Prospettive assistenziali, n. 7, luglio-settembre 1969

 

 

EDITORIALE

 

 

Per la prima volta una proposta di legge organica sulla riforma gene­rale dell'assistenza sociale è stata presentata al Parlamento. Si tratta della proposta di legge N. 1676 presentata il 7 luglio 1969 alla Camera dei De­putati dall'On. Franco Foschi e altri «Organizzazione del settore dell'assi­stenza sociale ed interventi per le persone in condizione o situazione di inca­pacità e, in particolare, per i disadattati psichici, fisici, sensoriali e sociali».

Prima di presentare detta proposta e di affrontare il problema della riforma generale dell'assistenza sociale, che sarà trattato nel prossimo nu­mero, si è ritenuto necessario prospettare la situazione attuale dei cosiddetti disadattati sociali e chiarire e sviluppare le nostre proposte contenute nel nu­mero 5/6 di questa rivista.

Due sono essenzialmente gli atteggiamenti di fronte al problema dei disadattati sociali. Il primo, che si può definire individualistico-repressivo, si esprime nel ricercare i comportamenti dei ragazzi che non corrispondono a modelli dominanti e nel reprimere detti comportamenti mediante la segre­gazione o altre misure coercitive.

Questo atteggiamento, che fa risalire la responsabilità del comporta­mento ad ogni singolo ragazzo disadattato o al massimo alla sua famiglia, tran­quillizza le autorità che nascondono le responsabilità più profonde a se stesse e all'opinione pubblica.

Purtroppo non sono pochi gli esperti che hanno dato e danno una con­valida «scientifica» a questa impostazione.

Questo atteggiamento consente, fra l'altro, il perpetuarsi di situazioni incivili, come il ricovero in istituti di «rieducazione» di bambini di 12 ed anche di 6 anni, «colpevoli» di essere poveri o insufficienti mentali o biso­gnosi di assistenza (V. l'inchiesta Senzani).

Ma vi è di più. Viene «scientificamente» giustificata la norma giuridica in base alla quale il tribunale per i minorenni ed i servizi rieducativi del Mi­nistero di grazia e giustizia possono intervenire indipendentemente da even­tuali reati, quando una non definita e non definibile strutturazione della per­sonalità fa presupporre una evoluzione dissociale del minore, il che autorizza interventi anche obiettivamente non giustificabili.

E' infatti significativo osservare che dette situazioni vengono reperite con netta prevalenza nell'ambito dei ceti poveri (1), come se il ricevimento della cartella delle imposte fosse un vaccino al disadattamento. E' utile pre­cisare inoltre che la famiglia del minore, quando si trova di fronte ad un magistrato o ad una équipe di esperti, viene portata ad avere una piena fi­ducia sulla necessità dell'intervento e sulla bontà delle misure prese, nei casi in cui il «disadattamento» del figlio è in atto o è da prevenire.

Allo stesso modo vengono coinvolti i mezzi di informazione, e l'opi­nione pubblica non solo è tranquillizzata dall'azione repressiva, che spesso reclama, ma è portata a considerare gli investimenti finanziari del settore come una benevola elargizione per «rimettere sulla buona strada» gli ele­menti «parassitari».

Un'altra conseguenza di questo atteggiamento è l'ubicazione delle case di rieducazione (spesso di notevole capienza) in località isolate e l'utilizza­zione di edifici spesso plurisecolari.

Si tratta di vere isole di segregazione anche nei rari casi in cui la costru­zione è recente.

L'altro atteggiamento, che condividiamo, non si limita a stabilire clas­sificazioni mediche o psicologiche o sociali o giuridiche, ma reclama la neces­sità che ogni individuo sia liberato dalle condizioni negative che impediscono o condizionano la sua maturazione personale e il suo attivo inserimento sociale.

Questo atteggiamento è una conseguenza dell'accettazione di tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni o handicaps di qualsiasi natura.

Questo atteggiamento è certamente molto più impegnativo e responsa­bilizzante, in quanto è evidente che esso implica, in primo luogo, che le strutture sociali siano, ai vari livelli, rispondenti alle esigenze delle persone, delle famiglie e dei gruppi.

L'attuazione pratica di questa impostazione richiede inoltre un diverso orientamento delle attività degli operatori del settore e un loro diverso im­pegno personale.

Essi non possono, a nostro avviso, continuare ad applicare esclusiva­mente metodi di trattamento individuali o di gruppo nei confronti dei ra­gazzi «da rieducare», sulla cui efficacia d'altra parte gli esperti più attenti hanno sempre maggiori dubbi.

E' invece necessaria l'individuazione delle cause sociali, oltre che di quelle individuali e familiari. L'operatore da «individuale» si deve pertanto trasformare in operatore « sociale » nel senso che deve agire affinché siano rimossi i fattori sociali disadattanti.

Oggi, in conseguenza della pubblicizzazione delle condizioni insostenibili in cui si trova la maggior parte dei servizi rieducativi, si corre il gravissimo rischio che gli istituti di rieducazione vengano ammodernati e che le disposi­zioni in materia vengano aggiornate senza modificare l'impostazione di fondo della rieducazione (vedasi il progetto Gonella-Colombo).

Infatti, già oggi sono molti i minori che vengono rinchiusi nelle case di rieducazione non perchè siano «da rieducare», ma perchè non interven­gono gli enti di assistenza (2): è evidente che, se aumentassero i posti dispo­nibili negli istituti di rieducazione, il fenomeno si aggraverebbe ulteriormente. L'Unione Italiana per la Promozione dei Diritti del Minore ritiene in­vece che debbano essere affrontati in modo unitario i problemi di natura assistenziale e ritiene indispensabile che vengano attuati i seguenti interventi urgenti:

- l'estensione della non imputabilità nei confronti dei minori degli anni 18;

- l'accertamento caso per caso dell'imputabilità per i minori dai 18 ai 21 anni, preferibilmente con l'estensione di detto principio ai giovani adulti (dai 21 ai 25 anni);

- l'inserimento dei servizi rieducativi nel settore (riorganizzato) dell'assi­stenza sociale;

- l'attribuzione all'autorità giudiziaria della competenza ad intervenire solo nei casi in cui vi è conflitto, non essendo l'intervento assistenziale accet­tato dall'avente diritto o dall'esercente la patria potestà. L'autorità giudi­ziaria dovrebbe pure intervenire per la salvaguardia dei diritti delle per­sone (minori o adulti) ricoverate in istituti assistenziali a carattere di internato, senza però avere alcuna possibilità di interferire sui metodi educativi, beninteso salvo quando vi sia violazione dei diritti personali; di conseguenza le strutture rieducative vere e proprie verrebbero ad es­sere limitate nel numero e nelle dimensioni, decentrate a livello locale (come i servizi di assistenza sociale) e con una netta priorità dei servizi aperti e inseriti nel contesto sociale (3).

 

 

 

(1) Come risulta dai dati tratti dall'Annuario di statistiche giudiziarie, ISTAT, 1967, p. 364, il grado di istruzione dei 5826 minori ricoverati nelle case di rieduca­zione e negli istituti di osservazione era il seguente:

- analfabeta                                                                                n.  523

- elementare incompleta                                                             »  2520

- elementare                                                                               »  2348

- superiore alla elementare                                                         »   435

(2) Coppola Celso, I servizi per disadattati in età evolutiva con manifesta­zioni antisociali, A.A.I., Roma, 1969, p. 15.

(3) Vedasi anche la proposta di legge di iniziativa popolare «Interventi per gli handicappati psichici, fisici, sensoriali e per i disadattati sociali» in Prospettive assistenziali, n. 5/6, 1969.

 

 

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