Prospettive assistenziali, n. 3-4, luglio-dicembre 1968

 

 

APPENDICE

 

TEOLOGIA DELL'ADOZIONE

 

 

PRESENTAZIONE

 

La teologia dell'adozione non è un argomento per un gruppo ristretto di specialisti o un argo­mento astratto e avulso dalla realtà. A parte il valore di ricerca spirituale e di arricchimento religioso per i credenti, esso ha un valore sto­rico e culturale non comune.

Per quanto riguarda la ricerca spirituale e re­ligiosa, con singolare penetrazione e con gioio­sa sorpresa i credenti attingono, tramite la ri­scoperta dell'adozione, il nucleo stesso, l'essen­za più profonda della loro fede, la storia com­pleta del cammino soprannaturale dell'umanità: Dio creatore della famiglia umana, nucleo natu­rale e divino di tutte le generazioni; Dio che al­laccia con l'uomo un rapporto di adozione («Io ti sarò Padre, tu mi sarai figlio») , tosto inter­rotto dalla colpa degli uomini, ma riannodato e svelato in tutta la sua profonda realtà dal Figlio primogenito, salvatore, della nuova figliolanza divina. Chi aderisce a questo piano di salvezza e con la carità partecipa alla sua realizzazione, contribuisce a ristabilire il piano originario di Dio, tra cui anche la funzione non secondaria di dare a un bambino che non l'ha una famiglia, «ristabilendo così per lui il piano primitivo di Dio» (P. Oger). Adozione divina e adozione u­mana: due realtà spirituali e concrete, che a vi­cenda si illuminano, si richiamano, si esaltano.

Dal punto di vista storico e culturale, si può osservare che, quando San Paolo impiegava il termine di adozione per indicare un'immagine d'una realtà soprannaturale, tracciava anche una concreta via di assistenza sociale. Infatti i suoi appelli alle comunità cristiane, per l'aiuto alle vedove e agli orfani, trovano già nell'antichissi­mo libro della Didaché un'eco concreta e un ri­ferimento preciso all'adozione umana: «Se un cristiano, maschio o femmina, diventa orfano, sarà cosa bella e buona che un nostro fratello, senza figli, lo adotti per suo pupillo e lo tratti come suo figlio».

In questa prospettiva, l'assistenza cristiana, o in ambienti cristiani, avrebbe grande bisogno e vantaggio nel richiamarsi e riformarsi alla luce di queste fonti originali. Come osserva P. Oger, le istituzioni caritative e sociali che si sono cu­rate di bambini soli devono riconoscere il loro valore transitorio e suppletivo, e cedere via via il posto alla riscoperta e alla rivalorizzazione dell'ambiente naturale e soprannaturale, insie­me, che la famiglia rappresenta per vocazione nei confronti dei bambini soli.

Nello studio di P. Oger, si coglie inoltre un parallelo significativo: l'assistenza familiare, in grande considerazione nelle comunità cristiane primitive, nei secoli successivi cede il posto al­le istituzioni extrafamiliari, allo stesso modo che la dottrina della «adozione divina» dal fervore dei primi secoli cede il posto a disquisizioni giu­ridiche sull'adozione. In particolare, sulla base della loro esperienza storica, i teologi tendono a sminuire il valore dell'adozione umana (fatta in effetti per lo più a scopi patrimoniali), di fronte all'adozione di Dio nei confronti dell'uo­mo, adozione non fittizia o puramente giuridica, ma autentica, disinteressata, efficace, veramen­te donatrice dell'essere.

Ma ancora una volta l'intuizione di san Paolo ha il sopravvento sulle speculazioni teologiche: san Paolo non distingue fra adozione umana e adozione divina, assume l'adozione umana co­me immagine efficace dell'adozione divina.

E le moderne scienze pedagogiche, psicologi­che e psichiatriche gli danno ragione: come l'amore di Dio trasforma l'uomo, così l'adozione umana attraverso l'amore, la dedizione, la generosità produce una trasmissione vitale fra genitori e figli adottivi. Osserva P. Oger: «Ba­sterebbe, per provarlo, paragonare fra loro bam­bini allevati in nidi e orfanotrofi e bambini a cui l'adozione ha permesso di vivere una vita fami­liare in una famiglia adottiva».

Con questo ci si colloca - in piena oggetti­vità e scientificità - in una situazione psicolo­gica ed educativa per cui i genitori adottivi pos­sono aver ragione di eventuali, e non sempre provate, influenze ereditarie dei loro figli.

Onde l'appello urgente che scaturisce da que­sta impostazione: la Chiesa cattolica darà un esempio di fede autentica e un impulso alla ca­rità cristiana, dimostrerà un coraggioso allinea­mento con la scienza moderna, con l'assistenza più aggiornata, accelerando la riforma del codi­ce di diritto canonico in quelle norme che limi­tano i diritti dei figli illegittimi nei confronti della piena partecipazione alla Chiesa stessa, per esempio nel sacerdozio.

La riscoperta del valore dell'adozione è con­fermata in modo autorevole dal Concilio Ecu­menico Vaticano II che nel decreto sull'Aposto­lato dei laici pone al primo posto fra le opere di apostolato familiare: «infantes derelictos in fi­lios adoptare», adottare i bambini soli renden­doli propri figli.

 

 

TEOLOGIA DELL'ADOZIONE (1)

 

Che cosa bisogna intendere con l'espressione: Teologia dell'adozione? Niente altro che: la concezione cristiana dell'adozione.

Ma, proprio perchè si basa sulla Fede, la con­cezione cristiana delle realtà umane non si per­cepisce a prima vista: essa richiede di essere scrutata, approfondita, illuminata dalla Fede. Questo è il servizio che ci rende la Teologia: aiutarci a meglio conoscere Dio e tutto ciò che ha relazione con Dio, ossia le cose come Dio le vede - quasi oculo Dei, come dice san Tomaso d'Aquino, - partendo dai dati della Rivelazione.

Svolgere la teologia dell'adozione, significa dunque vederla come Dio la vede, situarla nel piano di Dio, nelle prospettive cristiane.

Un numero troppo grande di laici, troppi sacer­doti e religiose, troppi giuristi hanno ancora, inconscia nel loro spirito, un'idea pagana dei di­ritti e dei doveri dei genitori, la quale fatalmente ha la sua incidenza sull'educazione e ri­schia di falsare le idee in materia di adozione. Significa ritornare all'errore del razzismo, il ri­vendicare, come si fa troppo spesso, «la legge del sangue» o «i legami del sangue».

Bisogna proclamarlo ad alta voce: la paternità e la maternità sono anzitutto delle realtà spiri­tuali, anche se si inscrivono da principio nella carne e nel sangue. Se non sono «nate dal san­gue», sono a maggior ragione spirituali, senza perdere per nulla la loro realtà. Citiamo qui Jean Guitton nel suo libro La Vergine Maria: «La riflessione sulla Vergine Maria può inse­gnarci a purificare... la relazione che noi chia­miamo paternità e nella quale la maternità è compresa.

Risulta molto chiaramente che la relazione di un padre a un figlio è una relazione di spirito, cioè di appartenenza e di responsabilità, molto più che di carne. E se la madre, anche se legata dal corpo al suo prolungamento vitale, non fosse altro che colei che porta e che mette al mondo il bambino, quanto poco sarebbe madre!»

Lo si constata d'altronde tutti i giorni, la sim­patia naturale, le «affinità elettive» creano spesso fra due esseri, estranei l'uno all'altro per nascita, dei legami più forti di quelli della parentela e della consanguineità. Quando si con­stata questo fatto nel caso dell'amicizia e in quello dell'adozione - ed è esperienza quoti­diana di tutte le famiglie adottive - si può considerare con molto scetticismo, la pretesa «legge del sangue».

Sarebbe misconoscere il sentimento di pater­nità e il sentimento di maternità, che i genitori adottivi vivono come gli altri, farne una questio­ne di sangue. Diventare padre o madre, di un figlio adottivo o di un altro, dipende dall'amore e non dal sangue. Troppo spesso si dimentica che un bambino diventa un uomo con l'educazio­ne... e non con l'alimentazione!

Il generare, il partorire un essere umano non è che un inizio. Che cosa diventerebbe il bam­bino più dotato del mondo se non fosse educa­to, amato, se l'ambiente umano venisse a man­cargli improvvisamente? Lo si è potuto consta­tare chiaramente nell'esempio dei «bambini­-lupo». Il libro della Giungla è senza dubbio pieno di poesia e ci ricorda opportunamente certe le­zioni che la vita artificiale della città ci aveva fatto dimenticare, ma chi oserebbe pretendere che questo libro descriva l'ambiente normale di educazione da riservare ai piccoli figli degli uo­mini?

D'altronde, il problema dell'adozione si può porre non solo sul piano umano, ma sul piano divino della nostra vita. L'uomo può adottare; ma anche Dio può adottare e l’ha fatto, come vedremo.

Una migliore comprensione dell'adozione ci permette di cogliere meglio non solo un certo genere di relazioni fra due persone umane sen­za parentela comune, ma anche le relazioni nuo­ve stabilite dal Cristo tra l'uomo e Dio.

Il tema dell'adozione ha troppe affinità col Cristianesimo perchè noi non ci preoccupiamo di averne un'idea esatta e non lo consideriamo in tutte le sue prospettive, umane e divine. Que­ste prospettive sono riferibili a quelle della creazione dell'uomo da parte di Dio e della sua Redenzione da parte di Cristo.

 

LA CREAZIONE E LA PROVVIDENZA

 

Nelle sue prime pagine, il libro del Genesi ci riferisce la creazione dell'uomo e della donna. La prima coppia umana di cui si tratta nella Bibbia ci è presentata come quella che realizza un'intimità totale, che da sé richiama l'esclusi­vità e la stabilità. «Per questo l'uomo lascia suo padre e sua madre per unirsi alla sua donna e diventano una sola carne» (Gen. 2, 24). I figli che nasceranno da questa unione troveranno nel­la famiglia umana così costituita il loro quadro naturale.

Da questo primo racconto del libro sacro, pos­siamo già dedurre che la famiglia è d'istituzione divina e che il posto normale d'un bambino è nel seno d'una famiglia.

Poiché la Provvidenza di Dio è una conseguenza logica della Creazione, possiamo dire, con la Scrittura, che Dio veglia su ciascun essere u­mano, adulto o bambino. L'uomo infatti non è agli occhi di Dio una creatura qualunque, ma un essere intelligente, creato a sua immagine, e vivente, in un modo ancora misterioso, nella sua amicizia.

La colpa originale e i peccati degli uomini.

La colpa dei nostri progenitori distrusse l'ar­monia che esisteva in seno alla Creazione. I rapporti degli uomini con Dio e degli uomini fra di loro furono sconvolti. La società degli uomi­ni conobbe la discordia e la famiglia stessa vide distrutta la sua armonia. Tutto era possibile or­mai: morte prematura dei genitori, disaccordo, separazione, divorzio, abbandono dei figli...

La storia della società antica ci riferisce la scarsa considerazione che gli adulti dimostra­vano spesso verso i bambini: uccisione, «espo­sizione», cioè: abbandono, o accettazione dei fi­gli e rifiuto delle figlie.

Per essere oggettivi, ricordiamo tuttavia una istituzione dell'antichità, l'alumnat che assicura­va a un bambino il mantenimento e l'educazione, senza tuttavia integrarlo a una famiglia.

L'Antico Testamento non contiene prescrizio­ni legali concernenti l'adozione. Riferisce tutta­via alcuni casi di «adozione», tra cui quella di Mosè da parte della figlia del Faraone di Egitto, e quella di Ester da parte di Mardocheo, ma questi si collocano in un ambiente straniero e non è certo che si trattasse di adozione in sen­so stretto (2).

Se la storia romana ci parla di adozione in al­cuni celebri esempi, per esempio, quello di Ti­berio da parte di Augusto, non si trattava di ado­zione di bambini, ma di adulti. Il bambino non aveva ancora acquistato in questa epoca la con­siderazione che noi gli accordiamo oggi e che gli viene dal Cristianesimo.

 

L'INCARNAZIONE E LA REDENZIONE

 

Al fine di riunire gli uomini a Dio, di farli rientrare nella sua amicizia, il Cristo s'inserì nel corso della storia umana: si fece uomo, sen­za cessare di essere Dio, e riscattò tutta la real­tà umana.

La sua non fu soltanto opera di salvezza, ma anche di luce. Ci rivelò il piano di Dio, «nasco­sto alle generazioni». Quell'amicizia che Dio aveva inaugurato coi nostri progenitori, era in realtà una adozione. Dio diventava veramente nostro Padre e ci considerava come suoi figli. «Quando pregherete, direte: Padre nostro....» (Luca 11.2). «A tutti quelli che l'hanno accolto, il Cristo ha donato il potere di diventare Figli di Dio» (Giov. 1.12).

A rigore di linguaggio, bisogna dire tuttavia che solo il Cristo è Figlio di Dio per natura. Gli uomini non sono Figli di Dio, né per natura, né per diritto, ma soltanto per grazia, per la grazia dell'adozione divina, in partecipazione alla gra­zia del Cristo. Ma, in questo senso, è giusto ri­conoscere una parentela col Cristo: egli è real­mente «il primogenito d'una moltitudine di fra­telli», come dice san Paolo (Rom. 8, 29). Figlio di Dio da tutta l'eternità il Cristo ci fa parteci­pare alla sua filiazione divina. Se noi siamo Figli di Dio in definitiva, lo siamo «nel Cristo» e «per il Cristo». Filii in Filio.

I rapporti fra Dio e Israele, suo popolo, erano già stati abbozzati nell'Antico Testamento sotto l'immagine di un rapporto padre-figlio e anche sotto quello di una adozione, come ci ricorda la lettera ai Romani. Tuttavia non si trattava qui di una adozione individuale come quella che ci con­ferisce il battesimo, ma d'una adozione collet­tiva, quella del popolo ebreo nel suo insieme.

Nella pericope in questione, san Paolo parla de­gli Israeliti «a cui appartengono l'adozione fi­liale, la gloria, la alleanza... la promessa... e da cui il Cristo è uscito secondo la carne...» (Rom. 9, 4-5). «San Paolo vuol dire con ciò, ci spiega un esegeta, che Dio ha trattato il popolo ebreo come suo figlio, liberandolo dalla schiavitù d'Egitto, dandogli una ricca eredità, colmandolo di benefici, coprendolo con la sua protezione, di­fendendolo contro i suoi nemici, in una parola dimostrandosi per lui come il migliore dei pa­dri». (3) L'Apostolo avrà cura di notare poco dopo che tutti gli Israeliti non sono diventati tuttavia Figli di Dio, come tutti i figli di Abramo non hanno ereditato la promessa:

«Allo stesso modo che, pur essendo discen­denza di Abramo, non tutti sono suoi figli... che non i figli della carne sono i Figli di Dio, i soli che contano come discendenza sono i figli della promessa » (Rom. 9, 7-8).

L'idea di adozione che san Paolo aveva sola­mente citato a proposito dell'Antico Testamen­to, l'ha sviluppata soprattutto trattando della nuova economia della salvezza da parte di Cri­sto:

«Voi non avete ricevuto uno spirito di timo­re..., ma uno spirito di adozione nel quale noi gridiamo: Abbà, Padre» (Rom. 8, 15).

«Benedetto sia Dio, il Padre di nostro Signore Gesù Cristo... che ci ha eletti prima della crea­zione del mondo... stabilendo da principio che noi saremmo per lui dei figli adottivi per mezzo del Cristo Gesù». (Ef. 1, 2-5).

Ormai ogni essere umano, adulto o bambino, acquista dunque un valore particolare. Non è solamente una creatura di Dio, nel senso filosofico e astratto della parola, ma un figlio di Dio, un figlio adottivo che può rivolgersi a Dio dicendo­gli in tutta verità: «Padre nostro».

Questa adozione divina, questa filiazione a­dottiva, come scrive F. Amiot, è la definizione stessa della nuova vita del cristiano». Essa por­ta d'altronde con sé dei doveri più precisi:

«L'adozione filiale impone all'uomo un profon­do cambiamento di vita, per la dignità eminen­te che gli conferisce, per la trasformazione dei suoi rapporti con Dio, per le esigenze morali che comporta, per i sentimenti di affettuoso rispet­to e di continua azione di grazia a cui lo invi­ta ». (4)

I Padri della Chiesa hanno celebrato a gara l'adozione divina. «Che Dio chiami l'uomo suo figlio, che l'uomo dia a Dio il nome di Padre e che questo appellativo reciproco sia l'espressio­ne della realtà, ecco il dono che supera tutti i doni» diceva san Leone. San Giovanni Criso­stomo, parlando ai suoi neofiti ne deduceva la seguente esortazione: «Colui dunque che crede e professa che è figlio di un tale Padre, conduca una vita conforme alla sua origine, conforme a quella di suo Padre; affermi nel suo pensiero e nelle sue azioni ciò che ha ottenuto dalla sua origine celeste».

«Non è affatto per mancanza, in difetto di fi­gli, che Dio ci adotta; lo fa unicamente per amo­re, allo scopo di diffondere su altri esseri, l'ab­bondanza delle sue perfezioni. Infatti, egli pos­siede un Figlio uguale a stesso, sovranamen­te perfetto, immortale, erede di tutti i suoi be­ni; ma, sospinto dalla sua bontà, egli vuole al­largare il cerchio della famiglia divina, ammet­tere alla divisione dei suoi beni le creature che non vi avevano alcun diritto, e conferire loro, adottandole, una sorta di filiazione che è un'im­magine: di quella del Verbo, allo stesso modo in cui, con l'atto creatore, aveva comunicato a tut­ti gli esseri usciti dalle sue mani una somiglian­za della sua perfezione. Di qui le seguenti paro­le dell'Apostolo «Coloro che Dio ha conosciuto nella sua prescienza, li ha predestinati ad es­sere conformi all'immagine di suo Figlio» (Rom. 8, 29) (5).

 

LA CHIESA

 

Avendo vissuto la vita di un uomo normale, il Cristo è risalito al Padre, ma continua sulla ter­ra, attraverso la Chiesa, la sua opera di luce e di salvezza.

La Chiesa è così sulla terra la casa di Dio, la grande famiglia di tutti i figli adottivi del Padre. Essa li illumina con la sua dottrina e trasmette loro, con i Sacramenti, la vita della grazia. Ali­menta sulla terra la vita di Carità dell'umanità con Dio e degli uomini fra loro.

In un'epoca in cui la Chiesa è sempre più coe­stensiva con il mondo, e in cui il mondo cerca la sua unità nella pace, occorre ricordargli che la fraternità umana ha per fondamento la pater­nità divina. Non è una solidarietà puramente u­mana che ci lega gli uni agli altri, ma una stessa adozione da parte del Padre. Che cosa importa­no le differenze di razza e di civiltà? Noi siamo tutti fratelli perchè tutti Figli di Dio, eredi di Dio, coeredi del Cristo.

 

 

LA CARITA' E LA VITA DELLA GRAZIA

 

D'ora innanzi, le relazioni degli uomini tra loro dovranno essere impregnate di Carità. A­mare gli uomini equivale ad amare Dio. «Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei, diceva il Cristo, l'avrete fatto a me» (Mat. 25, 40).

Il Cristo ha particolarmente raccomandato al­la nostra carità i poveri, gli infelici di ogni sorta e, in modo particolarissimo, i bambini. «Chi ac­coglie uno di questi bambini in mio nome, acco­glie me e chi mi accoglie, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Marco 9, 37).

L'adozione diventa dunque, nella concezione cristiana della vita:

- Un atto eminente della virtù teologale della Carità;

- Un'opera di misericordia corporale e spiri­tuale;

- Un atto altamente gradito a Dio, poiché ri­guarda uno di quei piccoli che egli ci ha parti­colarmente raccomandato per mezzo del Cristo.

Non si tratta più, in questo caso, soltanto di un servizio transitorio e occasionale. Si tratta di ciò che vi è di più importante per un essere umano: la sua vita, il suo destino naturale e soprannaturale.

Adottare un bambino è ben altra cosa che nu­trirlo e vestirlo. Si tratta di impegnarsi verso di lui a una dedizione senza limite, durante tutta la sua vita.

Introducendolo nella Chiesa, facendolo battez­zare, educandolo cristianamente, si prepara il destino soprannaturale di questo bambino. Gli si procura con ciò il solo bene che abbia valore assoluto quaggiù, la Carità, l'amore di Dio-Padre quale noi conosciamo attraverso la Rivelazione.

Non sono soltanto i genitori adottivi che ac­colgono questo bambino. E' il Cristo stesso, per mezzo loro e attraverso loro. Così la Carità cri­stiana adempie una sua funzione essenziale: ri­parare il male causato dal peccato originale. A questo bambino che non aveva famiglia, ne do­nano una, ristabilendo così per lui il piano pri­mitivo di Dio.

La Carità verso i bambini abbandonati o orfa­ni fu esercitata per secoli dalle istituzioni cari­tative che hanno salvato e educato migliaia di bambini. Il merito della loro Carità rimane in­tatto, ma attualmente la Carità verso i bambini acquista una dimensione familiare. Pur rimanen­do sempre divina nella sua essenza, essa diven­ta ora più umana.

L'amore parentale è inscritto profondamente nel cuore della natura umana, a tal punto che ci sembra snaturato il padre o la madre che non lo provano. Ma, poiché raggiunge le profondità, consce o inconsce, della nostra natura, questo amore è spesso soggetto a deviazioni: amor proprio, malintesa fierezza dei genitori di aver messo al mondo un figlio, possessività, orgo­glio, ambizione...

Non intendiamo qui sminuire il merito dei ge­nitori che hanno avuto la ventura di trasmettere la vita, né offuscare la loro gioia. Vogliamo solo constatare che in tutti i nostri affetti umani, ivi compreso l'amore parentale, si scoprono delle impurità.

Quando si richiede ai genitori di amare di ca­rità i loro figli e non solo secondo l'istinto, l'in­clinazione naturale facilita le cose. I genitori de­vono, in fin dei conti, amare i loro figli come Dio li ama, poiché Dio li ama e, per ultimo mo­tivo, perchè i figli sono, sul piano soprannatura­le, i Figli di Dio prima di essere i loro propri fi­gli. Bisogna tuttavia aggiungere subito che le prove della vita, le opposizioni di carattere, gli scontri così frequenti fra genitori e figli, i ma­lintesi, le incomprensioni, tutti gli imprevisti che porta con sé la vita in comune mette a prova e purifica la Carità dei genitori verso i loro figli, distaccandoli da un amore che sarebbe troppo umano, troppo carnale.

Ciò che si realizza per i genitori naturali in questa purificazione della Carità vale a fortiori per i genitori adottivi, poiché si richiede loro fin dall'inizio un maggiore distacco.

A quel bambino che accolgono nella loro fami­glia, non hanno avuto la gioia di trasmettere la vita; essi devono accoglierlo così com'è senza sapere spesso granché delle sue origini. A que­sto proposito bisogna dire che i genitori naturali, anche se conoscessero i loro ascendenti, diffi­cilmente potrebbero indagare oltre due o tre generazioni, ma lo «spirito di famiglia» - che non è sempre una virtù - farà loro accettare più facilmente le sorprese dell'eredità da parte dei loro ascendenti che non da parte di scono­sciuti!

Bisogna inoltre ammettere che nella nostra epoca l'eredità non è più lo spauracchio che era nel secolo scorso; tuttavia, a prima vista e sog­gettivamente in ogni caso, il rischio può sem­brare maggiore nel caso di genitori adottivi che accolgono da un giorno all'altro «uno scono­sciuto» in seno alla loro famiglia, gli danno il loro nome, ne fanno il loro erede, lo introducono nella loro famiglia allargata, ascendenti e colla­terali.

Aggiungiamo che l'amore dei genitori adottivi è umanamente altrettanto vero di quello dei ge­nitori naturali. Se hanno la gioia di accogliere un bambino nella culla, subito lo amano, senza pre­venzioni e senza riserve. Questo bambino diven­ta loro dal momento che varca la parta della loro casa.

La Carità dei genitori adottivi verso il bambino che hanno accolto sarà tuttavia più esigente di un'altra. Richiederà loro, non solo di accettare in anticipo i rischi della loro educazione, le loro malattie, le loro difficoltà di carattere, ma anche di non conservare, neppure nel loro subcoscien­te, la prevenzione di cui abbiamo parlato, poiché questa avrebbe fatalmente una ripercussione sul­la formazione del carattere del bambino. Non è permesso loro di credersi superiori al bambino solo perchè la loro condizione naturale si colloca di più nella norma della vita umana.

Non è permesso loro di sospettare in ogni momento, e falsamente, l'eredità del bambino invece di riconoscere i propri errori in materia di educazione.

Se l'eredità è causa reale di difficoltà orga­niche o caratteriali, i genitori adottivi dovranno accettarle in spirito di Carità.

Infine, accogliendo un bambino in seno alla loro famiglia, i genitori si impongono lo stretto dovere di rivelargli la sua adozione. Ogni essere umano infatti ha il diritto di conoscere la sua identità reale, la sua situazione nel mondo in cui vive. Si tratta qui di un diritto primordiale.

La Carità dei genitori adottivi deve anche eser­citarsi verso la madre naturale del loro bam­bino. La Carità non dà loro il diritto di giudicare questa donna. Noli iudicare si non vis errare, diceva sant'Agostino, «Non giudicare, se non vuoi sbagliare».

La psicologia del profondo ci ha insegnato og­gi ad essere più reticenti che mai quando si trat­ta di giudicare il nostro prossimo. Dio sa per quale ragione quella donna si è separata da suo figlio! Se non l'ha tenuto con sé, ha avuto al­ meno il merito di portarlo per nove mesi, di pre­servarlo da ogni male e di nutrirlo. Dio sa anche con quale strazio talora una madre si è separata da suo figlio e quale ricordo lancinante ne con­serverà forse per tutta la vita, quale desiderio di rivederlo la perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni!

Una prima forma di Carità verso la madre na­turale sarà di pregare per lei e di far pregare il bambino (con discrezione, finché è piccolo).

La Carità ci richiede di anteporre il bene del prossimo al nostro bene personale, a meno che non si tratti della salvezza della nostra anima, poiché siamo responsabili della nostra anima prima di qualunque altra.

Questo dovere si applica in particolare agli eventuali genitori adottivi. Essi non potrebbero decidersi all'adozione per ricavarne un vantaggio qualunque, di ordine materiale o affettivo.

Una volta realizzata l'adozione, dovranno cer­care in tutto il bene del bambino.

Questa regola d'oro dell'adozione - il bene del bambino - dovrà essere la loro regola per tutta la loro vita di genitori. Sarà la loro salva­guardia e la condizione del progresso della loro Carità.

Allevare un bambino secondo la volontà di Dio, significa elevare se stessi. Questa stessa regola suggerirà inoltre ai genitori adottivi di non li­mitarsi a un solo bambino, ma di accoglierne, se è possibile, parecchi nella loro famiglia. Questa regola li inciterà anche, se si sentono umanamente abbastanza forti, con la grazia di Dio, ad accogliere dei bambini handicappati, che avrebbero minori possibilità di essere adottati.

 

IL MISTERO DELL'ADOZIONE DIVINA E LA SPIRITUALITA' CRISTIANA

 

San Paolo, che ha parlato sovente della famiglia, non ha trattato dell'adozione. Egli ha defi­nito più di una volta i rapporti fra gli sposi, le relazioni fra genitori e figli, ma senza fare allu­sione all'adozione.

Egli tuttavia la conosceva, poiché gli è servita per uno dei suoi più bei paragoni concernenti la vita soprannaturale. «La vita soprannaturale, la grazia non ci è dovuta. Essa è privilegio di Dio, la vita intima della Trinità beata. Questa vita esi­steva in pienezza nel Cristo e dalla sua pienezza, noi abbiamo ricevuto» (Giov. 1, 16).

Ciò di cui si è parlato fin qui in termini astrat­ti, «il mistero nascosto alle generazioni», è l'a­micizia con Dio, l'introduzione degli uomini nella famiglia divina, la loro adozione da parte di Dio. Dio avrebbe potuto limitarsi a fare di noi delle creature intelligenti, capaci di entrare in rela­zione con lui - sarebbe già stato molto bello - ma ha voluto di più. Non si è limitato ad essere il Creatore, il Maestro, il Giudice: ha voluto essere per noi un Padre. Solo il Cristo è per natura Figlio di Dio, ma il Padre ha voluto farci partecipare alla sua figliazione, ci ha realmente adottati, introdotti nella sua famiglia. Ci vede realmente, nel mistero del Cristo, come suoi figli.

«La dottrina della figliazione adottiva, nel suo aspetto giuridico, scrive un teologo, si incontra per la prima volta nella teologia paolina.

Essa ebbe una sorte diseguale nel corso dei secoli. Accolta con fervore dai primi cristiani, Ireneo, Atanasio, Giovanni Crisostomo, Cirillo d'Alessandria, Agostino, Girolamo e molti altri, passò insensibilmente in secondo piano...

La definizione giuridica dell'adozione sembra­va tuttavia difficile da trasporre nell'ordine so­prannaturale, poiché l'adozione richiede di non aver ricevuto l'essere da colui che adotta. La difficoltà risulta dal fatto che la sola nascita conferisce già il diritto all'eredità. Ma la crea­zione ci fa partecipare solo imperfettamente all'essere di Dio. Questa partecipazione imperfet­ta fonda il diritto ai beni di sussistenza naturale, non alla beatitudine divina. La partecipazione alla ricchezza propria di Dio è dovuta a benevo­lenza gratuita. Questa benevolenza, questa gra­tuità fonda la figliazione adottiva.

Il diritto, di per sé, è solo una realtà estrinse­ca, ma nell'ordine naturale, ha un fondamento reale nella natura delle cose, e, nell'ordine so­prannaturale, in una grazia reale che deriva dal­la volontà liberale del benefattore» (6)

Lo stesso autore aggiunge poco dopo: «A dif­ferenza dell'adozione umana, di ordine puramen­te giuridico, si afferma così, nella figliazione soprannaturale, un aspetto fisico, secondo il quale potremmo parlare di una nascita spiri­tuale...

La partecipazione per grazia alla natura divina si presenta così sotto il suo vero aspetto. Più dinamico che statico. Le immagini e i paragoni improntati alle realtà inerti... non sono che lon­tane similitudini...

In questo senso, potremmo parlare di parteci­pazione di natura, di generazione spirituale, di figliazione di grazia...» (7).

Ogni cristiano è quindi figlio adottivo di Dio. Non si tratta qui, è chiaro, di una pia considera­zione, ma di un mistero essenziale del Cristia­nesimo. Lo spirito cristiano è uno spirito di ado­zione, con tutto ciò che questa idea racchiude.

L'uomo non aveva diritto all'amicizia di Dio: essa gli è stata concessa per un favore, per una libera volontà di Dio. Per natura, eravamo destinati a rimanere a una distanza infinita da Dio, la distanza di una creatura dal suo Creatore. Ma noi che eravamo lontani, siamo diventati prossimi di Dio, nel Cristo: siamo stati chiamati a divenire figli e eredi di Dio, coeredi del Cristo. Questa realtà, che fonda la nostra vita sopran­naturale, impone tutta una spiritualità a base di confidenza, di gioia, di lode, di riconoscenza, ma anche di umiltà, di povertà spirituale, di rinunzia.

 

L'ADOZIONE DIVINA NEL MISTERO DELLA TRINITA'

 

Il Dio che ci ha adottati si è rivelato a noi come Trinità: Padre, Figlio, Spirito Santo.

La natura divina è unica e le tre Persone vi partecipano al medesimo titolo, ma tra loro esi­stono delle relazioni d'amore che le personaliz­zano. Il Padre genera il Figlio da tutta l'eternità, il Figlio glorifica il Padre, lo Spirito Santo perso­nifica l'amore del Padre e del Figlio.

Per ciò che ci concerne tuttavia, ogni azione di Dio in nostro favore deriva dalla Trinità. tutta intera, che si tratti della Creazione, dell'Incarna­zione, della Redenzione delle nostre anime, del­la nostra santificazione terrena e della nostra glorificazione nel cielo. Se il Figlio solo si è in­carnato, tutte le manifestazioni divine nei nostri riguardi sono l'azione della Trinità, ivi compresa l'incarnazione. Solo per «appropriazione» un ef­fetto sarà «attribuito» in particolare a una Per­sona divina, la creazione al Padre, la redenzione al Figlio, la santificazione delle nostre anime allo Spirito Santo. In realtà, la Trinità tutta intera ci ha creati e redenti, e ad essa ancora bisogna «attribuire» la nostra santificazione.

Lo stesso si verifica per l'adozione divina, che è veramente l'azione delle tre Persone. Come di­ce san Tommaso d'Aquino, noi siamo, per grazia, «i figli della Trinità».

Tuttavia, l'adozione può essere «attribuita» in modo particolare al Padre, perché egli è il principio primo della Trinità: da lui infatti pro­cede ogni paternità in cielo e sulla terra. Ma l'adozione può essere anche «attribuita» alle due altre Persone divine; al Figlio, che ci fa par­tecipare alla grazia della sua figliazione divina e allo Spirito Santo, che ci infonde lo spirito di adozione.

Se il fatto dell'adozione si riferisce principal­mente al Padre, e se non può concepirsi senza una relazione alla figliazione naturale del Cristo, vi sarebbe tuttavia una ragione speciale per «at­tribuirla» allo Spirito Santo. L'adozione filiale infatti non risponde solo a un desiderio del no­stro cuore, non è una creazione della nostra immaginazione, ma una realtà della nostra vita spirituale e noi ne abbiamo una prova: lo Spirito Santo che ci è stato donato. E' lo Spirito Santo stesso, presente e agente nella nostra anima, che ci infonde lo spirito filiale, che ci fa chia­mare Dio «Padre» e ci rende questa testimo­nianza interiore che noi siamo veramente Figli di Dio. «Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito Santo, questi sono Figli di Dio» (Rom. 8, 14).

Riconsideriamo in questa prospettiva il miste­ro della nostra adozione divina.

«La vita che il Cristo ci comunica, scrive Pa­dre Huby, è la sua vita di Figlio di Dio, diventato con l'incarnazione il primogenito di numerosi fratelli. Se egli porta questo titolo di “primoge­nito” dell'umanità nuova rigenerata dalla grazia, è precisamente perchè, possedendo in proprio la figliazione divina, ce la comunica, fa di noi dei Figli di Dio.

Per noi, questa figliazione è un'adozione, nel senso che essa é pura grazia, non avendo l'uomo per natura alcun diritto a entrare nella figlia­zione divina, ma questa adozione non è sempli­cemente giuridica come l'adozione umana che conferisce dei diritti legali al nome, all'eredità, senza che vi sia una trasformazione vitale del soggetto adottato: l'adozione divina mette in noi una realtà profonda, una vita nuova.

Essendo questa vita una vita di figlio l'atteg­giamento fondamentale del cristiano nei suoi rapporti con Dio sarà un atteggiamento filiale... Nel Figlio, identificati in qualche modo con lui, noi possiamo rivolgerci a Dio come a nostro Padre, abbiamo accesso presso di Lui in tutta fiducia e entriamo in relazione con lo Spirito Santo...

Benché san Paolo non faccia menzione della formula del battesimo “in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, si vede tuttavia che nella sua dottrina l'iniziazione battesimale ha per effetto di stabilire dei rapporti speciali tra il battezzato e ciascuna delle persone divine: “rapporto di figliazione riguardo al Padre, rappor­to di consacrazione rispetto allo Spirito Santo, rapporto di identità mistica con Gesù Cristo”. Lo schema trinitario secondo il quale si ordina la preparazione e la realizzazione del piano del­la salvezza, questo disegno del Padre, realiz­zato dal Cristo, suggellato e ratificato dallo Spi­rito, si ritrova a presiedere alla vita individuale del cristiano, dopo il battesimo fino alla sua con­sumazione nell'eternità, dove Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, sarà “tutto in tutti”» (8).

A questo brano di Padre Huby, vorremmo ag­giungere un rilievo. I genitori adottivi d'oggi, co­loro che adottano dei bambini piccoli e seguono amorosamente la loro crescita attraverso le ma­lattie dell'infanzia e le preoccupazioni della loro educazione, sono spesso offesi nel veder consi­derare continuamente l'adozione su un piano giuridico. Le definizioni che si danno loro dell'adozione «una semplice formalità giuridica», «una finzione legale», «un atto puramente este­riore»... sembrano loro talmente lontane dalla realtà che essi vivono tutti i giorni!

Per loro, adottare un bambino, non è prenderlo in cura giuridica, è associarlo alla loro vita, far­lo entrare nella loro famiglia.

Per dare all'adozione divina tutto il suo valore, non è necessario sminuire l'adozione umana, collocandola unicamente sul piano giuridico. Se l'adozione non comportasse elementi giuridici, continuerebbe ad essere praticata perchè è anzi­tutto «un'opera di vita» e anche un'opera di educazione. Così pure, se «il legame del san­gue» non esistesse fra genitori e figli nella maggior parte delle famiglie, si misconoscereb­be l'opera educativa dei genitori se si vedessero solo relazioni giuridiche fra loro e i loro figli.

Vedendo nell'adozione umana e nell'adozione divina ciò che le avvicina piuttosto di ciò che le distingue, consideriamo ora dunque l'elemento essenziale: «l'ingresso in una famiglia», con tutti i legami viventi e gli scambi vitali che vi possono costituire delle relazioni fra esseri spi­rituali, capaci di amore reciproco.

Il Padre Terrien non è sfuggito a questa limi­tazione dell'idea di adozione. Egli è tuttavia il teologo moderno che più ha sviluppato l'idea dell'adozione nella sua opera molto conosciuta: La grazia e la gloria ossia la figliazione adottiva dei Figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, nel suo perfezionamento e nel corona­mento finale.

Senza dubbio, un teologo ha ragione di insiste­re sulla distinzione fra il mondo umano e il mon­do divino, essendo l'uno quello dell'imperfezione, l'altro quello della perfezione. Non gli si rimpro­vererà mai di mostrare come il mondo sopran­naturale, quello di Dio, trascende il mondo natu­rale, quello dell'uomo.

E' suo preciso diritto di farci vedere come l'adozione divina sorpassa l'adozione umana, come fa Padre Terrien nel suo capitolo III (vo­lume I), intitolato: Multipla preminenza dell'ado­zione divina sulle adozioni umane. Questo buon teologo vi spiega, in quattro punti, che l'adozio­ne divina è più «spontanea», più «fruttuosa» delle adozioni umane e che le supera pure in «efficacia» e in «singolarità». Ma, per esalta­re l'adozione divina, è necessario sminuire l'a­dozione umana come egli fa nel brano seguente dove vuole provare «l'efficacia» dell'adozione divina?

«Infatti, egli scrive, l'uomo che adotta il suo simile non comunica nulla d'intrinseco al figlio che fa suo, né la sua natura, poiché questo fi­glio è uomo come lui; né le qualità che possono determinare la sua scelta, poiché questa scelta le suppone ed esse la motivano. Impotente a dargli una salute più fiorente, un sangue più ge­neroso e più puro, uno spirito più vivo, non gli dà altro, col suo amore, che un nome e dei di­ritti: il nome di figlio, i diritti di erede» (9).

Vi sarebbe molto da dire su questa concezione dell'adozione umana. E' esatto che questa non modifica «la natura» del bambino adottato, ma si potrà rivelare anzitutto che essa ha dei felici effetti sulla sua salute, sul suo sviluppo fisico e intellettuale, sul suo carattere... Basterebbe, per provarlo, paragonare fra loro bambini allevati in nidi e orfanotrofi e bambini a cui l'adozione ha permesso di vivere una vita familiare in una fa­miglia adottiva.

Ma la psicologia moderna ci fa vedere le cose più profondamente. E' ancora esatto affermare oggi che l'adozione non apporta nulla di intrin­seco al bambino? Si comprende meglio nella no­stra epoca che l'uomo è essenzialmente un es­sere relazionale. Le relazioni che un bambino intrattiene col suo ambiente, la sua situazione privilegiata tra suo padre e sua madre, gli per­mettono di strutturare la sua personalità, di di­ventare veramente se stesso.

Il Padre Terrien parla opportunamente dell'a­more dei genitori adottivi per il loro figlio, ma l'amore è propriamente una realtà giuridica? L'amore piuttosto ci fa uscire dal piano giuridi­co, nell'adozione umana come nell'adozione di­vina. Oggi si conosce quanto l'amore reciproco fra gli sposi condizioni e indirizzi rettamente il loro amore per il figlio e quanto l'amore sia ne­cessario all'equilibrio psichico del figlio stesso.

Anche nei riguardi dell'adozione divina, biso­gna riferirsi all'amore, «Dio è amore», ci dice san Giovanni, e da questo amore noi siamo nati. Credere all'amore di Dio è forse la cosa più dif­ficile per l'uomo del nostro tempo. Tuttavia è proprio questo che caratterizza il cristiano au­tentico: «Noi abbiamo creduto all'amore di Dio per noi», dice ancora san Giovanni (1 Giov. 4, 16). Senza amore non vi sarebbe Trinità, e nep­pure vera adozione da parte di Dio. E' l'amore che ci fa figli di Dio, che ci introduce nella Fa­miglia divina, perchè siamo stati «eletti secondo il disegno del Padre, nella santificazione dello Spirito, per obbedire al Cristo» (1 Piet. 1, 2).

 

LA FIGLIAZIONE DIVINA SECONDO SAN GIO­VANNI

 

San Paolo è stato il solo fra gli scrittori del Nuovo Testamento a utilizzare il paragone dell'a­dozione per esprimere la vita soprannaturale. Vi è di più: egli è il solo a impiegare (5 volte) il termine di adozione (úiozesía) che non si trova in nessun scritto del Nuovo Testamento né nella traduzione del Settanta. San Giovanni, che ha meditato molto il mistero della nostra divinizzazione, non parla dunque di adozione. Ne avrebbe parlato se l'avesse conosciuta? Non ne sappiamo nulla. Tuttavia proprio san Giovanni impiega un'espressione più ardita. Fin dal pro­logo del suo Vangelo, ci parla d'una nuova na­scita, d'una ri-nascita, nel senso in cui il Cristo diceva a Nicodemo: «Dovete nascere di nuovo» (Giov. 3, 7).

Per i due apostoli, il battesimo ci conferisce la figliazione divina, ma concepiscono questa iniziazione cristiana in una prospettiva diversa.

Agli occhi di san Paolo, il battesimo ci incor­pora al Cristo, unendoci nello stesso tempo alla sua morte che cancella i nostri peccati e alla sua risurrezione che ci introduce in una nuova vita.

Per san Giovanni, senza che vi sia qui un'op­posizione fondamentale fra i due apostoli, il bat­tesimo realizza in noi una nuova nascita, una ri-nascita, una ri-generazione (10). La grazia è una realtà che passa da Dio a noi, per l'interme­diario del Cristo, solo Mediatore. La divinizza­zione dell'uomo, la sua partecipazione alla vita intima di Dio, è dunque, in tutta verità, più che un'adozione. Diciamo che essa si situa fra l'ado­zione e la generazione naturale, come termini di paragone. Noi siamo nello stesso tempo adot­tati e, in un certo modo, generati di nuovo da Dio.

Il primo teologo che abbiamo citato precisa così questa nuova nascita del cristiano. «La grazia, dandoci una dipendenza nell'essere secondo una similitudine di natura, realizza la definizione stretta della figliazione. E' figlio: l'uomo che si riferisce a un altro come chi ha ricevuto da lui l'essere nella stessa natura spe­cifica. San Tomaso, da buona aristotelico, parte da questa nozione filosofica della figliazione nell'ordine naturale per trattare della nostra figlia­zione secondo la grazia... Noi non siamo sola­mente, per grazia, un'immagine un po' più per­fetta di Dio di quanto non lo fossimo per crea­zione. Non siamo più « immagini u di Dio, ma suoi “figli”; non causati a sua somiglianza, ma « nati » da lui secondo la partecipazione alla sua natura» (11).

Una spiritualità che ha tali referenze nel Van­gelo, non poteva mancare di attirare le anime e non ha-finito di esercitare su di esse la sua at­trattiva.

 

L'INFANZIA SPIRITUALE

 

Invitandoci a farci un'anima di fanciullo, il Cristo stesso ha stabilito la base di nuovi rap­porti tra l'uomo e Dio, ciò che è stato chiamato nella nostra epoca l'infanzia spirituale.

Non possiamo rileggere senza sentirci coin­volti, queste parole del Cristo: «Se non vi con­vertirete e non diventerete come fanciulli, non entrerete nel regno dei Cieli» (Mat. 18, 3). E ancora: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà» (Mc. 10, 15).

Una santa moderna, santa Teresa di Gesù Bambino, ha ricordato nel nostro tempo questa lezione dell'infanzia spirituale e, poiché si cerca oggi di dare ai cristiani una fede adulta, gli au­tori hanno fatto le precisazioni necessarie. Non può trattarsi qui di un «ritorno all'infanzia», nel senso in cui l'intendeva Péguy. Senza dubbio il cristiano è invitato, come ogni uomo, a conser­vare la freschezza d'animo dell'infanzia, ma si tratta qui di fondare la sua vita spirituale sulle virtù evangeliche: povertà, distacco, gioia, fidu­cia, abbandono. E non di più: non può trattarsi di un infantilismo spirituale, indegno di un cri­stiano adulto nella sua fede.

Santa Teresa di Gesù Bambino ha insistito nel suo messaggio sulle disposizioni d'animo necessarie alla «via d'infanzia». Toccherà forse al nostro tempo approfondire anche il contenuto di questa dottrina, la realtà profonda della no­stra adozione divina.

Quali sarebbero i tratti dominanti di una tale spiritualità, gli atteggiamenti spirituali che ri­chiede da noi? Mi sembra di poterli enumerare come segue:

- Credere all'amore del nostro Padre dei cieli, malgrado le prove della vita o le apparenze con­trarie.

- In opposizione all'autosufficienza del mondo moderno, praticare la semplicità e l'umiltà del fanciullo, pur accettando le proprie responsabi­lità di adulto.

- Conservare fiducia nel nostro Padre dei cieli e contare sulla sua Provvidenza (senza cadere tuttavia nel fatalismo o nel «provvidenziali­smo»). «Vostro Padre del cielo sa ciò di cui avete bisogno» (Mat. 6, 32).

- Manifestare a tutti l'amore del Padre per i suoi figli, esercitando una Carità fraterna auten­tica e universale. «...affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt. 5, 45).

- Imitare il nostro Padre dei cieli, come il bam­bino imita suo padre. «Siate dunque imitatori di Dio, come figli carissimi». (Ef. 5, 1).

- Prendere il Cristo come modello. Egli è il nostro fratello primogenito, «il figlio dilettissi­mo in cui il Padre ha posto le sue compiacenze» (Mt. 3, 17). Ha detto lui stesso: «Io sono la via e la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mio mezzo» (Giov. 14, 6).

- Conservare in cuore la riconoscenza e la gioia. «E nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Giov. 16, 22).

 

L'ADOZIONE PIENA

 

La vita dell'uomo sulla terra deve essere una crescita continua. Anzitutto crescita fisica, quella del nostro corpo che aumenta fino ad una certa statura. Sviluppo della nostra intelligenza per mezzo dello studio e della riflessione. Svi­luppo della nostra volontà per mezzo della disci­plina personale. Affinamento della nostra sensi­bilità.

Ma anche la nostra vita spirituale, la vita del­la nostra anima deve svilupparsi. Ciò è possibile solo per mezzo di un più grande amore, amore di Dio e amore degli uomini. Questo amore di Dio, ora noi lo sappiamo, non è un amore astrat­to: comporta una caratteristica molto Particola­re, l'amore filiale del Figlio di Dio per il suo Pa­dre dei cieli. Questo amore deve aumentare, non in qualunque modo, ma nella sua direzione esat­ta. Come un figlio può sentirsi sempre di più figlio dei suoi genitori, pur emancipandosi dalla loro tutela, così il Figlio di Dio, a mano a mano che avanza nella vita, deve acquisire una co­scienza sempre più profonda della sua figliazio­ne divina, della sua vocazione di Figlio di Dio. L'uomo adulto non può certamente uscire dall'orbita di Dio -- sempre resterà la sua creatura.

Ma, se non può ottenere un'emancipazione totale nella sua vita spirituale, deve tuttavia di­ventare sempre più adulto nella sua vita e nella sua Fede, pur conservando un atteggiamento sempre più filiale verso il suo Padre dei cieli. Co­sì il figlio che supera lo stadio dell'infanzia e quello dell'adolescenza, non vede diminuire per questo né il suo amore né la sua riconoscenza verso i suoi genitori.

La crescita nell'amore presuppone la crescita nella conoscenza. Più si conosce, più si ama, e più si ama, più si desidera conoscere. La Fede ci fa entrare nella conoscenza intima del Padre e ci conduce ad amarlo. Ma l'amore di Dio, la Carità, ravviva pure in noi il desiderio di cono­scerlo di più.

Quaggiù tuttavia, non possiamo conoscere Dio in pienezza, né amarlo quanto è amabile. Anche la Speranza ci è stata data per sottendere que­sto desiderio di Dio. Troppi cristiani infatti limi­tano le loro ambizioni alla vita terrena e la loro Speranza è sovente nata morta. Aspettano da Dio le grazie che li aiutino nelle loro difficoltà. Non aspettano Dio, non lo desiderano.

Il Dio dei cristiani, noi lo sappiamo, non è il Dio astratto dei filosofi, ma il Dio-Trinità, quale si è rivelato a noi, il Dio-Padre.

«Ormai noi siamo Figli di Dio, ci dice san Giovanni, ma ciò che noi saremo non è ancora stato manifestato. Noi sappiamo che, al momento di questa manifestazione, saremo simili a lui per­ché allora lo vedremo tale quale è» (1 Giov. 3, 2).

San Giovanni ci parla dell'altra vita. Ma già quaggiù, portiamo in noi una certa somiglianza col nostro Padre, ma solo in cielo questa somi­glianza sarà manifesta, quando vedremo Dio tale quale è. La nostra vita di adozione è comin­ciata, e raggiungerà la sua pienezza solo nei cieli.

«Lo Spirito stesso, ci dice san Paolo, rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio: se figli, dunque, anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, poiché soffriamo con lui per essere anche glorificati con lui» (Rom. 8, 17).

Il Cristo ci ha meritato la nostra eredità, ma noi dobbiamo guadagnarla a nostra volta, pur partecipando ai nostri meriti. Se il Cristo ha sofferto, passeremo anche noi per la sofferenza, ma con ciò non pagheremo troppo caro il prezzo della nostra eredità.

«Io valuto infatti, continua san Paolo, che le sofferenze del tempo presente non sono commi­surabili alla futura gloria che si manifesterà in noi. L'ansiosa attesa del creato, infatti, anela alla manifestazione dei Figli di Dio. Poiché il creato fu sottoposto alla vanità,... ma con la spe­ranza che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per giungere alla li­bertà della gloria dei Figli di Dio. Noi sappiamo infatti che, fino ad ora, tutta la creazione geme e soffre per le doglie del parto. E non essa sol­tanto, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo nel nostro intimo aspet­tando l'adozione a Figli di Dio, il riscatto del no­stro corpo» (Rom. 8, 18-23).

Malgrado questa attesa interiore, abbiamo già il sentimento di essere risuscitati nella speran­za, poiché il Cristo nostro Fratello primogenito, ci ha preceduto presso il Padre. L'ansia che ci possiede interiormente è simile a quella di figli che, non avendo mai visto il loro Padre, vanno a incontrarlo per la prima volta. Figli di Dio, noi lo siamo già, ma solo in cielo noi percepiremo la pienezza di questa adozione.

 

EREDI DI DIO

 

Dove vi è vera adozione, vi è divisione dei beni e quindi eredità. San Paolo stesso ha uti­lizzato questo elemento di paragone, parlando della nostra vita soprannaturale. «Se siamo Figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo» (Rom. 8, 17). Ma si direbbe che i teo­logi, che hanno scritto finora dell'adozione in riferimento alla vita divina, sono stati ossessio­nati dalla questione dell'eredità! Uno dei mi­gliori, il Padre Froget, giunge fino a scrivere: «Questo diritto all'eredità paterna è ciò che vi è di più essenziale nell'adozione: ne costituisce lo scopo e il fine...».

A scusante di questi teologi, diciamo che alla loro epoca molte adozioni avevano luogo per trasmettere i1 patrimonio, quelle che noi chia­miamo oggi «adozioni fiscali». A quei tempi, non si trattava di adozioni di bambini come oggi. Si adottava un adulto o un semi-adulto, per evi­tare onerosi diritti di successione, non a se stes­si, ma ai propri eredi. Il disinteresse non va più lontano! Ma si agiva così, sembra, sia per «dise­redare» lo Stato sia per favorire un estraneo. Come si vede, il fisco ha sempre avuto dei ne­mici. «Piuttosto dare la mia fortuna a un estra­neo, si pensava, che farne dono allo Stato!» Se i teologi insistono tanto sulla questione dell'ere­dità, lo fanno per uno scopo disinteressato, bi­sogna riconoscerlo: per introdurre l'argomento della «eredità celeste»! Sgombriamo quindi il nostro spirito dalle idee di eredità terrene e di frodi fiscali. Si tratta qui di ben altro.

Avendoci creati, Dio deve concederci i beni materiali che possono servire alla nostra sussi­stenza e li distribuisce in modo uguale (o disu­guale) «ai buoni e ai cattivi», come dice il Van­gelo. Non si tratta qui, propriamente parlando, di un'eredità. Se ci riferiamo a un'eredità conse­guente alla nostra adozione divina, allora si trat­ta solo di beni spirituali, i quali, lo diciamo di passaggio, possono distribuirsi senza diminuire. Se io divido la mia scienza con qualcuno, l'arric­chisco senza impoverirmi.

Di quali beni si tratta? Dei soli beni che con­tano o piuttosto del Bene che li riassume tutti, Dio stesso. Chi si limita ai beni terreni e li vo­lesse possedere tutti, sarebbe sopraffatto dalla loro moltitudine e dalla loro diversità: vi perderà la sua anima. Piuttosto che inseguirli senza fine, non sarebbe più saggio voltare le spalle ad ogni cosa per trovare tutto in Dio? Le persone e le cose a cui teniamo tanto, un giorno ci sfuggi­ranno di mano, ma se possediamo Dio, possede­remo tutto, poiché tutto gli appartiene.

Possedere Dio! Ci pensiamo noi? Possederlo come si può «possedere» un essere spirituale, con la conoscenza e con l'amore? Ma, se Dio è Dio, egli è il Bene infinito, il Bene che riassume ogni bene. Tutto ciò che vi è di bello e di buono sulla terra ci viene da Dio e deve quindi ritro­varsi in lui.

Talora noi discutiamo per sapere ciò che sarà il cielo. Il cielo sarà Dio; possedere Dio e, in lui, possedere tutto il resto, ritrovare in Dio tutto ciò che abbiamo amato sulla terra, perso­ne e cose. «Questa sarà la nostra ricompensa, diceva san Bernardo, vedere Dio, essere con Dio, vivere di Dio». Quando noi ci preoccupiamo di ciò che «faremo» in cielo, noi, gli eterni agi­tati, che cosa bisogna rispondere? Ciò che san­t'Agostino ci dice, riassumendo la felicità del cielo: «Vedremo e ameremo, ameremo e lode­remo». Videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus. Ciò che abbiamo potuto trovare nell'amore umano nel tempo felice della nostra vi­ta, lo troveremo in Dio e, poiché si tratta di un essere infinito, non ce ne stancheremo mai, avendo sempre da scoprire. Noi stentiamo ad immaginarlo, ma propriamente, in questo caso, si tratta di relazioni fra esseri spirituali e la no­stra immaginazione non può essere di alcun aiuto. «L'occhio dell'uomo non ha visto, il suo orecchio non ha sentito, il suo cuore non può immaginare la felicità che Dio riserva a quelli che lo amano» (1 Cor. 2, 9).

Questa felicità del cielo, noi la divideremo col Cristo, o piuttosto egli la dividerà con noi, poiché egli ne è il legatario universale, l'erede principale. Ogni potere gli è stato dato in cielo e sulla terra, ma alla fine dei tempi, egli rimet­terà questo potere a suo Padre. Noi lo vedremo apparire allora in tutto lo splendore della sua gloria, come egli ha annunciato, e giudicherà, allora, i vivi e i morti. «Venite, o benedetti del Padre mio, egli dirà, possedete il Regno prepa­rato per voi dalla fondazione del mondo» (Mat. 25, 34). Fratello primogenito, egli dividerà il suo Regno coi suoi fratelli adottivi. Il Cristo ricom­penserà con un'eternità felice gli atti di carità che gli eletti avranno compiuto sulla terra: «Perchè ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete, e mi avete dato da bere; sono stato forestiero, e mi avete ospi­tato...». Non possiamo credere che vi sarà in quel momento una benedizione speciale per i genitori adottivi che, da parte loro, cercarono di fare durante la loro vita la volontà di Dio e non cercarono la loro soddisfazione personale, ma il bene dei loro figli? Poiché ciò che altri hanno fatto, in occasione di una miseria momen­tanea, essi, genitori adottivi, come veri genitori, l'hanno fatto impegnando tutto il loro destino al seguito di quello dei loro figli. Noi li conoscia­mo abbastanza per sapere che non cercano ri­compensa né in questa vita né nell'altra. Essi sappiano almeno, nei loro momenti difficili, qua­le sarà l'ultima parola del Cristo: «In verità vi dico: ogni volta che l'avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avete fatto a me» (Mat. 25, 40).

 

LA MATERNITA' ADOTTIVA DELLA MADONNA

 

Rimane infine da considerare un secondo aspetto del piano di adozione di Dio.

Sulla croce, nel momento di ritornare al Pa­dre, il Cristo, in virtù della sua missione, ci af­fidò alla Madonna in modo particolarissimo. «Donna, ecco tuo figlio», gli disse mostrando san Giovanni. E a san Giovanni, che rappresen­tava noi ai piedi della croce, come ha compreso la tradizione cristiana: «Figlio, ecco tua madre» (Giov. 19, 26-27). Si può dire che in quel mo­mento la Madonna ci adottò realmente e che san Giovanni, a nome nostro, scelse la Madonna per madre.

Sarebbe infatti restringere senza ragione la portata di questo testo vedervi soltanto un at­to di ospitalità.

«In maniera generale, scrive il Padre Lucien Deiss, l'esegesi antica (la più favorevole a Ma­ria) vi vedeva un atto di pietà filiale: prima di morire, Gesù affidò sua Madre al discepolo che egli amava: quest'ultimo avrebbe vegliato su di lei come un figlio farebbe per sua madre: la sua presenza accanto a lei avrebbe addolcito la solitudine provocata dalla morte di suo Fi­glio.

Questa interpretazione è perfettamente accet­tabile in ciò che ha di affermativo. Giovanni no­ta d'altronde: “E da quell'ora il discepolo la prese con sé”. L'interpretazione sarebbe tutta­via incompleta, noi pensiamo, se volesse esse­re esclusiva di ogni altra interpretazione, mini­mizzando la portata delle parole del Cristo» (12)

Senza dubbio, vi è una distanza infinita fra l'adozione decisa dal Padre da tutta l'eternità e quella che, in nome di lui, il Cristo realizzò nel momento della sua morte affidandoci alla Madonna. Tuttavia, queste due adozioni si si­tuano, entrambe, nell'ordine della grazia, mentre la seconda è una conseguenza della prima e non ha senso che per mezzo suo. La maternità adottiva della Madonna da parte sua, è un'esten­sione della sua maternità naturale, ma non è meno reale in quanto alla causa. In tutta verità noi possiamo dirci figli adottivi della Madonna.

Per corretta esegesi, non bisognerebbe tutta­via dedurre la maternità spirituale della Ma­donna dal solo testo di san Giovanni che ab­biamo ora citato: Maria è realmente nostra Ma­dre, non perché Giovanni l'accoglie per Madre ai piedi della croce, ma semplicemente perchè è la Madonna di Gesù, in cui tutti i fedeli si ri­trovano e formano un'unità: «Le parole del Cri­sto, lungi dal creare la maternità di grazia, ac­quistano il loro significato solo se la suppongo­no» (Th. Koehler) (13).

Bisognerebbe, tuttavia, rifiutare alla Madonna il titolo di Madre adottiva? Tutto dipende dalla concezione dell'adozione che si accetta. Se la si concepisce solo sul piano giuridico, è certis­simo che in questo caso non si attribuisce ab­bastanza alla Madonna. Ma, quando si tratta dell'adozione di esseri umani; non si tratta sempre di una relazione spirituale tra due esseri e non abbiamo allora il diritto di parlare di una mater­nità adottiva come di una maternità spirituale? «Rappresentando la Madre di Gesù come Madre del discepolo, scrive Padre Braun, l'evangelista attribuisce a Maria una maternità seconda (let­teralmente, in soprappiù) nei riguardi dei fede­li...» (14).

Questa «maternità seconda», come quella di una madre che abbia già un figlio e che ne ac­colga altri in maniera definitiva nella sua casa, non è forse una maternità adottiva?

A ben considerarla, la maternità seconda del­la Madonna è conforme al piano di Dio concer­nente l'umanità. Dalle origini, creandoci «a sua immagine», Dio ci volle «uomo e donna» e volle che ciascun sesso avesse l'incarico, per una diversa vocazione, di raffigurare un aspetto particolare dell'essere di Dio. In ragione di que­sta vocazione particolare di ciascun sesso, l'uno e l'altra furono rappresentati all'inizio dell'uma­nità da Adamo e Eva, padre e madre dei vi­venti.

Il peccato originale ha causato la destituzio­ne dei nostri progenitori, ma il piano di Dio è stato restaurato in un modo più spirituale. Di­ventando uomo, il Cristo divenne necessaria­mente il primo degli uomini, il nuovo Adamo, «il padre del secolo futuro», Pater futuri sae­culi. La Madonna che, grazie alla sua maternità divina, fu associata alla sua opera di redenzio­ne più di qualunque altra donna, prese il posto di Eva, «la madre dei viventi»: ella diventò la nuova Eva. I più antichi Padri della Chiesa, S. Giustino, S. Ireneo, Tertulliano, S. Agostino ave­vano già indicato in Maria la seconda Eva e, considerandola ai piedi del Calvario, san Giovanni ha voluto rivelare tutta l'ampiezza della sua maternità.

«... Non è bastato a Giovanni..., scrive Padre Braun, far entrare Maria nel piano della salvez­za semplicemente per aver dato alla luce il Sal­vatore. La presenza di Maria sul Calvario l'ave­va introdotta in un altro mistero. Egli non teme di far comprendere che nel momento in cui Ge­sù consumava il suo sacrificio la maternità di Maria aveva acquisito una nuova dimensione» (15).

La Madonna dunque è e rimane per l'eterni­tà, non solo Madre di Dio, Dei genitrix - il suo più bel titolo di gloria - ma anche Madre degli uomini. Per l'argomento che ci riguarda, noi pos­siamo dirci nello stesso tempo, benché in un si­gnificato diverso, figli adottivi di Dio e figli adot­tivi della Madonna. Il primo di questi titoli tra­scende infinitamente il secondo, pur ingloban­dolo; è più divino e assoluto nel suo ordine. Il secondo ci appare più umano, ma, per essere relativo al primo, non è meno reale.

Dal momento che certi cattolici tendono già a sostituire a Dio, nostro Padre, e al Cristo, no­stro solo Signore, l'immagine della Madonna o quella di un santo, noi non vorremmo soprava­lorizzare la Madonna - ella è grande solo in relazione al Cristo - ma conviene renderle, in ogni tempo, l'onore che le è dovuto e rallegrar­ci del legame che ci unisce a lei.

 

UNA SPIRITUALITA' DELL'ADOZIONE?

 

Come abbiamo visto più sopra, una spiri­tualità dell' infanzia si è diffusa nella Chiesa e il culto di Santa Teresa di Gesù Bambino le ha attirato il favore del popolo cristiano. Il rinno­vamento delle idee sull'adozione e la presenza di numerosi cristiani fra le famiglie adottive può sollevare un problema. Una spiritualità dell'ado­zione ha la stessa possibilità di diffondersi co­me quella dell'infanzia spirituale? Bisogna e­spanderla nella Chiesa?

Nella nostra epoca in cui si parla di spiritua­lità laica, religiosa o sacerdotale, coniugale o familiare, bisogna ricercare una spiritualità par­ticolare destinata ai genitori adottivi, che metta l'accento sulla nostra figliazione adottiva nel Cristo?

Esprimiamo anzitutto una riserva. Appena u­sciti da un'epoca di «devozioni particolari», temiamo sempre di vedere i cristiani ritornare a un qualunque particolarismo nella loro spiri­tualità, lontano dal Cristo totale e universale.

Comprendiamo tuttavia che una tale spiritua­lità suscita particolari risonanze nelle anime per le quali l'adozione umana non è solo una teoria, la soluzione di un problema sociale, ma un'esperienza vissuta, un'esperienza di tutti i giorni che li ha profondamente formati. Qui, dob­biamo dire, noi pensiamo, ai genitori adottanti, più che ai figli adottivi. Il mistero dell'adozione divina è d'altronde talmente essenziale al Cri­stianesimo che fa parte integrante di ogni spi­ritualità cristiana. Senza essere così ricco co­me quello dell'infanzia spirituale, esso lo com­pleta per certi aspetti propri.

Forse il fatto dell'adozione quale si realizza in modo massiccio nel mondo d'oggi aiuterà a reintrodurre il tema dell'adozione nella corren­te della spiritualità cristiana e inviterà i cri­stiani ad approfondirlo di più? In questo senso, noi saremmo favorevoli a questa idea di una spiritualità dell'adozione, non nel senso in cui si volesse creare una spiritualità particolare e quasi esclusiva, ad uso delle famiglie adottive.

Infatti, bisogna dirlo e ripeterlo, i genitori a­dottivi vogliono essere «dei genitori come gli altri» e, nella vita spirituale non meno che in materia d'educazione, non desideriamo formare una categoria a parte. Un particolarismo spiri­tuale ripugna loro quanto ogni altro particolari­smo, Se, fra i cristiani, è permesso loro di vi­vere il mistero dell'adozione divina con una co­scienza più viva, bisogna tuttavia distinguere, a questo proposito, la diversa situazione dei geni­tori adottanti e quella dei figli adottivi, come abbiamo lasciato intendere più sopra.

Sul piano umano, i figli sono nella migliore situazione per vivere questa spiritualità, essen­do stati essi stessi oggetto di adozione. I geni­tori, da parte loro, hanno rappresentato la parte di Dio (ont joué le rôle de Dieu) e sarà loro ri­chiesto, piuttosto, di mettersi nella situazione dei loro figli, di identificarsi a loro. Se essi con­siderano il loro ruolo dalla parte di Dio, potran­no allora cercare di imitare, il meno imperfetta­mente possibile, in tutta la loro condotta, la li­beralità e la magnificenza di Dio, Creatore e Padre.

H.M. OGER, O.P.

 

 

APPENDICE I

 

UNA CERIMONIA RELIGIOSA DI ADOZIONE

 

Esiste nella Chiesa greca una cerimonia reli­giosa di adozione.

La riproduciamo qui di seguito desumendola dal grande Eúcologlio del Padre Goar, O. P. - sive Rituale Graecorum... Opera R.P. Jacobi Goar, O.P., Editio secunda, Venetiis, M.D.CC.XXX, pp. 561-562.

Il figlio - o la figlia - che deve essere adottato rimane all'interno delle porte del santuario; e chi sta per adottare, all'esterno. Tutt'e due por­tano dei ceri accesi. Il sacerdote, rivestito della stola, li benedice recitando la preghiera seguen­te: Tre volte santo... Santissima Trinità... Padre nostro... Segue una breve preghiera al santo pa­trono della chiesa. Poi l'orazione seguente.

Preghiamo: Signore nostro Dio, grazie a vo­stro Figlio dilettissimo, Nostro Signore Gesù Cri­sto, voi ci chiamate vostri figli per adozione e per l'amore del vostro Spirito santo e onnipo­tente che ha detto: «Io sarò per lui un padre e egli sarà per me un figlio». Voi pure, miseri­cordioso Signore, riguardate dalla vostra santa dimora, questi servi che sono vostri; e coloro che la natura secondo la carne generò separati l'uno dall'altro, uniteli voi stesso come padre e come figlio per mezzo del vostro Spirito Santo. Rendeteli forti col vostro amore, uniteli con la vostra benedizione, assumeteli nella vostra glo­ria, fortificateli nella vostra fede, conservateli attraverso tutto, non permettendo che siano va­ne le parole che essi pronunciano. Siate l'inter­mediario delle loro promesse vicendevoli affin­ché mantengano fermamente, fino alla fine della loro vita, la promessa che fanno davanti a voi e le siano fedeli, vivendo nella vostra presenza, voi, loro Dio vivo e vero. Rendeteli degni dell'eredità del vostro regno poiché voi stesso sie­te degno di ogni gloria, di ogni onore, di ogni adorazione, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.

La pace sia con tutti voi. Chinate le vostre teste verso il Signore.

Signore, Signore, Signore, che avete creato tutto l'universo e che, nel primo uomo, Adamo, avete riunito tutta la sua discendenza secondo la carne, voi ci elevate nel Cristo Gesù, vostro Figlio dilettissimo e nostro Dio, alla partecipa­zione della vostra grazia, voi che conoscete tut­te le cose prima che siano. I vostri servi chi­nano le loro teste, domandando la vostra bene­dizione: con un legame indissolubile, essi si scelgono l'un l'altro come padre e come figlio. Da voi, di conseguenza, sperano il beneficio di un mutuo rispetto dimostrandosi degni dell'ado­zione che vi promettono, voi al quale sia la glo­ria, ora e sempre, in nome del Padre e del Fi­glio e dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

L'adozione ha luogo in questo momento, all'altare. Il figlio si inginocchia vicino al padre, il padre posa la mano sulla spalla di suo figlio dicendo: «A partire da oggi, tu sei mio figlio. Io ti ho generato oggi». Egli la rialza e si ab­bracciano. Il sacerdote li accomiata benedicen­doli e li istruisce sui loro doveri.

 

 

APPENDICE II

 

ALCUNE CITAZIONI PER UN APPROFONDIMENTO DELLA TEOLOGIA DELL'ADOZIONE

 

- E chi accoglie nel mio nome un fanciullo co­me questo, accoglie me (Mat. 18, 5).

- In verità vi dico: ogni volta che l'avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'ave­te fatto a me (Mat. 25, 40).

- Chi accoglie uno di questi fanciulli in mio nome, accoglie me, e chi mi accoglie, non ac­coglie me, ma colui che mi ha mandato (Marco, 9, 37).

- In verità, voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù, per ricadere nel timore, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abba», Padre. Lo spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio: se figli, dun­que, anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cri­sto (Rom. 8, 15-17); (prima lettura nell'ottava do­menica dopo la Pentecoste).

- Io valuto che le sofferenze del tempo presen­te non sono commisurabili alla futura gloria che si manifesterà in noi. L'ansiosa attesa del crea­to, infatti, anela alla manifestazione dei figli di Dio.

Poiché il creato fu sottoposto alla vanità, non per suo volere, bensì a causa di colui che lo sottopose: ma con la speranza che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della cor­ruzione, per giungere alla libertà della gloria dei figli di Dio.

Noi sappiamo infatti che, fino ad ora, tutta la creazione geme e soffre per le doglie del parto. E non essa soltanto, ma anche noi, che abbia­mo le primizie dello Spirito, gemiamo nel no­stro intimo aspettando l'adozione a figli di Dio, il riscatto del nostro corpo: in Cristo Gesù no­stro Signore (Rom. 8, 18-23; prima lettura nella quarta domenica dopo la Pentecoste; cfr. Rom. 9, 4).

Fino a quando l'erede è minorenne, non diffe­risce in nulla da un servo, pur essendo padrone di ogni cosa: egli si trova sotto il potere di tu­tori e di amministratori, fino al tempo stabilito dal padre.

Così noi pure, finché eravamo in minore età, eravamo schiavi degli elementi del mondo. Ma quando giunse la pienezza dei tempi, Dio mandò il Figlio suo, nato da una donna, nato sot­to la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché noi ricevessimo l'adozione di figli.

E la prova che voi siete Figli, è che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: «Abba»: Padre!

Così non sei più schiavo, ma figlio: e, se figlio, anche erede, per grazia di Dio (Gal. 4, 1-7; pri­ma lettura nella domenica dopo Natale; Cfr. Ef. 1, 2-6).

- Se un cristiano, maschio o femmina, diventa orfano, sarà cosa bella e buona che un nostro fratello, senza figli, lo adotti per suo pupillo e lo tratti come suo figlio (Didaché o Costituzioni apostoliche, 4, 1, P.G. 1, 807).

- Non crediate che questo diritto di adozione non sia stato conosciuto dalle Scritture; non immaginate che l'idea sia stata ricavata dalle leggi umane, e che l'adozione sia assolutamente estranea all'autorità degli oracoli divini. Un co­stume antico, spesso ricordato nei libri sacri, prova che la benevolenza genera dei figli tanto quanto la natura: delle donne che non avevano avuto figli adottarono quelli che il loro marito aveva procreato dalla loro serva (...) .

Se le donne potevano avere dei figli senza aver­li messi alla luce, perchè gli uomini non potreb­bero, da parte loro, avere dei figli senza averli generati, adottandoli? Non leggiamo forse che il patriarca Giacobbe, benché fosse già padre di una famiglia tanto numerosa, volle prendere per figli i bambini di suo figlio Giuseppe? (...) . Si dirà che il termine di adozione non si incontra nella Sacra Scrittura? Ma che importa la paro­la, se vi è la realtà? Se si vedono delle donne a­vere dei figli che non hanno messo al mondo, e degli uomini considerare per loro figli dei bam­bini che non hanno generato? (...) .

Considerate, fratelli miei, considerate i dirit­ti che l'adozione; vedete come un uomo di­venta figlio di colui che non gli ha dato la luce. Eppure, per sua sola volontà, chi adotta acqui­sta più diritti di chi l'ha messo al mondo. (S. Agostino, Sermone 51, 16).

- Il maestro che ci ha dato la Provvidenza di Dio per introdurci non è muto; parla, agisce, decide, consiglia e riprende per regolare il no­stro cuore. Chi è dunque? E' quel padre che Dio dà a ogni bambino che nasce. Perciò quale vivo amore Dio ispira ai padri per condurli a guidare i loro figli nel sentiero della virtù! Non si è meno padri per la nascita di un bambino che per la saggia educazione che gli si dà. Es­sere madre non è tanto il generare quanto alle­vare saggiamente il bambino che dà la natura. Voi stessi ne rendete testimonianza che è la virtù e non la natura che ci onora del titolo di padre e madre (S. Giovanni Crisostomo, Prima omelia su Anna, madre di Samuele. P. G.. 53-54, 636).

 

- O Dio onnipotente ed eterno, che rendi la tua Chiesa sempre feconda di nuova prole, aumenta nei nostri catecumeni l'intelligenza della fede: e rinati nel fonte del battesimo saranno aggiunti ai Figli della tua adozione.

(Preghiera per i catecumeni nel venerdì santo).

 

 

 

(1) Traduzione da «Théologie de l'adoption» in Nouvel­le Revue Théologique, n. 5, maggio 1962.

Prospettive assistenziali ringrazia P. Oger e la Direzione di Nouvelle Revue Théologique per aver concesso l'auto­rizzazione a pubblicare la traduzione.

(2) R. DE VAUX O.P., Les institutions de l'Ancien Testa­ment, Les Editions du Cerf, Paris, 1958, t. l, p. 85.

(3) S. MANA, Adoption, dans Dictionnaire de la Bible, t. 1, p. 231.

(4) F. AMIOT, L'enseignement de saint Paul, Gabalda, Paris, 1938, t. I, p. 238.

(5) B. FROGET, O.P., De l'habitation du Saint-Esprit dans les âmes des justes, Lethielleux, Paris, 3ª ed. (1900), pp. 313-314. Da quest'ultimo autore sono ricavate le due citazioni precedenti.

(6) S.I. DOCKX, O.P., Fils de Dieu par grâce, Desclée De Brouwer, Paris, 1948, pp. 21-22.

(7) Ibid., pp. 25-26.

(8) J. HUBY, S.J., Mystique paulinienne et johannique, Desclée De Brouwer, Paris, 1946, pp. 26-27 e 29.

(9) J. B. TERRIEN, S.J., La gràce et la glorie..., Nouvelle édition revue et corrigée, P. Lethielleux, Paris, 1901, p. 40.

(9) J. B. TERRIEN, S.J., La gràce et la glorie..., Nouvelle édition revue et corrigée, P. Lethielleux, Paris, 1901, p. 40.

(10) Vedere a questo proposito: J. HUBY, Mystique paulinienne et johannique, pp. 156-157.

(11) S.I. DOCKX, O.P., Fils de Dieu par grâce, pp. 122­-123.

(12) R. P. LUCIEN DEISS, C.S. Sp., Marie, Fille de Sion, Desclée De Brouwer, 1959, p. 237. Vedere nelle pagine se­guenti la dimostrazione di questa ultima affermazione.

(13) Ibid., p. 239.

(14) F. M. BRAUN, O.P., La Mére des fideles, Caster­man, Tournai - Paris, 1954, 2ª ed., p. 113.

(15) Ibid., p. 91.

 

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