Prospettive assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969

 

 

DOCUMENTI

 

NOTE CRITICHE SULLA GIUSTIZIA MINORILE

DOCUMENTO DELL'ASSOCIAZIONE GIURISTI DEMOCRATICI DI TORINO.

 

 

Problemi di competenza del Tribunale per i minorenni.

L'Associazione Giuristi Democratici intende affron­tare in un pubblico dibattito i problemi della giu­stizia minorile, quale aspetto fra i più significativi della crisi della giustizia. L'esame critico del Tribu­nale per i minorenni e delle strutture rieducative che lo affiancano è diretto non al fine di proporre solu­zioni parziali (obbiettivamente inadeguate), bensì di denunziare la gravità dell'attuale situazione, e le responsabilità politiche che ad essa si ricollegano, e di individuare, al tempo stesso, i problemi di fondo in vista della realizzazione delle necessarie radicali riforme nel settore.

A questo fine appare opportuno innanzi tutto puntualizzare come il Tribunale per i minorenni abbia competenze diverse e spesso talora contrastanti, al­cune delle quali totalmente esulanti dalle finalità tipiche di un organo giurisdizionale. Esso infatti, oltre a svolgere attività strettamente giurisdizionali in ma­teria penale e civile, svolge anche funzioni di carat­tere amministrativo, che, di fatto, appaiono essere le prevalenti. Ciò, anche in forza della legge 5 lu­glio 1956 n. 888, la quale, affiancando al Tribunale per i minorenni una serie di istituti di natura pretta­mente amministrativa, non previsti dalla legge istitu­tiva del 20 luglio 1934 n. 1404, ne ha snaturato le finalità con una riforma che, se poteva apparire, ad un esame superficiale, un progresso, in realtà, po­nendo sotto l'etichetta di provvedimenti giurisdizio­nali atti aventi scopi sostanzialmente sociali ed edu­cativi o preventivi, ne ha viziato alla radice la validità.

Tale arbitraria estensione della competenza del Tribunale per minorenni ha portato a ricondurre sotto il concetto di prevenzione del crimine e difesa della società ogni intervento comunque diretto alla neces­saria opera di riadattamento sociale del minore, o per i più giovani, addirittura al soddisfacimento di fondamentali esigenze di natura affettiva, psicologica e ambientale.

Da ciò discende che, per poter essere assistito nell'ambito dei servizi che la legge del 1959 ha affian­cato al Tribunale per i minorenni, il minore deve essere necessariamente «etichettato» come disadat­tato sociale, se non come criminale potenziale.

Tanto più grave appare questo vizio, ove si con­sideri che manca attualmente nella nostra legislazione un complesso organico o almeno coordinato di norme che tendano a risolvere comunque seriamente il pro­blema dell'assistenza minorile. Essa infatti si fram­menta in una pluralità di competenze spesso discre­zionali, spettanti ad organi pubblici diversi (per non dire delle istituzioni private, che, con quelle pubbli­che, assommano a circa 40.000) i quali, approfittando di tale situazione, cercano con ogni mezzo di attri­buire ad altri enti l'assistenza dei minori - e il pagamento delle relative rette - ogni qualvolta vi sia pretesto per fare rientrare un proprio assistito in una categoria che sia anche di competenza di altro ente assistenziale.

Così molto spesso si arriva a definire «disadattati sociali» bambini di età compresa fra i 6 e i 14 anni, essendo questo l'unico mezzo per ottenere legalmente il decreto di ricovero da parte del Tribunale per i minorenni in uno degli istituti del Ministero di gra­zia e giustizia o con esso convenzionato. Ne deriva che il Tribunale per i minorenni viene ad occuparsi non solo dei minori di sua stretta competenza, ma anche dei minori rifiutati da tutti gli altri enti di assistenza.

Appare fondamentale, quindi, strutturare l'intero settore assistenziale, distaccandolo dal Ministero di Grazia e Giustizia e conseguentemente dal Tribunale pei minorenni, ed alleggerendo quest'ultimo da una attività surrogatoria alla carenza di organi specifici, per la quale la sua natura di organo giurisdizionale lo rende strutturalmente inidoneo, sottraendolo, d'altro canto, allo svolgimento di quei precipui compiti per i quali è predisposto.

Solo nell'ambito delle sue specifiche competenze come sovra delimitate può e deve pertanto essere valutata ogni proposta diretta ad una riforma, e, ove occorrente, ad un potenziamento delle strutture del Tribunale per i minorenni.

 

Cenni sulla legislazione.

In materia penale la legge istitutiva del 1934 spostò al Tribunale per i minorenni la competenza processuale per i reati commessi dai minori dai 14 ai 18 anni, mentre la materia sostanziale restava rego­lata dal Codice Penale. Si dispone, in particolare, che in ogni procedimento a carico dei minori, speciali ricerche avrebbero dovuto essere svolte per accertare i precedenti personali e familiari dell'imputato, sotto l'aspetto fisico, psichico, morale e ambientale.

Analogamente, in materia civile, la legge del 1934 attribuiva al Tribunale per i minorenni la competenza relativa ai rapporti personali dei minori, restando al Tribunale ordinario solo quella per i rapporti patri­moniali.

Per quanto riguarda la materia amministrativa, la legge del 1956 ha introdotto, come s'è detto, alcune innovazioni, abolendo il concetto di minore traviato e il concetto di correzione. Per la legge del 1934 erano «minori traviati bisognosi di protezione mo­rale» quelli che per «abitudini contratte» (irrego­larità di condotta e manifestazioni antisociale) tene­vano una condotta contraria alle norme del costume. Queste definizioni sottointendevano un giudizio mo­rale sulle qualità del minore. La legge del 56 parla invece di «minori irregolari per condotta e carattere» cioè «disadattati». Essa legge ha infine previsto la creazione di una serie di istituti in servizio collaterale, e precisamente:

1) istituti di osservazione;

2) gabinetti medico-psicopedagogici;

3) uffici di servizio sociale;

4) case di rieducazione e istituti medico-nsico­pedagogici;

5) focolari di semi-libertà e pensionati giova­

6) scuole, laboratori e ricreatori speciali;

7) riformatori giudiziari;

8) prigioni scuola.

La nuova legge ha altresì affidato ai gabinetti medico-psico-pedagogici e agli istituti di osservazione, affiancati dal Servizio Sociale, il compito di svolgere accertamenti diagnostici rispettivamente in esternato e in internato sulla personalità del minore.

Ha infine introdotto, accanto al trattamento in case di rieducazione, il trattamento rieducativo in esternato mediante l'affidamento del minore al Ser­vizio Sociale minorile.

 

Cenni critici sulla competenza amministrativa.

Soffermandoci sulle più evidenti contraddizioni che scaturiscono dall'esame della sovra accennata legislazione, si impone sottolineare l'esame critico dei settori della legislazione amministrativa e penale e delle reciproche connessioni e contraddizioni. La competenza amministrativa attribuita al Tribunale per i minorenni, che, come già detto, è auspicabile venga tolta all'organo giurisdizionale in quanto tale, porta a gravi conseguenze, che impongono un approfondito esame.

L'intervento moralmente protettivo del minore è in realtà un intervento repressivo, sia per la limita­zione della libertà personale dello stesso, sia per la situazione reale degli istituti improntata a norme pre­valentemente disciplinari più che formative. L'inter­vento amministrativo viene operato assai spesso nei confronto di minori non già in considerazione delle loro caratteristiche soggettive, ma semplicemente delle condizioni ambientali e sociali in cui essi sono costretti. Ciò si verifica per varie categorie di minori, quali ad esempio:

- minori al di sotto dei 14 anni (che certo non si possono considerare socialmente disadattati, in ragione della loro tenera età);

- minori scolasticamente ritardati, con conse­guenti lievi disturbi della condotta;

- minori presentanti difficoltà di inserimento nell'ambito lavorativo;

- minori vittime di conflitti familiari o vessati dall'autorità parentale (si noti che l'esercente la pa­tria potestà può ottenere îl ricovero del minore in case di rieducazione anche oltre il diciottesimo anno di età, a proprie spese e con provvedimento civile);

- minori non assistiti altrimenti da altri enti (spesso per asserita carenza di fondi: circa un terzo dei ricoverati) e minori rifiutati dagli istituti pub­blici o privati perchè elementi definiti turbolenti, per i quali la casa di rieducazione diventa, come si è già detto, l'ultimo rifugio condizionato da un assurdo inquadramento nella categoria dei disadattati sociali; tanto ciò è vero, che esistono convenzioni tra il Mi­nistero di grazia e giustizia ed istituti privati o con­gregazioni religiose presso i quali i minori vengono ricoverati, spesso in insufficienti condizioni educative assistenziali per l'esiguità delle rette corrisposte;

- minori deficitari dell'intelligenza, nevrotici, psicotici, caratteriali, che richiederebbero assistenza specialistica.

Analoghe considerazioni valgono infine per i mi­nori affidati al Servizio Sociale in libertà assistita quale misura rieducativa alternativa all'internamento in case di rieducazione.

Le cause del «disadattamento sociale» ravvisate in giusti soggetti possono ricondursi sostanzialmente a carenze familiari di ordine economico-sociale, alle quali si sovrappongono carenze pedagogiche, o a situa­zioni conflittuali tra genitori e figli.

Tutte le categorie esaminate, non presentanti caratteristiche omogenee, non sono comunque certa­mente tali da far ritenere che trattasi di soggetti con tendenze delinquenziali, né certamente appare suffi­ciente per tale semplicistico giudizio il fatto che vi siano fra di essi casi di pregresse manifestazioni anti­sociali. Tanto più evidente appare la discrepanza tra le esigenze del minore ed i provvedimenti che nei confronti dello stesso vengono assunti, ove si consi­deri che i provvedimenti, oltre a prescindere dalle specifiche esigenze del minore, vengono attuati a distanza spesso di anni dal verificarsi delle fattispecie che li hanno determinati, rendendone così assoluta­mente estemporaneo il fine.

 

Osservazioni sulla competenza penale.

In materia penale si riscontra l'equivocità di una concezione mista, da un lato rieducativa, dall'altro repressiva (e cioè secondo gli schemi più tipici della giustizia penale generale).

La legge stabilisce che non è imputabile la per­sona minore degli anni 14, mentre deve essere in concreto accertata la capacità di intendere e volere del minore compreso dai 14 ai 18 anni.

Con questa norma il Codice equipara, salvo una diminuente di pena, il minore oltre i 14 anni al mag­giore a tutti gli effetti. Donde discende che la pre­sunzione di conoscenza delle norme giuridico-penali, che costituisce già un artifizio - sia pur necessario - per i maggiori di età, viene applicata anche nei con­fronti dei minori in palese contrasto con la realtà obbiettiva; e ciò tanto più in quanto trattasi di soggetti non solo immaturi per età, ma anche per estrazione socio-culturale.

Di più, questa norma viene interpretata normal­mente in senso opposto a quello che da una corretta lettura necessariamente discende: ossia, in concreto, viene presunta la capacità di intendere e di volere, salvo prova contraria, mentre dovrebbe essere pre­sunta l'incapacità di intendere e volere salvo la prova della esistenza della stessa. A ciò si aggiunge che anche in quelle rare ipotesi in cui l'Autorità Giudi­ziaria ritiene di scendere a un'indagine diretta ad accertare l'esistenza della capacità di intendere e di volere dei minori, ciò viene fatto con mezzi discrezio­nali, varianti di caso in caso, spesso non idonei. Ben­ché esista, come organo collaterale per i minorenni, una équipe medico-psico-pedagogica quale strumento tecnico-scientifico per tali accertamenti, gli stessi spesso vengono affidati dal magistrato a professionisti nei confronti dei quali non è richiesta alcuna garanzia di specifica preparazione. Da ciò discende che manca un costante parametro di valutazione, un'uguaglianza di trattamento fra i vari casi e si versa in una situa­zione di empirismo.

Appare ancora opportuno rilevare la coesistenza, nella vigente legislazione penale applicabile ai minori, di due norme che, per la loro equivocità e per la difficoltà di distinzione delle fattispecie in essa pre­viste, danno luogo a conseguenze di gravissima entità, che condizionano negativamente tutta la vita del minore.

Mentre infatti l'art. 98 Codice Penale prevede che il minore fra i 14 e i 18 anni che non ha la capacità di intendere e di volere non è imputabile, l'art. 8 lascia sussistere per lo stesso la possibilità di dichiarazione di vizio parziale di mente, vizio che viene dichiarato in base all'accertamento di una dimi­nuzione della stesso capacità di intendere e di volere; onde la carenza di tale capacità, che dovrebbe por­tare ad una declaratoria di non imputabilità si risolve di fatto spesso in una dichiarazione di vizio di mente, con conseguente ricovero in manicomio giudiziale e con la marchiatura psichica e sociale che per il sog­getto ne discende.

L'art. 11 della legge sul Tribunale per i mino­renni richiede che vengano effettuate speciali indagini per accertare i precedenti, sotto l'aspetto fisico, psi­chico, morale e ambientale dei minori. Questa inda­gine viene completamente trascurata nella quasi tota­lità dei casi.

Nella fase dell'accertamento del reato, il minore è affidato alla sezione di custodia preventiva, che è sezione speciale dell'istituto di osservazione. Di fatto, essendo questa sezione un vero e proprio carcere, si produce per il minore imputato la stessa situazione di limitazione della libertà personale che viene attuata per i maggiori di età, ristretti nei carceri giudiziari, ciò con una totale disapplicazione nei principi educa­tivi della legge minorile.

Egualmente la posizione del minore è identica a quella del maggiore di età di fronte al fermo di poli­zia e all'arresto facoltativo in flagranza, che vengono operati senza alcuna considerazione delle esigenze educative suaccennate; ciò di fronte a una totale carenza legislativa in materia.

La pena inflitta con la sentenza di condanna può comportare una segregazione sociale, anche per lun­ghi periodi, contrastante con il fine di recupero sociale. La pena detentiva e la misura di sicurezza detentiva, vengono espiati in un unico istituto (prigioni-scuola e riformatori giudiziari). D'altra parte, il passaggio dalla prigione scuola al carcere normale, al compi­mento del 18° anno di età, fa venire meno gli intenti rieducativi che caratterizzano (almeno in astratto) la pena inflitta. La competenza del Tribunale ordinario (consentita dalla legge e ribadita dalla Corte Costi­tuzionale) nel caso di minore che delinque, anche marginalmente, con il maggiore di età (giustificata da motivi tecnici quale l'unità di accertamento del fatto di reato) pone nel nulla le garanzie predisposte dalla legge (composizione dell'organo giudicante, sen­sibilità del giudice minorile, durata dell'istruttoria).

Il trattamento rieducativo, iniziato con risultati positivi, può essere interrotto (persistendo l'attuale coesistenza di misure amministrative e penali) per l'applicazione di una sanzione penale per fatti pregressi.

La molteplicità dei fatti di reato, frammentati in una pluralità di giudizi, a volte dettati da mere ragioni territoriali, comporta una progressione sanzionatoria inidonea al fine della rieducazione, susseguendosi la concessione del perdono giudiziale, la sospensione condizionale della pena, la revoca di esso e l'aumento di pena per la recidiva. E' invece evidente che, ini­ziato il trattamento rieducativo, i precedenti penali giudicati o non ancora giudicati vanno considerati in un unico contesto, come manifestazione di un'unica attività criminosa, con conseguenze unitarie sul piano rieducativo e, ove permanga la concezione sanziona­toria, sul piano penale.

 

Cenni sulla situazione locale.

Il Tribunale per i minorenni di Torino è alloggiato in locali vetusti e inadeguati alle molteplici esigenze; i magistrati addetti mutano frequentemente, in par­ticolare il Pubblico Ministero negli anni più recenti è divenuto funzione temporanea di magistrati sot­tratti ad altri impegni giudiziari. La mole di lavoro viene svolta in condizione di estremo disagio e senza la necessaria tempestività.

Fra gli istituti previsti dalla legge del 1956, oltre all'ufficio di Servizio sociale, esistono soltanto l'isti­tuto di osservazione e la casa di rieducazione. Il tutto, alloggiato nell'istituto «Ferrante Aporti», dove non dovrebbe più esistere il carcere minorile previsto dalla legge del 1934, abolito nel 1956, ma dove in realtà lo stesso vecchio carcere è rimasto in funzione sotto la denominazione di «Sezione di Custodia Pre­ventiva» (Sezione Speciale dell'Istituto di Osserva­zione).

L'istituto di osservazione è costituito da abitacoli della larghezza di metri 1 e 45 e della lunghezza di metri 2 e 20, provvisti di cancelli a grate alti metri 1 e 60, senza finestre né alcuna altra presa d'aria, all'infuori del cancello d'accesso, dotati cia­scuno di servizi igienici equivalenti a quelli dei più arretrati stabilimenti di pena. Il tutto orientato al più retrivo concetto di segregazione.

Quanto al personale, di oltre 150 ragazzi, agiscono in tutto soltanto 3 educatori, oltre al dirigente (l'or­ganico nazionale è di 160 unità) mentre il Servizio Sociale minorile si avvale soltanto di 7 Assistenti Sociali (l'organico nazionale si limita a 230). Evi­dentemente un personale così ridotto non può neppure materialmente rispondere alle molteplici esigenze di ordine affettivo, pedagogico e sociale.

Per le ragazze minorenni è prevista unicamente l'assegnazione ad istituti privati religiosi (nel caso specifico il Buon Pastore).

 

Conclusioni.

La separazione fra compiti amministrativi e com­piti giurisdizionali, al fine di limitare a questi ultimi la competenza del Tribunale per i minorenni costi­tuisce, come si è più volte accennato, condizione fon­damentale di una riforma che intenda superare il carattere repressivo e classista dell'Istituto.

Alle misure amministrative sono oggi di fatto sot­toposti soltanto i minori appartenenti alle classi sociali più diseredate: ciò è verificato statisticamente. L'ovvia ragione sta nel fatto che gli appartenenti alle altre classi sociali non versano nella condizione economica ambientale che produce il «disadatta­mento»; ove il «disadattamento» del minore si verifichi in tale contesto economico, vengono usati privatamente mezzi diversi, veramente tendenti alla rieducazione, che richiedono un ben maggior impegno finanziario. Emerge chiaramente da quanto si è osser­vato che la stessa nozione di «disadattamento», quale oggi prevista dalla legge e recepita dalla prassi, è una nozione profondamente classista e socialmente discriminante, che deve essere sostanzialmente rive­duta.

Sul piano giurisdizionale, la magistratura mino­rile non può che assumere una fisionomia nettamente autonoma dagli altri rami dell'amministrazione giudi­ziaria, per superare le attuali carenze di specializza­zione dei magistrati e impedire che gli schemi tipici della giustizia penale repressiva regolino il giudizio verso i minori. Tale specializzazione dovrà coesistere con una sempre maggior partecipazione al giudizio di soggetti estranei alla magistratura togata, che apportino alla completezza del giudizio elementi non solo tecnici ma anche e soprattutto conoscenza delle situazioni ambientali di fatto dei giudicandi; ciò potrà essere raggiunto attraverso una democratizza­zione dei metodi di scelta dei giudici non togati, con partecipazione diretta dei cittadini alla amministra­zione della giustizia. Solo in tale modo si potrà ten­tare di evitare la natura classista del giudizio, in base al quale oggi i soggetti della classe sociale più diseredata vengono giudicati sulla base degli schemi logici ed etici propri della classe borghese. Discenderà quindi la necessità di una revisione delle stesse norme processuali e sostanziali, non trasferibili meccanica­mente ai processi contro i minori, e l'istituzione di un Codice minorile che rielabori radicalmente la materia, ispirandosi esclusivamente a criteri rieduca­tivi. Tali provvedimenti saranno il necessario com­pletamento della specializzazione del giudice togato, e della considerazione che quest'ultimo non è un ma­gistrato provvisorio, fortunosamente applicato ad una giustizia di seconda categoria.

L'inerzia in cui si continua a lasciar sussistere una situazione palesemente inadeguata alle più ele­mentari esigenze del settore, denuncia chiaramente una mancanza di volontà politica e di una qualsiasi tensione diretta al miglioramento, e impone di dire che la crisi del Tribunale per i minorenni non è sol­tanto un problema di limiti legislativi e finanziari. Essa sottintende un problema più vasto: un problema di frattura fra il diritto costituito e la realtà, che esi­gendo contenuti nuovi dentro le vecchie strutture oscillanti fra il paternalismo e l'assistenza impone che non si affronti prima il potenziamento e dopo la trasformazione, ma innanzitutto quest'ultima.

 

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