Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre 1971

 

 

ATTUALITÀ

 

LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA E GLI ISTITUTI DI ASSISTENZA

 

 

Dal gennaio al luglio 1970, un gruppo di esper­ti, costituito presso la Segreteria della Confe­renza episcopale italiana, ha redatto il documen­to «Gli istituti educativo-assistenziali per mi­nori normali» pubblicato dalla Editrice AVE., Roma, 1971, L. 1.000.

 

Difesa degli istituti e dell'istituzionalizzazione (1)

Innanzi tutto occorre rilevare che nel documen­to manca un'analisi delle cause socio-politiche dell'emarginazione e non viene pertanto eviden­ziato quale sia il ruolo che oggi svolgono gli istituti di ricovero, siano essi pubblici o privati. Ma, forse questa mancanza non è casuale.

Infatti il documento è stato chiaramente im­postato a difesa degli attuali istituti di assisten­za all'infanzia, ai quali sono indicati «i requisiti di idoneità aggiornati (...) secondo livelli rite­nuti oggi soddisfacenti» (pag. 9).

Una ulteriore conferma che la Conferenza epi­scopale italiana vuole soltanto razionalizzare il complesso degli istituti di ricovero si trova nell'affermazione che gli immediati destinatari del documento sono i membri delle Commissioni diocesane per l'assistenza e le opere dipendenti da istituzioni religiose (pag. 9).

La nostra delusione è profonda poiché ritenia­mo che occorra partire dai bisogni dei bambini e dei fanciulli e analizzare se gli istituti di rico­vero possono essere ritenuti ancora oggi una soluzione valida, un ripiego accettabile.

Ma non si tratta solo di una volontà di razio­nalizzazione.

Si vuole ben altro!

In primo luogo è stupefacente l'analisi della emarginazione sociale. Nel documento si affer­ma che «nel riservare certe forme di aiuto ai poveri, di fatto, si finisce, sia pur involontaria­mente, con l'emarginarli dalla società». Per ov­viare a detto «inconveniente» viene proposto che «sia previsto, e non solo consentito, l'acces­so agli istituti di minori provenienti da qualsiasi ambiente economico» (pag. 12). Pertanto, il nu­mero degli istituti, se essi accoglieranno non solamente minori poveri ma anche quelli bene­stanti, è destinato ad aumentare e l'istituzionaliz­zazione non costituirà più una forma di emargi­nazione sociale essendo ricoverati insieme ric­chi e poveri!

Questi assurdi concetti sono ritenuti talmen­te importanti che vengono ripetuti a pag. 46: «sia non solo consentito per motivi di principio, ma previsto e favorito sul piano metodologico, l'accesso allo stesso istituto di minori prove­nienti da famiglie con diverse possibilità eco­nomiche, nell'intento di costituire le indicazioni ambientali ed educative più idonee, per lo svi­luppo della personalità e della socialità del mi­nore!» (2).

Circa il ruolo dell'istituto viene genericamen­te affermato che è un servizio integrativo della famiglia: «la famiglia, per il ruolo che le è pro­prio, è la responsabile primaria dell'educazione dei figli. Pertanto quando essa presenta delle carenze, va aiutata con appositi servizi rivolti a integrare, rafforzare o recuperare la sua capa­cità ad assolvere il proprio compito; quando in­vece fosse inesistente o gravemente carente, va sostituita con la famiglia adottiva o affidataria; per cui solo in mancanza e in attesa che questa possibilità si verifichi, si può procedere al tem­poraneo (3) affidamento ad un istituto educativo assistenziale» (pag. 19).

Nessuna indicazione, neppure generica è data sul dovere che a nostro avviso tutto il personale degli istituti e le commissioni nazionale, regio­nali e diocesane di assistenza hanno di svolgere un'azione promozionale nei confronti delle auto­rità e dell'opinione pubblica affinché l'aiuto eco­nomico e/o sociale alle famiglie d'origine, l'ado­zione e l'affidamento familiare a scopo educativo non restino delle enunciazioni formali destinate solo a salvare le apparenze.

 

I cosiddetti gruppi-famiglia (4)

Il documento consiglia che «allo scopo di atti­vizzare le potenzialità non ancora espresse del minore, l'istituto educativo-assistenziale orga­nizzerà la vita di comunità sul modello della famiglia per non sovrapporsi al ruolo di essa (sic) e nell'intento di facilitare il rapporto edu­cativo con il soggetto, perché questi possa sen­tirsi più partecipe in un ambiente consono alle sue esigenze» (pag. 21). È raccomandato che i ragazzi siano suddivisi in gruppi di piccole di­mensioni: di «6-7 soggetti possibilmente di età diverse» per i bambini dai 3 ai 6 anni (pag. 28), di «circa 10-12 bambini» per quelli dai 6 ai 12 anni (pag. 32), senza indicazioni per gli adole­scenti (dai 12 ai 18 anni).

Ma numerose sono le nostre riserve sulla va­lidità dei cosiddetti gruppi-famiglia. Sperimentazioni accurate sono state compiute sulle possibilità concrete di ovviare alla caren­za di cure familiari, da cui sono colpiti i bambini ricoverati in istituto.

Fra le altre, significativa è quella condotta dal­la D.ssa Aubry presso l'Istituto di Rosan per conto del Centro internazionale per l'infanzia (5) .

Quando vi giunse I'Aubry, le condizioni del­l'istituto non erano certo ideali, ma solo medio­cri; vi erano dei bambini che erano stati lunga­mente (6) separati dalla madre ad un'età varian­te da uno a quattro anni.

L'Aubry introdusse nell'istituto personale alta­mente specializzato (psicologi, psicoterapisti, pediatri, assistenti sociali ecc.), quello in servi­zio venne qualificato; il rapporto personale-bam­bini fu portato a 1 a 1 ed inoltre i bambini furono raggruppati in piccoli gruppi-famiglia.

Le conseguenze di tali innovazioni si fecero sentire, ma afferma l'Aubry che: «lo studio di insieme di tutti i tests, indipendentemente da­gli stessi esami, e il rapporto dei risultati con­seguiti di anno in anno hanno dimostrato che i cambiamenti introdotti nel l'organizzazione dell'istituto sono stati efficaci e hanno consentito un miglioramento delle condizioni psico-motorie e affettive dell'insieme dei bambini, senza infi­ciare peraltro la certezza della nocività degli isti­tuti di assistenza infantile» (7) e conclude «lo scopo da perseguire è la progressiva soppres­sione degli istituti assistenziali per l'infan­zia» (8).

Altre riserve si possono avanzare sui gruppi­famiglia:

1) i rapporti interni sono alterati rispetto a quelli della famiglia in quanto manca per lo più una figura paterna;

2) vi è un notevole avvicendamento delle figure materne (e di quella paterna quando esi­ste) causato dalla giusta rivendicazione delle 40 ore settimanali da parte del personale, dalle assenze per festività, ferie, malattie (9);

3) pure alterati sono i rapporti interni per la mancanza o la grave difficoltà di legami fra i ragazzi di ciascun gruppo, fatto dovuto anche ai frequenti cambiamenti (nuove ammissioni, ritor­ni in famiglia);

4) i rapporti fra i vari gruppi sono anomali, trattandosi di ragazzi che hanno uguali problemi di disinserimento sociale;

5) la disciplina interna dell'istituto (anche se limitata al massimo) crea un clima artificiale e rigido a causa delle regole imposte: sveglia, pranzi, tempo libero, uscite, ecc.;

6) gli educatori, anche se specializzati, non possono impegnare profondamente la loro per­sonalità come accade ai genitori d'origine, adot­tivi o affidatari.

Altre critiche potrebbero essere fatte, ma si ri­tiene che quanto esposto sia già sufficiente per affermare che i gruppi-famiglia si sono indebita­mente appropriati del termine «famiglia».

Un aspetto degno di rilievo è il fatto che il documento elaborato dagli esperti incaricati dal­la Conferenza episcopale italiana non comprende gli istituti per i minori da zero a tre anni poiché la loro assistenza richiederebbe un istituto spe­cializzato ancor più che per le altre età.

Una prova ancora, se ve ne fosse bisogno, dell'uso indebito del termine «famiglia» per indi­care i gruppi.

 

Aspetti giuridici e organizzativi

Nel documento vengono richiamati solo gli obblighi legali che sono stati pubblicizzati in questi ultimi tempi (preventiva autorizzazione a funzionare ai sensi dell'art. 50 del R.D. 15 apri­le 1926 n. 718 e invio degli elenchi trimestrali di cui alla legge 5 giugno 1967 n. 431 sull'adozione speciale). Viene però taciuto che l'inosservanza delle suddette disposizioni di legge costituisce reato (art. 665 e 328 del codice penale).

Seguendo la discutibile linea interpretativa dell'ONMI, il documento afferma che non sono soggette al riconoscimento di idoneità le istitu­zioni comunque funzionanti anteriormente all'en­trata in vigore del R.D. 15 aprile 1926 n. 718. Nulla, viene detto degli obblighi per gli isti­tuti (mai rispettati e fatti osservare anche se pe­nalmente perseguibili) previsti dagli art. 19 e 20 del R.D. 24 dicembre 1934 n. 2316, concernenti la segnalazione all'ONMI dei minori ricoverati e di quelli affidati a privati e la notifica delle dimis­sioni dei fanciulli.

A pag. 60 il documento afferma che «sarebbe opportuno che presso ogni istituto vi fosse una cartella personale per ciascun minore, contenen­te, oltre la scheda sanitaria, quella informativa, scolastica, del comportamento, ecc.», dimenti­cando che vi è un preciso obbligo, previsto dall'art. 194 del R.D. 15 aprile 1926 n. 718.

Nulla viene detto sul problema assai impor­tante della tutela dei minori ricoverati ed è noto che molti sono i fanciulli istituzionalizzati che sono privi di tutore. Al riguardo si osserva che l'art. 343 del codice civile prescrive «Se en­trambi i genitori sono morti o per altre cause non possono esercitare la patria potestà, si apre la tutela presso la pretura del mandamento dove è la sede principale degli affari e interessi del minore».

Si osservi altresì che l'art. 402 c.c. affida all'istituto di assistenza all'infanzia «i poteri tute­lari sul minore ricoverato o assistito, fino a quando non si provveda alla nomina di un tu­tore».

Ma forse i tutori sono scomodi, potendo essi esercitare un'azione di controllo sul trattamento riservato ai minori più incisiva di quella affidata alle innumerevoli autorità preposte, che spesso non la svolgono o la esercitano solo sul piano formale e con visite preannunciate.

 

Conclusioni

Il documento elaborato dal gruppo di esperti costituito presso la segreteria della Conferenza episcopale italiana, sul quale abbiamo fatto sola­mente le osservazioni che abbiamo ritenuto più importanti, conferma le preoccupazioni che ave­vamo espresso con la pubblicazione della docu­mentazione relativa alla istituzione delle commis­sioni e consulte nazionali, regionali e diocesane di assistenza (10).

Avevamo infatti scritto: «riteniamo che l'iniziativa potrà dimostrarsi positiva se il lavoro di dette commissioni e consulte sarà diretto al su­peramento della contrapposizione, oggi assurda, fra assistenza pubblica e assistenza privata, af­finché si possa giungere alla gestione comuni­taria dei servizi sociali».

Purtroppo il documento è diretto, come abbia­mo visto, alla difesa degli istituti e addirittura al loro potenziamento.

A nostro avviso, è praticamente impossibile attendere dalla C.E.I. spinte per il superamento dell'istituzionalizzazione. Tanto meno vi è da at­tendere azioni in tal senso da parte degli istituti.

È pertanto necessario, tenendo anche conto dell'esperienza maturata dalla lotta condotta con­tro l'istituzione manicomiale, impegnarsi nella creazione di soluzioni alternative al ricovero dei fanciulli (11) e non nella richiesta di migliora­menti degli istituti, richiesta che li rafforzereb­be, siano essi pubblici o privati, statali o comu­nali, laici o religiosi.

 

 

 

(1) Nel documento vi sono delle affermazioni accetta­bili, ma si tratta di cose ovvie alla coscienza comune an­che se costituiscono per l'ambiente degli istituti, se rea­lizzato, un certo progresso.

(2) Se l'analisi sull'emarginazione sociale fatta dagli esperti della C.E.I. fosse corretta, non si dovrebbe limitare il discorso all'inserimento di benestanti negli istituti che attualmente ricoverano soltanto bambini e ragazzi poveri. Per coerenza essi avrebbero dovuto anche sollecitare l'in­serimento di bambini e ragazzi poveri nelle istituzioni che attualmente ospitano figli di benestanti (istituti educativi, convitti, collegi).

(3) A pagina 33 del documento viene scritto «alla fine di ogni anno è necessario che l'istituto esamini con la fa­miglia le concrete possibilità di rientro del fanciullo nel suo normale ambiente di vita». Perché solo alla fine di ogni anno? Perché l'istituto deve esaminare le possibilità di rientro solo con la famiglia e non ricercare soluzioni familiari anche con adottanti, affidatari, enti, autorità giu­diziaria?

(4) Una critica sui gruppi-famiglia è stata fatta da F. SANTANERA, Gli istituti di assistenza all'infanzia e i cosiddetti gruppi-famiglia, in «La famiglia», novembre-­dicembre 1970, pag. 506 e segg., dal cui articolo abbiamo ampiamente tratto per la stesura di questa parte.

(5) I risultati della sperimentazione sono stati pubbli­cati nel libro di JENNY AUBRY, La carence de soins ma­ternels, Centre international de l'enfance, Paris, 1955.

(6) Per lunghe separazioni l'Aubry intende quelle di durata superiore ad un mese.

(7) J. AUBRY, op. cit., pag. 29.

(8) J. AUBRY, op. cit., pag. 183.

(9) Per il personale femminile si calcola che la media annuale delle giornate effettive di lavoro sia di 180-200. Considerato che la settimana comprende 168 ore, ne risul­ta la necessità di un numero notevole di persone per assi­curare la presenza continua in ciascun gruppo.

(10) Vedasi Prospettive assistenziali, n. 11-12, luglio-di­cembre 1970, pag. 17 e segg.

(11) Vedasi al riguardo Prospettive assistenziali e in particolare i numeri 11-12, 13 e 14.

 

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