Prospettive assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969

 

 

LA VOCE DEI GIOVANI

 

I MINORI DISADATTATI E LA SOCIETA'

 

 

Al Liceo classico «C. Cavour» di Torino, nello svolgimento del programma di educazione civica, sono stati costituiti gruppi di studio riguardanti i più attuali problemi della nostra società. Riportiamo qui in breve, il dibattito conclusivo dei lavori effettuati dagli alunni in una seconda liceale sul problema del disadattamento giovanile e sul tribunale dei minorenni.

 

 

Quattro dei ragazzi partecipanti a1 dibattito hanno svolto uno studio particolareggiato sul tribunale per i minorenni di Torino e sugli istituti di rieducazione e di riadattamento dei minori.

Si tratta di Elvira, Cristina, Alberto ed Enrico, che hanno analizzato i problemi della delinquenza minorile e del disadattamento sociale. Il quinto, Paolo, ha invece una conoscenza meno approfondita ma più diretta del problema in quanto ha conosciuto di persona alcuni ragazzi dell'Istituto di osservazione «Beccaria» di Milano partecipando ad un campo di lavoro in Sicilia.

 

PAOLO: Mi pare che il centro del problema stia nel fatto che il disadattamento di questi ragazzi è soltanto una deformazione psichica di carattere pre­sente in ciascuno di noi. Quello che mi ha colpito, insomma, è la somiglianza tra alcuni aspetti del loro comportamento e i problemi di molti di noi.

 

ENRICO: Non è affatto vero. Io non ho i pro­blemi di un ragazzo disadattato. Anche se talvolta posso sentire in forma minima i sentimenti che spingono questi ragazzi alla delinquenza, o almeno a scappare di casa, non c'è assolutamente paragone.

 

CRISTINA: La mia presa di posizione riguardo a questo problema si avvicina al parere espresso da Paolo. Anche secondo me, infatti, ognuno di noi ragazzi ha in sé caratteristiche che, portate all'eccesso, generano insofferenze e spesso odio nei riguardi della società e che si esplicano in azioni di delinquenza come possono essere il commettere un furto, lo scap­pare di casa e persino l'uccidere. Naturalmente la società stessa, l'ambito familiare a volte degenerano, insomma le condizioni ambientali contribuiscono, direi anzi sono i principali fattori, a far sì che questi caratteri vengano portati all'eccesso.

 

ALBERTO: Vorrei sapere da Enrico se egli ritiene che sia negativo questo disadattamento dei ragazzi, oppure se essi siano soltanto vittime più di lui di determinate condizioni biologiche, psicologiche e am­bientali. I fattori motivanti il disadattamento sociale sono essenzialmente di tale specie. Tra i fattori bio­logici possiamo annoverare le tare ereditarie ed anche i disturbi che colpiscono la gestante provocando al nascituro traumi fisici e psichici. Altro problema è quello che anticamente ha portato l'opinione comune a considerare il figlio di criminali avviato necessaria­mente alla criminalità e che ora, grazie alla psicana­lisi, si considera come «predisposizione alla crimina­lità» (come il figlio di tubercolotici non è necessa­riamente tale, ma è predisposto a tale malattia). I fattori psichici sono essenzialmente di tre tipi:

1) Il grado di intelligenza più o meno svilup­pato che condiziona negativamente il meno dotato e provoca insieme senso di noia e difficoltà d'inseri­mento nelle strutture sociali al superdotato.

2) Carenze affettive oppure eccesso di prote­zione e affettività che portano alla mancanza di responsabilità e alla tendenza ad una rottura violenta con la società.

3) Deficienze educative (tirannide o menefre­ghismo dei genitori) che portano o alle inibizioni o all'istintivo soddisfacimento dei bisogni.

Fattori sociali: il ragazzo di bassa condizione può reagire alla struttura sociale colla rivolta, col furto (c'è poi ancora il problema dei gruppi giovanili che si alienano dal gruppo sociale di appartenenza con una sotto-cultura che dà origine al problema propria­mente delinquenziale).

 

ENRICO: Mi sembra chiaro, per rispondere alla tua domanda, che l'ambiente che circonda un giovane sia determinante per lo svilupparsi in lui di eventuali tendenze alla deviazione. La mia posizione nei loro confronti è dunque di profonda comprensione e in fondo mi spinge a pensare che la colpa sia essenzial­mente della società.

 

PAOLO: Vedi allora che sei giunto sulle mie posizioni?

 

CRISTINA: Riguardo a ciò che dice Alberto, cioè che i figli di delinquenti sono considerati come già avviati in partenza sulla strada della criminalità, non sono d'accordo. Questa opinione comune esiste, ed è un dato di fatto; però va scomparendo e quindi non deve essere considerata un vero e proprio problema. Guarda Alberto, parlo per esperienza, anche se indi­retta: so con certezza che oggigiorno sono molto rari, ad esempio, i datori di lavoro che non assumerebbero un ragazzo o una ragazza alle loro dipendenze, anche se forniti di buone referenze personali, soltanto per­ché il loro padre o la loro madre sono stati in carcere o qualcosa di simile. Preoccupiamoci piuttosto di qualcos'altro: come può essere la riforma dei sistemi educativi? Questo sì è un problema di estrema im­portanza e di difficile soluzione.

 

ALBERTO: Devo chiarificare che io intendevo sottolineare le difficoltà oggettive che il minore incontra nell'inserimento, che sono fondamentali soprat­tutto per la personalità del disadattato, che va incontro a frustrazioni e a umiliazioni di ogni genere da parte di una società che non vedo ottimisticamente come Cristina e che non mi sembra aver ancora abbando­nato i pregiudizi di cui è schiava da sempre.

 

ELVIRA: Io posso ammettere che in parte si possa trovare una giustificazione al comportamento di questi giovani perchè dovuto alla società, ma noi che siamo ragazzi normali non possediamo una mora­lità diversa dalla loro, un autocontrollo ed una intel­ligenza che ci impediscono di superare certi limiti oltre i quali la società non diventerebbe null'altro se non un enorme caos? Posso trovare un'ulteriore giu­stificazione se oltre alla situazione sociale c'è anche una mancanza di aiuto, comprensione ed educazione da parte dei genitori, o se le condizioni di vita più dure hanno permesso il formarsi nel giovane di indi­rizzi sbagliati, ma ritengo assolutamente ingiustificati e condannabili quei ragazzi che non sono stati privati di nulla dalla famiglia e che si comportano come delinquenti.

 

ALBERTO: Comunque sia il problema, è evi­dente che non sono i sistemi repressivi a riadattare questi ragazzi e che il vero problema non è portare la grandezza dei cubicoli da m. 1,40x2,30 a m. 3x4, ma è individuare, alla base della nostra società malata, quelle deficienze che condizionano il disadattamento giovanile.

 

ELVIRA: Secondo me dovremmo cercare in pra­tica una maggiore comprensione nella società per aiutare questi giovani, magari usciti da un centro di riadattamento, a reinserirsi nella società come parte attiva. Dovremmo inoltre, con ogni mezzo cercare di evitare che i giovani di bassa condizione sociale deb­bano considerare l'istituto di rieducazione uno stru­mento imposto dalla società al loro fallimento. Ognuno di noi deve dare comprensione ed aiuto ai ragazzi in queste condizioni.

 

PAOLO: Be', mi sembra evidente.

 

ENRICO: Sì, condivido ciò che dice Elvira, ma mi sembra necessario anche il discorso di Alberto, cioè che la riforma degli ambienti e dei centri edu­cativi sia una necessità contingente, ma che in fondo non risolva il problema. Quasi sicuramente i giovani disadattati di adesso saranno i futuri criminali, nuo­vamente scartati e messi al bando dalla società, e quindi necessitano di un aiuto, e non di repressione, subito.

 

ALBERTO: I sistemi di cura della nostra società a questi «malati» che essa stessa ha sfornato sono sempre e semplicemente repressivi. Così le persone che ritroviamo nei manicomi sono molto spesso per­sone affette da innocue manie o fissazioni che la società cura murandoli vivi, escludendoli e trattandoli non più come esseri umani.

 

PAOLO: Quello che dici è vero nei casi normali, diciamo pure negli istituti statali. Vi sono tuttavia istituti privati in cui la personalità dei detenuti, o meglio dei pensionati, è maggiormente rispettata, e proprio in questi casi ti accorgi come le misure repres­sive non facciano che peggiorare la situazione di que­ste persone. Ritengo insomma che un clima di nor­malità e di cameratismo sia il solo utile. La mia esperienza è rivolta solo a istituti di questo tipo, e per questo ho detto che la personalità dei detenuti è più rassomigliante a quella di persone considerate normali, in quanto il clima di vita comune, di riadat­tamento graduale alla società in questi istituti porta maggiormente un estraneo a capire i reclusi.

 

CRISTINA: Mi sembra che sia giusto quello che dice Paolo e cioè che: l'unico modo per reinserire nella società questi ragazzi disadattati e per renderli tali che non ricadano nell'errore già commesso, è poterli far vivere in istituti in cui ci sia un clima di normalità, più che cameratismo, oppure, possibil­mente, tutte e due le cose insieme. Non è certo rin­facciando e facendo continuamente pesare sui ragazzi la loro condizione che si fa opera di riadattamento, ma invece considerandoli normali e capaci. Un simile clima c'è, almeno a mio parere, al Ferrante Aporti di Torino, ma soltanto per quanto riguarda l'istituto di rieducazione, non certo il centro di osservazione e tanto meno credo la sezione di custodia detentiva.

 

ALBERTO: Credo che possiamo concludere che gli attuali istituti di rieducazione sono insufficienti e inadatti, ma il nostro dubbio è se, qualora i mezzi fossero riformati, contribuirebbero realmente alla reintegrazione dei disadattati sociali.

 

PAOLO: Scusami, ma forse non abbiamo speci­ficato bene la differenza tra mezzi tecnici e rieduca­zione vera e propria. Voi forse siete abituati a consi­derare l'aspetto esteriore, avendo visitato gli istituti ed essendo stati informati, diciamo ufficialmente. Ma io mi sforzo di considerare la personalità, l'umanità dei ragazzi che ho conosciuto. In realtà si trattava di casi particolari, erano colpevoli di delitti molto leg­geri e quindi più vicini al nostro mondo, di noi «nor­mali». Un momento, ho sbagliato, non siamo noi i normali e loro gli anormali, voglio ancora battere su questo punto. Cercate di vederlo come un caso umano, vi ripeto. Ho trovato dei ragazzi che erano stati scartati, che non trovavano un posto legalmente rico­nosciuto, non so se capite. Una persona anche di sangue freddo e di idee progressiste sarebbe stata prevenuta nei confronti di quei ragazzi; eppure erano tanto vicini, col loro modo di pensare e i loro discorsi, alla nostra stessa vita, che ho capito come ciascuno di noi sia condizionato, in quella che è la sua natura più o meno simile a quella degli altri, soprattutto dall'ambiente, dai rapporti con l'esterno. Elvira diceva che noi abbiamo una certa moralità, ma dove l'ab­biamo presa? In un ambiente in cui era facile com­portarsi bene, in cui in cambio della buona condotta ricevevamo ricompense, soprattutto nel nostro biso­gno o di affetto o di distrazione o di divertimento. Il fenomeno della delinquenza giovanile non è cau­sato tanto dal bisogno, quanto proprio dalla mancanza di uno sfogo emotivo molto simile al divertimento (vedi bande giovanili, il cui scopo, il divertimento o la protesta in forma paradossale, non è molto lon­tano da innocui giochi da grandi come la caccia all'ele­fante o il poker). Quello che voglio dire, anche se naturalmente ho esagerato, è che noi se non siamo «spostati» non è altro che per la possibilità che abbiamo di sfogare i nostri istinti. Ma questo richie­derebbe un lungo discorso.

 

ENRICO: Non bisogna comunque essere ecces­sivamente pessimisti. Infatti di quello che dici tu si tiene relativamente conto. Per esempio, è vero che l'indagine preliminare al processo, di carattere fisico, psichico, morale ed ambientale, viene ogni volta tra­scurata per la sua lunghezza, ma è anche vero che esistono per i disadattati istituti di osservazione, gabinetti psico-pedagogici, uffici di servizio sociale, focolari, ecc., il cui criterio è abbastanza simile a quello che auspichiamo. Il difetto è naturalmente la carenza numerica e organizzativa, ma i criteri educa­tivi sono sentiti abbastanza modernamente da tutti. Il fatto è che su 6.800 magistrati solo 65 si occupano dei tribunali dei minorenni, e inoltre proprio per carenze di personale e di organizzazione, i metodi sono repressivi (per esempio le stesse norme, che sono più disciplinari che formative). Senza contare che l'inquadramento nelle varie categorie di disadat­tati è piuttosto assurdo, in quanto vengono in esse inseriti per es. i minori che presentano difficoltà d'in­serimento nel lavoro, o scolasticamente ritardati, e per essi la casa di rieducazione diventa una specie di ultimo rifugio anche se avrebbero le capacità per crearsi una nuova vita. E ancora c'è da tener conto del mancato riconoscimento da parte dello Stato degli assistenti sociali, vero personale specializzato nel campo. Pensate che talvolta i ragazzi vengono addi­rittura affidati al personale carcerario.

 

ALBERTO: Bene, penso possiamo essere tutti d'accordo sulle conclusioni. Vorrei quindi riassumere i problemi che con questo dibattito abbiamo portato alla luce e le proposte risolutive che possiamo for­nire. Abbiamo visto, innanzi tutto, le radici del disa­dattamento e abbiamo cercato di analizzarle e cata­logarle, abbiamo visto le critiche e le obiezioni che si possono muovere alle istituzioni destinate alla rie­ducazione, giungendo infine alla duplice conclusione:

1) che il disadattamento è causato da partico­lari fattori fra i quali, importantissimi «germi» sociali, e quindi una specie di malattia cui tutti potremmo essere soggetti;

2) che i sistemi repressivi e di messa al bando che usa la società sono errati e che anche i mezzi adatti non solo sono pochi, ma anche inefficienti per­ché non li si sa usare.

Le nostre proposte sono dunque, mi sembra, abbastanza semplici e cioè evitare nel modo più asso­luto rimedi violenti e di reclusione, e avviarsi sulla strada della prevenzione sociale e psicologica.

 

PAOLO: Vorrei ricordare una proposta che mi sembra ottima: costruire piscine, palestre di pugilato e judo, sul concetto di base che se nella natura umana è presente un impulso inestirpabile, non si deve cer­care di opprimerlo o lasciare che lo sfogo di esso sia riservato solo a determinate classi sociali, se non si vuole ottenere un'anomalia o una degenerazione. Bisogna invece trovare un campo in cui esso possa svilupparsi.

 

 

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