare il disordine nella assistenza ed a com­promettere la definizione e la attuazione di un sistema unitario di sicurezza sociale.

Nel discorso sulla situazione e le prospettive della assistenza pubblica e privata in Italia, è quindi importante analizzare il ruolo svolto dalle «associazioni di categoria»: quelle che traggo­no origine dall'antica legge del 1890 e quelle che sono sorte e si sono giuridicamente giustificate dopo l'ordinamento costituzionale.

Nell'evoluzione storica della beneficenza pub­blica, dalla fine del secolo scorso all'instaura­zione della Repubblica, si possono distinguere fasi ideologiche diverse.

Abbiamo anzitutto un primo nucleo di motiva­zioni di ordine moralistico e caritativo nei con­fronti dei poveri, degli abbandonati e degli ina­bili per i quali si sviluppa l'azione di rappresen­tanza legale e di tutela delle Congregazioni di Carità (più tardi ECA), delle istituzioni pubbli­che di assistenza e beneficenza (tutt'ora operan­ti), delle istituzioni elemosiniere e della munifi­cenza «di privati facoltosi»; questo momento risente della contrapposizione fra Stato e Chiesa e della volontà di laicizzare e centralizzare la beneficenza.

Successivamente l'assistenza trae spunto da ragioni di pubblica sicurezza (repressione dell'accattonaggio, segregazione degli «alienati», tutela dell'ordine morale: protezione delle giova­ni e delle donne già prostitute) e si giunge ad una gestione repressiva (organizzata in istituzio­ni totali), tanto che si configura una vera e pro­pria penalizzazione del bisogno e della devianza.

Nel periodo fascista l'assistenza pubblica si indirizza inoltre alle cosiddette categorie post­belliche che hanno «bene meritato dalla pa­tria» mutilati, ex-combattenti, reduci, profughi, ecc.

Da ultimo (e contemporaneamente alla crea­zione di Enti istituzionali quali l'ONIG, l'ONMI, ecc.) emergono tendenze assistenziali, a carat­tere prevalentemente sanitario, nei confronti di particolari gruppi di handicappati ed ammalati (tubercolotici, encefalitici, luetici, poliomielitici, ed altri) e nel periodo post-concordatario si ha una forte ripresa della gestione «religiosa».

Su questo filone di interventi frammentari, settoriali e classificatori s'innesta l'espansione delle associazioni di categoria e si crea una dina­mica tutt'ora in atto per cui ad ogni tipo di biso­gno o di menomazione, corrisponde un sodalizio, con o senza personalità giuridica, i cui compiti sono la tutela e la protezione degli interessi ma­teriali e morali dei propri iscritti (riguardo ai quali ci si propone spesso «l'elevazione spiri­tuale») ed un costante sforzo per ottenere privi­legi e assistenza economica.

Per limitarci al gruppo degli invalidi civili (che sono coloro che hanno subito una diminuzione della capacità lavorativa non inferiore ad un ter­zo, non per causa di guerra, di lavoro o di servi­zio ed esclusi i ciechi ed i sordomuti), si pos­sono, fra le più importanti associazioni, ricor­dare quelle dei mutilati ed invalidi civili in senso generale (oltre 20), quella per gli spastici, per gli irregolari psichici, dei poliomielitici e altri mi­norati fisici, per i miodistrofici, dei laringecto­mizzati, per la sclerosi multipla e molte altre.

Nell'ambito di ciascuno di questi gruppi agi­scono poi in concorrenza una ridda di associa­zioni minori derivate da scissioni, contamina­zioni, proliferazioni, interessi economici, interes­si politici, gestione di istituti, di servizi sani­tari, di corsi di addestramento, di laboratori, di vacanze, di pubblicazioni periodiche, ecc.

Molte di queste ultime associazioni hanno con­sistenza provinciale o comunale e sussistono per la possibilità di effettuare una annuale raccolta di fondi, di ottenere un contributo dal Ministero dell'interno, lo 0,1% dei fondi destinati alla be­neficenza dalle lotterie nazionali e altre appaiono e scompaiono nei tre o quattro mesi di una cam­pagna elettorale.

Dopo questa prima panoramica è opportuno chiedersi, riferendoci alle associazioni a caratte­re nazionale, quale sia stata la loro origine e qua­le sia in generale la loro metodologia e funzione in senso politico e sociologico.

Dopo che nel 1954 i ciechi civili ottennero «con una marcia» la concessione di un assegno a vita e la istituzione di un proprio Ente, si veri­ficò una sorta di reazione a catena fra tutti gli altri gruppi di handicappati la cui azione si svi­luppò sostanzialmente su due direttrici alterna­tive: ottenere con pubbliche manifestazioni pen­sioni e riconoscimenti giuridici; oppure attuare servizi assistenziali di emergenza. Sulla prima linea ritroviamo anzitutto la LANMIC e sulla se­conda, a titolo esemplificativo, l'Associazione per gli Spastici; la prima ottenne dal 1962 in poi, con le «marce del dolore», una legge sul collo­camento obbligatorio, interventi sanitari, un as­segno mensile di assistenza, l'istituzione di un Ente pubblico (siamo sulla linea rivendicativa dei ciechi, degli invalidi del lavoro, di guerra, ecc.) ; la seconda, sorta per iniziativa di genitori, promosse urta legge per l'assistenza sanitaria (1954) e gestisce attualmente diverse decine di centri di riabilitazione convenzionati con il Mini­stero della Sanità (siamo nell'ambito ideologico IPAB).

All'origine di questi movimenti vi è dunque la condizione di bisogno e di abbandono di cittadi­ni minorati i cui diritti vengono però sempre va­lutati secondo un'ottica settoriale o parziale de­finita dal tipo di handicap, anziché da una visione globale della persona, e poiché molti di questi sodalizi ottengono un qualche successo politico o economico (che pochi traducono in servizi e molti invece strumentalizzano), si verifica una vera e propria gara per accaparrarsi la «tutela» di qualche gruppo ancora senza sigla.

Compaiono quindi i professionisti dell'assi­stenza, l'assistenza diventa un affare economico ed elettoralistico, una fascia ambigua di attività, in cui convergono speculazioni e impegno socia­le, autenticità e delinquenza, truffa ed abnega­zione, clientelismo e lucro.

Dal punto di vista organizzativo e funzionale si può osservare che nella stragrande maggio­ranza delle associazioni di invalidi sono rifluiti alcuni principi fondamentali della assistenza pub­blica quali la presa in carico totale degli aderen­ti (tutela e rappresentanza), il paternalismo, la contaminazione di motivazioni giuridiche ed eti­che e soprattutto una implicita sfiducia nelle ca­pacità degli handicappati di gestire in proprio un discorso politico collegato con i temi evolutivi della realtà sociale e comunitaria del paese.

Né si può dire che questi difetti di fondo ven­gano mitigati dalla struttura delle associazioni, anche se i loro organismi sono elettivi, perché di fatto la « base » associativa è costituita da mi­nori o da persone che vivono in stato di isola­mento, di marginalità e perciò partecipano solo occasionalmente alla vita associativa (1).

Nella maggioranza dei casi è quindi facile orientare ed indirizzare le categorie secondo una alternativa che oscilla fra i poli del paternalismo e della demagogia facendo leva ora sulla prote­sta e la contrapposizione, ora su sentimenti soli­daristici-pietistici.

Si può affermare che negli ultimi venti anni l'associazionismo degli invalidi anziché garantire il pluralismo e l'evoluzione della assistenza, ha finito per essere, a causa del suo frammentari­smo, strumento di conservazione e di parzialità anche perché condizionato economicamente e giuridicamente dalla classe politica e burocra­tica e quindi non ha seguito e addirittura ritarda il progresso delle politiche sociali.

Uno dei principali compiti della Direzione ge­nerale dell'assistenza pubblica del Ministero dell'interno è «la vigilanza, l'indirizzo e l'impulso nei confronti degli enti assistenziali a carattere nazionale e degli enti assistenziali pubblici e privati operanti a livello locale».

È difficile dire se ha fatto parte di un disegno politico preciso, esercitare tale «alta vigilan­za» (che è poi soprattutto il dare e non dare sol­di), in modo che i cittadini in stato di bisogno fossero suddivisi e classificati.

È certo comunque che il favorire e sostenere questa frammentazione dell'assistenza, ha con­sentito di rinviare i problemi di fondo della so­cietà nella sua dimensione partecipativa e de­mocratica.

Riteniamo tuttavia che sia rilevante analizzare il risvolto sociologico di questa particolare for­ma di associazionismo per esclusi e stigmatiz­zati.

Si può anzitutto rilevare la distorsione concet­tuale che sta alla base della definizione di cate­goria, quando questa assume come motivo di af­filiazione o di appartenenza al gruppo un han­dicap fisico o psichico o sensoriale e quando i leaders finiscono per fare del proprio stigma una «professione».

È evidente che finché le associazioni di inva­lidi sono o restano dei movimenti di promozione sociale, di sensibilizzazione pubblica o di pres­sione politica, essi rientrano funzionalmente in una logica democraticamente corretta e sociolo­gicamente motivata; ma quando questi gruppi costituiscono un insieme «di compagni di soffe­renza» cui si deve necessariamente appartene­re perché ci si identifica come diversi rispetto all'ambiente sociale, allora il gruppo stesso di­venta uno strumento di esclusione e di autose­gregazione.

A questo fatto è conseguente che i dirigenti anziché politicizzare i problemi del gruppo fini­scano per attuare degli schemi ideologici seces­sionistici fino ad esaltare la specifica menoma­zione come un «valore», come un segno distin­tivo e definitivo.

Per attirare poi l'attenzione sulla situazione di vita degli appartenenti al gruppo si trasforma in immagine pubblica la propria diversità e si definisce un gruppo sociale distinto; mentre si elencano i soprusi subiti e si protesta contro la società che respinge ed emargina, si rinuncia al­la integrazione e si preferisce rimanere separati dalle persone «normali».

In definitiva il chiedere privilegi, particolari forme di tutela e di assistenza, una specifica configurazione giuridica, significa per gli invali­di accettare e confermare gli stereotipi della devianza e la negazione della propria dignità e identità sociale.

In questa realtà consiste il più grave fallimen­to dell'associazionismo tra invalidi e da questa fenomenologia scaturiscono ulteriori deviazioni sul piano politico e legislativo.

Di fronte alle problematiche ed alle proposte di riforma di soppressione degli enti e di decen­tramento della assistenza, intesa come servizio per tutti i cittadini, così come la sanità e la pre­videnza, gli enti pubblici nazionali di assistenza, d'accordo con il Ministero dell'interno, organiz­zano un disegno di radicale conservazione.

Interessa al Ministero dell'interno conservare il controllo dell'assistenza (e su vasti strati di popolazione possibili turbatori dell'ordine pubbli­co), interessa agli enti conservare organici e cospicui stanziamenti, patrimoni e funzioni pub­bliche.

Il sistema assistenziale italiano è una indefi­nita stratificazione di interessi, di norme, di leg­gine, di decreti ed emergono motivate proteste e chiari interrogativi sul tipo di intervento, sui destinatari, sulle modalità di erogazione, sui bi­sogni, sui costi di gestione, sulle fonti di finan­ziamento.

Ma è comunque evidente che l'assistenza è un grosso affare, dietro ogni ente c'è un partito, collegata ad ogni associazione o istituto c'è una congregazione religiosa, un prefetto, un onore­vole, un alto burocrate o almeno un gruppo di elettori. Di qui la vischiosità del sistema e la credibilità di un discorso che faccia riferimento a interessi parziali.

Non interessa ora documentare questa situa­zione, quanto piuttosto rilevare i pretesti e le «giustificazioni» che si contrappongono agli in­tenti di riforma.

L'Opera Nazionale Invalidi di Guerra che ha ovvi problemi di sopravvivenza, tenta di unificare tutti gli enti che assistono invalidi nell'Opera Nazionale Invalidi (O.N.I.) e propone le seguenti giustificazioni: a) che ogni cittadino portatore di invalidità è costantemente impedito in ogni aspetto della sua vita e nei rapporti con la col­lettività, la quale fonda ogni sua normativa sulla misura del cittadino integro; b) che i cittadini invalidi costituiscono, nel loro complesso, un in­sieme nettamente distinto dal popolo italiano; c) che la Costituzione ha nettamente distinto dalla generalità dei cittadini coloro che perma­nentemente sono inabili e minorati; d) che la Costituzione, evidenziando la figura del cittadino invalido, ha implicitamente stabilito il prevalere di una azione assistenziale, sanitaria, scolastica e normativa per gli invalidi diversa da quanto è disposto dalla generalità dei cittadini; e) infine che lo Stato deleghi ad un unico Ente di diritto pubblico ogni azione di pubblico intervento e quindi dell'istruzione e dell'addestramento pro­fessionale degli invalidi e del loro collocamento al lavoro, dell'assistenza sanitaria, di quella so­ciale, morale e giuridica, ecc. ... (2).

L'ONIG pare che incontri qualche difficoltà nella attuazione di questo assurdo e grottesco disegno di apartheid (che pure recepisce i più importanti filoni della legislazione assistenziale italiana) e sta ora ripiegando sulla richiesta di gestire direttamente il collocamento obbligato­rio (le proposte di legge si sprecano).

Forse il nostro discorso sull'associazionismo degli invalidi potrebbe terminare qui, perché so­no dimostrate le premesse, ma vale la pena di accennare ad alcune impostazioni più sofistica­te, benché radicate nel medesimo contesto con­cettuale.

L'Unione Nazionale degli Enti di Beneficenza ed Assistenza afferma in un recentissimo documen­to che per assistenza si deve intendere: «le pre­stazioni e gli interventi in favore di tutti i citta­dini che si trovano in particolari condizioni in relazione ad un loro stato fisico, psichico, socia­le o economico che non permette loro di usufrui­re in modo autonomo e autosufficiente dei ser­vizi messi a disposizione dalla comunità, ovvero che hanno bisogno di servizi specializzati».

Ecco che riappare, sia pure in forma razionale, l'antica radice segregativa dell'assistenza e la profonda sfiducia nella capacità e nella dignità dei poveri, degli handicappati, dei disadattati.

Se essi non possono usufruire in modo auto­nomo dei servizi messi a disposizione di tutti, vuol dire che questi servizi non sono a misura di tutti e il problema vero non consiste nel crea­re servizi specializzati, ma nel riformare quelli esistenti. Non si tratta di istituire strutture per gli « anormali » ma di riscattare questi dai loro bisogni e di rimuovere gli ostacoli che impedi­scono la partecipazione e la socializzazione.

È acquisizione comune che ogni struttura fini­sce per perpetuare i bisogni, né si può continua­re a gestire l'assistenza (con il nome di «servizi sociali») come strumento di emergenza per sup­plire a carenze legislative, e a disfunzioni eco­nomiche e sociali dello Stato.

Per quanto infine riguarda la posizione del Mi­nistero dell'interno per la conservazione dell'as­sistenza, si afferma che l'art. 117 della Costitu­zione prevede che venga trasferita alle Regioni tutta la materia della beneficenza pubblica, «mentre nell'art. 38 della Costituzione è sancito il principio che le particolari forme dell'assisten­za sociale sono svolte dallo Stato o da organi di­pendenti o finanziati dallo Stato. Solo in questo modo si può assicurare ai cittadini della stessa categoria quella parità di trattamento prevista dall'art. 3 della Costituzione, altrimenti potreb­be accadere che in determinate regioni si conce­dono pensioni di un certo livello mentre in altre più modeste» (3).

È chiaro che è già stato stabilito il criterio per ripartire alle Regioni fondi ed organi (L. 16 mag­gio 1970 n. 281) così come è chiaro che all'art. 3 della Costituzione si può attribuire ogni signi­ficato, ma non quella di suddividere i cittadini in «categorie».

È forse comprensibile che il Ministero dell'in­terno compia ogni sforzo per impedire l'autono­mia dei servizi assistenziali e contrasti ogni azione intesa a una configurazione dell'assisten­za come diritto per tutti i cittadini, tuttavia sono tali e tanti gli squilibri e le distorsioni del set­tore che non è più possibile frenare la rivendi­cazione di decentramento e di democraticizza­zione.

Una delle principali obiezioni che si fanno alla tendenza di attribuire al Ministero dell'interno compiti assistenziali è che il medesimo si confi­gura come «Ministero della polizia», ciò che trova riscontro negli stretti collegamenti che esi­stono fino dal 1889 fra i problemi dei cittadini in situazioni di bisogno e gli impegni della Pubblica Sicurezza (che sono di repressione, di reclusio­ne e di emarginazione R.D. 19 novembre 1889 n. 5535). Né si può sostenere che le cose siano cambiate se è vero che lo stesso Direttore Ge­nerale dell'assistenza pubblica solo pochi mesi fa dichiarava, parlando dei problemi del control­lo degli istituti e degli enti assistenziali: «La soluzione di questo grave problema potrebbe tro­varsi innanzi tutto nel rilasciare l'autorizzazione a gestire gli istituti con giusto rigore. Dal mo­mento che per gestire una locanda occorre l'au­torizzazione di polizia non vedo per quale moti­vo la nostra legislazione non abbia previsto una formale autorizzazione anche per gestire istituti assistenziali e di ricovero» (4).

Ma una simile impostazione non giustifica le gravi omissioni (di atti di ufficio) del Ministero e configura una concezione antitetica alla parteci­pazione democratica della gestione dell'assi­stenza.

L'assistenza in Italia ha antiche e marcie radi­ci, deformazioni istituzionali, giuridiche e socio­logiche, si è instaurata dal liberalismo autoritario al fascismo. Lo Stato democratico e repubblicano non trova sufficienti motivi di riforma immediata e gli Enti e le associazioni assistenziali coinvolti o compromessi (con o senza consapevolezza) in una logica di potere e di conservazione.

Ecco perché il discorso deve rifluire nell'am­bito che gli è proprio, quello della comunità ci­vile e delle lotte per la giustizia sociale.

 

 

(1) Un esempio clamoroso di questa incapacità di con­trollo della base sui gruppi dirigenti è rappresentato dal fatto che nel 1966 fu possibile al Presidente dell'Ente di diritto pubblico ANMIC e contemporaneamente Presidente della LANMIC di stipulare, «abusando della sua qualità di Presidente dell'Ente di diritto pubblico ANMIC, con le as­sociazioni tra gli industriali della Intersind e Confindustria, un accordo in base al quale, contro promessa di versamen­to della somma di L. 550 milioni, si impegnava di fare in modo che da parte delle associazioni fra invalidi si ade­risse ad interpretazione più favorevole ai datori di lavoro della legge sul collocamento obbligatorio al lavoro degli invalidi civili, e, sostanzialmente perché il termine posto per la entrata in vigore di detta legge, venisse prorogato di ulteriori tre anni, impegnandosi allo scopo a non fare pressioni sugli uffici competenti per la copertura nelle aziende della percentuale obbligatoria di invalidi prima del decorso di tale termine; quale Presidente della LANMIG apparentemente stipulando l'accordo, giustificandosi la pro­messa di denaro con la necessità di finanziamento di corsi di qualificazione professionale degli invalidi, mai peraltro effettivamente istituiti ». In Roma il 23-2-1966. Vedasi la sentenza di rinvio a giudizio del Giudice istruttore del Tri­bunale di Roma (Sez. VI Istruttoria) in data 22 aprile 1969.

(2) Citazioni testuali tratte da un documento firmato dai Presidenti dell'Associazione Nazionale Mutilati e Inva­lidi di Guerra, Associazione Nazionale Vittime Civili di guerra, Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del La­voro, Unione Mutilati per Servizio, Opera Nazionale Inva­lidi di Guerra, Libera Associazione Mutilati e Invalidi Civili.

(3) Dichiarazione del Direttore generale dell'assistenza pubblica alla Commissione li della Camera, seduta del 24 marzo 1971.

(4) Dichiarazione del Direttore generale dell'assistenza pubblica alla Commissione II della Camera nella seduta del 24 marzo 1971.

 

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